Per trattare in modo sistematico il pacifismo di Erasmo da Rotterdam è necessario partire dal suo personale capolavoro

IRRAZIONALITÀ DELLA GUERRA E PACIFISMO

NEL PENSIERO DI ERASMO DA ROTTERDAM

Holbein il Giovane, Ritratto di Erasmo. Wikipedia p.d.

Erasmo nelle sue riflessioni sviluppa un pensiero pacifista accorato e argomentato, che si oppone alla pazzia del suo tempo e coltiva la speranza di un futuro di pace, rischiarato dal rinascimento della ragione.

Pablo Picasso, “Massacro in Corea (1951)

Per trattare in modo sistematico il pacifismo di Erasmo da Rotterdam è necessario partire dal suo personale capolavoro – un saggio scritto, tra le cose, con grande ironia –, ovvero il celebre Elogio alla follia dove con sarcasmo l’autore veste i panni della pazzia facendone poi un vero e proprio elogio.

Uno spiritoso disegno di Hans Holbein il Giovane della Follia, in una copia della prima edizione del 1515 posseduta da Erasmo stesso. W/p.d.

Tra le pagine dell’opera ci viene descritta la decadenza del tempo in cui Erasmo vive, quella della Chiesa, dei principi e dei sovrani, prendendosi gioco di quella “pazzia”, intesa come menzogna, impostura, eccessiva pienezza di sé, degli uomini di potere che spesso, dietro al paravento della vanagloria, nascondono in realtà la loro mediocrità, l’incapacità di costruire comunità politiche giuste che permettano a loro volta lo sviluppo di società umane fondate sulla pace e sulla convivenza.

Nell’Elogio alla follia Erasmo ci ricorda che l’uomo tende ad elogiare se stesso proporzionalmente al suo modo di agire scriteriato.
Non di rado gli ignoranti provano a celare la loro ignoranza dietro ad un falso sapere; già Socrate, che nell’Apologia di Platone amava smascherare i finti sapienti che facevano della loro ignoranza un punto di forza, celandola dietro a grandi parole e nobili propositi, con però stili di vita basati sull’intreccio tra denaro e potere, lontani dagli ideali professati in pubblica piazza.

Così, Erasmo vuole smascherare l’illusione del tempo in cui vive, il XVI secolo, che sembra nascere solo in nome della guerra che continua ad imperversare.
Uomini, principi e sacerdoti, papi e re: tutti intenti incessantemente ad elogiare se stessi, mai stanchi di esaltare le proprie azioni quando, passando dal regno dell’ideale a quello del reale, il valore del loro agire crolla sotto i colpi della menzogna da loro stessi promulgata.
Gli impostori che governano l’Europa sono desiderosi di convincere non solo gli altri ma anche se stessi di essere il faro che illumina il continente grazie al loro alto profilo morale quando, nella realtà, sono solo dei folli la cui pazzia non permette loro di vedere l’assurdità di ciò che compiono.

La guerra che infuria, uccidendo e distruggendo ne è l’esempio più lampante. Essa ci porta al cuore pulsante del pensiero erasmiano: la necessità della pace.
In questo senso, Erasmo può essere considerato il primo grande pacifista cristiano, pacifismo che avrà una lunga tradizione della quale l’umanista di Rotterdam sarà il primo a gettare le basi in un percorso che proseguirà poi nei secoli, annoverando umanisti della caratura di Lev Tolstoj e Martin Luther King.

Erasmo scrive moltissime opere che vedono come protagonisti delle sue riflessioni l’idea di pace contrapposta alla guerra e all’impatto di queste sull’esistenza degli uomini.
Partiamo ad esaminare la prima, un’orazione intitolata Oratio de pace et discordia contra factiosos (Lamento della pace scacciata e respinta da tutte le nazioni).

In quest’opera Erasmo ci dice che la guerra è ciò che trasforma l’uomo in una belva feroce; il conflitto abbruttisce l’uomo, lo fa regredire ad uno stato animale e primitivo, in una critica antropologica della guerra stessa.
L’uomo, nella visione erasmiana – che si rifà a sua volta ad una certa tradizione cristiana – è uscito buono dalle mani di Dio; l’essere umano primitivo ama la pace e la desidera.
Erasmo, sotto questo punto di vista antropologico e culturale, con posizioni che verranno poi riprese da Jean Jaques Rousseau nel mito del Buon selvaggio, immagina che i primi uomini fossero naturalmente buoni e non conoscessero il conflitto.

Benjamin West, The Death of General Wolfe, 1770, (National Gallery of Canada) Il ritratto di questo indiano d’America creato da West è stato considerato un’idealizzazione nella tradizione del “buon selvaggio”

Questa tradizione dell’uomo buono per natura è fatta propria da Erasmo da Rotterdam, che individua poi il punto di rottura di questa condizione: la caccia trasforma l’uomo in un essere che si abitua alla violenza.
Dunque, è la caccia nei confronti degli animali ad instillare nell’essere umano la propensione alla guerra divenendo un habitus, una convenzione sociale.
Ci troviamo quindi davanti ad una critica che potrebbe essere avvicinata ad un una forma di animalismo ante litteram.
Dal punto di vista etico e spirituale la pratica della caccia porta ad essere violenti verso gli altri esseri umani, contribuendo a creare quella forma mentis per la quale la guerra non è solo accettabile ma anche perseguibile in modo autonomo.
Il conflitto tutto inghiotte e annichilisce nella sua smania distruttiva, anche a livello metafisico: l’anima dell’uomo che combatte contro altri uomini viene travolta, macchiata, lacerata dai dubbi morali in termini di giustizia.
L’imbruttimento che porta con sé tende allora a scendere ad un livello più profondo: l’uomo non abbruttisce solo nei comportamenti violenti verso gli altri ma precipita la sua anima in una dimensione ferina dove a dominare è l’istinto di assoggettamento.
Questo slancio verso la guerra e la violenza che porta con sé genera tuttavia all’interno delle società umane una nuova forma di diseguaglianza.

Pablo Picasso, Guernica (1937)

Con la locuzione latina dulce bellum inexpertis (la guerra è dolce per quelli che non l’hanno sperimentata) Erasmo sottolinea una forma di abbandono della realtà da parte di chi sostiene aprioristicamente il conflitto, spesso per motivi ideologici: chi non partecipa fisicamente alla guerra pensa che questa sia bella e ne subisce il morboso fascino.
È da notare come qui si assista ad uno spostamento di giudizio sulla guerra: da una parte, per chi la combatte, è sinonimo di bruttura; mentre per chi ne discute attorno ad un tavolo e al sicuro possiede una sua bellezza intrinseca, una sua affascinante logica.
Strateghi, politici, consiglieri militari, esperti dell’informazione, addetti alla propaganda parlano della guerra, delle atrocità che si consumano nel combatterla ma sostanzialmente non hanno mai vissuto realmente e intimamente il conflitto sulla propria pelle.
Quando i proiettili fischiano, le lame sibilano, le mine esplodono e i cannoni tuonano; quando la mitragliatrice falcia vite umane come grano maturo, quando le schegge dilaniano corpi inermi, quando i villaggi vengono incendiati e rasi al suolo, quando i civili disarmati vengono brutalmente uccisi.

Marinetti con alcune pubblicazioni futuriste. W/p.d.

Quando la guerra mostra il proprio volto alle persone che la combattono, non è così bella come la idealizza chi non la vive di prima persona.
Come si può osservare, siamo molto distanti dalle idealizzazioni artistiche del conflitto come, ad esempio, quella sostenuta da Filippo Tommaso Marinetti che, nel Novecento, farà riferimento alla mitragliatrice come un formidabile oggetto che emana «un suono soave» sul quale si può persino ballare – dichiarazioni maturate senza che però l’autore abbia mai partecipato ad azioni belliche in prima linea.
L’ideologizzazione della guerra e la conseguente esaltazione porta, per assurdo, a considerare la trincea il luogo “dell’amore” in cui l’uomo soldato amoreggia con la propria arma e la morte è spesso idealizzata come una dama da corteggiare.
Tuttavia, l’eroismo sfrenato, la costruzione metaforica e l’esaltazione, spesso di natura propagandistica, del conflitto non può celare la presa di coscienza della fragilità e della provvisorietà esistenziale che la domina.
In guerra la paura è ovunque e la paura di morire copre e avvolge ogni altro aspetto dell’esperienza bellica; tutto è riconducibile ad essa e tutto da questa si propaga.
Ed è propria l’assenza di paura che permette a quelli che Erasmo definisce inesperti di vedere in essa una forma di bellezza: coloro che sono nelle retrovie come gli alti ufficiali dell’esercito non sono sul campo di battaglia ma a debita distanza da esso.
Non sentono paura, non la sperimentano sulla loro pelle, non la vedono dispiegarsi davanti ai loro occhi.

Trincee nella prima guerra mondiale

La distanza, lo scarto che separa dalla prima linea, tiene lontana la paura e con essa un’autentica consapevolezza di cosa la guerra porta con sé.
Sulle mappe degli strateghi militari vengono mosse truppe e fissati obiettivi dimenticando che spesso, dietro quei simulacri, vi sono soldati e civili che soffrono e muoiono.
L’assenza di paura genera l’assenza di coscienza, portando l’inesperto a mitizzare una guerra di cui, essenzialmente, non conosce la vera natura ma solo l’immagine distorta in una positiva negatività, in un’estetica della morte e del dolore.
Pertanto, come recitava il titolo del saggio a cui si è fatto prima accenno la «pace si lamenta» e nel suo pianto c’è il dolore di essere stata rigettata e annientata dalle nazioni, i regni, gli stati e gli imperi.

Gli uomini di potere hanno abbandonato la pace, l’hanno dimenticata e rimossa dal proprio governo ignorando che quella stessa pace potrebbe essere l’unico orizzonte entro il quale è possibile dare agli uomini e alle donne una vita serena e giusta.
Se la pace giace abbandonata e dimenticata da tutti, la guerra, pur essendo un’assurda e tragica follia, ha preso il dominio del mondo.
Erasmo, non a caso, scrive quest’opera nel Cinquecento, secolo in cui il continente europeo è flagellato dai conflitti religiosi ma la sua analisi mantiene intatta nel tempo un’attualità disarmante e applicabile ad altre epoche storiche.

La storia dell’Europa è costellata di guerre e nel Novecento questi conflitti assumeranno dimensioni mondiali e potenzialmente distruttivi per l’intero genere umano mediante gli ordigni atomici.
Erasmo, in questo senso, è già precursore e non si limita a criticare la guerra come follia ma anche i modi in cui questa viene combattuta e che ne vanno ad acuire gli aspetti immorali.
Il pensatore di Rotterdam critica, ad esempio, le armi da fuoco – «armi vigliacche» le definisce –, strumenti mortali che non richiedono le regole del duello e che in mano a chiunque possono dispensare morte dove anche uno sciocco o un bambino può uccidere con una pistola in pugno.
Per quanto ugualmente ripugnante, uccidere con le armi bianche non è così semplice e immediato come lo sarà con le armi da fuoco che, dal tempo di Erasmo in poi, si faranno sempre più evolute (e anche qui siamo al cospetto di una forma di progresso che va contro l’ordine della ragione) rendendo la guerra ancora più facile, intuitiva e semplice.
Una di queste evoluzioni del conflitto sfocerà nell’assurdo paradigma della “guerra intelligente” che spesso sentiamo richiamare in merito ai molti conflitti che continuano a divampare in tutto il globo.
Se Erasmo potesse osservare il progresso bellico raggiunto nel mondo contemporaneo vedrebbe di certo una forma di involuzione e la guerra ancora più barbara e divisiva tra “inesperti” che la combattono virtualmente e persone in carne ed ossa che pagano sulla loro pelle il prezzo di decisioni prese in luoghi remoti per motivi spesso labili e incomprensibili (guerre energetiche, ordini geopolitici, equilibri segreti tra forze).

Pablo Picasso, “La guerra” (1952)

Che cos’è allora la guerra? Erasmo, in questo senso, non ha dubbi: è un oltraggio alla ragione.
L’uomo che fa la guerra non possiede alcuna virtù se non l’essere irrazionale.
La razionalità tecnica della guerra, sempre più preponderante, dove si calcolano preventivamente perdite e feriti è, in realtà, una forma di irrazionalità; una razionalità tecnica che va contro quella di fondo che dovrebbe sorreggere l’idea di umanità, di giustizia e della pace.
È profondamente irrazionale muovere, seppur seguendo una logica, uomini come pedine e condurle al dolore e alla morte.
In questo senso, guardando alla contemporaneità, è davvero razionale che esistano grandi depositi di ordigni nucleari sparsi per il globo sapendo di non poterli utilizzare in quanto ciò significherebbe infrangere il principio di Clausewitz e portare la nostra razza all’estinzione?
Il termine “deterrenza” viene usato per scusare la presenza di tali armamenti: ma i fondi, le risorse umane e fisiche impiegati per lo sviluppo e il mantenimento di tali arsenali non potrebbero essere impiegati dai singoli governi per incentivare altri aspetti del vivere associato (la scolarizzazione, la sanità, la ricerca scientifica)?
Domande che evidenziano come la logica della guerra non segua una logica umana bensì cerchi di trasportare sul piano del razionale un modo di pensare e di agire irrazionale e contrario a qualsiasi ordine della ragione.
Quindi la guerra, pur inquadrandola razionalmente, rimane profondamente inconciliabile con qualsiasi vita ideale per l’uomo.

Erasmo, una volta constatato il paradosso che incarna la guerra si pone una domanda: che cos’è la pace?
Istintivamente si potrebbe rispondere che per pace intendiamo l’assenza di guerra, ma per il pensatore di Rotterdam non è esattamente così.
La pace, per Erasmo, è una virtù che trascende la presenza del conflitto tra gli uomini.
L’assenza di guerra è una negazione, cioè il suo non essere presente qui e ora ma comunque esistente e annoverabile tra i concetti posseduti dagli uomini; una pace intesa come mera assenza di guerra è solo cattività di quest’ultima.
La pace dovrebbe essere invece una virtù morale, presente in modo “innato” nell’animo delle persone, una propensione naturale, un istinto che dovrebbero possedere tutti gli uomini in ogni ordine e grado, in primis coloro che governano.
Quindi Erasmo si chiede come sia possibile che le autorità del suo tempo, papi, principi e vescovi, benedicano cannoni, spade e lance in nome di una “guerra necessaria per la pace”.
Tutti chiedono a Dio di benedire le proprie armi e di intervenire sulle sorti della guerra ma il divino, dice Erasmo, può essere solo ed esclusivamente il Dio della pace.
Pertanto, questi uomini scelgono volontariamente l’immoralità in quanto agli occhi di Dio non esiste una “guerra giusta”.

Ecco dunque l’appello alla classe dirigente che deve sempre coltivare la virtù morale della pace nella propria anima e riconoscerla non come alternativa alla guerra bensì come unica possibilità per quelle società umane che intendano essere autenticamente libere, emancipate e felici.
La pace è sempre una scelta lungimirante in quanto permette alla vita umana di proliferare nelle sue innumerevoli manifestazioni, individuali quanto comunitarie.
Nella guerra – che non va solo tralasciata ma totalmente rimossa dal lessico degli uomini – prevalgono invece l’odio, la violenza, gli incendi, gli stupri e il massacro degli innocenti; nel conflitto il ricco accresce il superfluo che lo circonda mentre il povero precipita sempre più in basso verso la totale indigenza.
Nella disgregazione della guerra, dice Erasmo, si viene a creare un mondo capovolto dove viene meno la dimensione del vivere comune, in cui non è possibile costruire con l’altro diverso da noi un percorso condiviso.

Pablo Picasso, “La pace” (1952)

La pace è invece una potenza che permette di vivere un’esistenza libera, che fa dell’incontro e della condivisione l’asse portante sul quale incardinare una vita felice.
Va quindi sempre scelta a priori perché maggiormente razionale della guerra e rispetto a questa più conveniente per l’uomo, sia dal punto di vista materiale che spirituale.
Il pensiero pacifista di Erasmo da Rotterdam va quindi riscoperto nella sua capacità profetica, che trascende il proprio tempo, di vedere nella pace l’unico orizzonte in cui l’uomo possa realmente essere emancipato dal terrore e dalla paura.  

Giuseppe Pasquali

 

 

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