Guardo un ritratto…
IRREGOLARI
Guardo un ritratto… o meglio, un autoritratto, di Salvator Rosa. Se stesso in veste di Guerriero. Baffi spioventi e sguardo da bravaccio, la mano sulla spada.
Un irregolare. Non saprei dire, neppure dopo avervi riflettuto a lungo, se fosse davvero un… grande. In una qualche cosa, delle molte, che fece nella sua, tutto sommato non lunga, vita.
Certo, fu un pittore vigoroso, e al contempo non privo di grazia… e un poeta caustico, un satirico come pochi.
E fu, a quanto ricordo, un’ottima spada. Sempre pronto a sguainarla per difendere quello che, con molta larghezza, considerava il suo senso, peculiare, dell’onore.
In sostanza, un irregolare. Non il solo di quelli che popolano le mie notti, più o meno, insonni. Perché, certo, il pantheon, se così vogliamo chiamarlo, dei miei classici, dei riferimenti letterari che popolano i miei giorni, è nutrito. E, a tutta prima, può apparire convenzionale. Dante, Goethe, Shakespeare… e potrei continuare. In apparenza, il gran banale di un’erudizione letteraria. La tradizione e la convenzione.
Anche se, poi, sarebbe da vedere come questi classici li si legge. E come, soprattutto, li si interpreta.
Poi, però, vi sono gli altri. I fantasmi inquieti, talvolta inquietanti, che balzano fuori dalle pieghe, o piaghe irrisolte, di tradizioni apparentemente ridotte a convenzioni. E che ne sovvertono i canoni. Ne spezzano quel senso di, placida, continuità, con cui siamo adusi dipingerceli.
Irregolari. Come Salvatore Rosa, appunto. Più personaggio da romanzo che artista storicamente inserito nel suo secolo barocco.
O come quel gran briccone del Cecco Angiolieri. Che osò tenzonare con Dante stesso. E il Dante, però, ci stava, con divertimento. Perché riconosceva in quel bravaccio di Cecco una tempra di poeta autentico. E perché, in fondo, anche in lui vi era una vena – e che vena… importante, fondamentale… – che lo spingeva a giocare con le parole. A scherzare, in maniera non priva di ferocia.
Per non parlare del Teofilo Folengo. Che faceva il frate. Ma che scriveva maccheronee senza pari. Addirittura un poema, il Baldus, incentrato su un antieroe popolare, un grottesco picaro da ventura, capace di ogni nefandezza. E di adornarla – qui stava il genio – con il linguaggio di un latino reinventato e rivisto. Un latino tanto ingegnoso quanto irreale.
E il Morgante del Pulci? La casata medicea gli ordina un poema celebrativo per gli accordi, economici, con la Francia…e lui che ti fa? Si dimentica, quasi subito, di Orlando, per altro ridotto ad una sorta di caricatura dell’originale Roland. E al centro ti mette questo gigante vigliacco e infido, ma accidenti! simpatico, che ne combina di cotte e di crude. Prima di andare, comunque, a morire a Roncisvalle.
E Rabelais? Il suo Gargantua e Pantagruel resta una pietra miliare del grottesco. E del saper giocare con l’assurdo. D’altro canto, anche il tanto osannato Shakespeare – chissà, poi, s’era davvero siciliano… – non ti invente Falstaff? E ne fa il comprimario in un paio dei suoi, ben più seri, Chronical Papers, una vena di follia dietro l’apparente serietà drammatica. E poi lo fa sfogare, e punire, dalle sue Allegre Comari di Windsor…
Di lì a Ben Johnson, al suo Volpone, il passo è davvero breve. E breve è, anche, la distanza col Jeeves di Wodehouse…
Questo gusto per irridere alle cose dagli altri tenute in gran conto… questa ironia, pesante o leggera, che scardina il mondo…
Questo saper ridere di ogni cosa…
Guardo ancora il ritratto di Salvator Rosa.
Mi sembra, ora, che stia ammiccando… dietro la parvenza aspra, da sfida.
Chissà… forse sapeva che…
Ma no. È solo suggestione. Solo… suggestione.