Una caccia all’uomo fra sentieri nascosti, masi abbandonati, cadaveri senza nome e interrogativi per cui, forse, non esiste risposta. In particolare uno: qual è l’animale più pericoloso?

 

Dora Holler ha tredici anni e le idee chiare su ciò che non va nel mondo. Adesso si è data una missione: salvare il nido di una lince. Perciò scappa di casa con Gert, uno che ha conosciuto su Internet.

Solo che Gert è un adulto e, soprattutto, il movimento ecologista di cui dice di far parte non esiste. Gert le ha mentito; mente sempre, perfino a sé stesso. Una fuga che doveva essere un viaggio iniziatico si trasforma in un incubo, impigliandosi nelle maglie di un disegno spaventoso che parte da molto lontano. La ricerca di Dora scatena volontari armati di fucile, teste calde e lotte di potere. Per salvarla serve qualcuno che ha conosciuto da vicino l’essenza più pura dell’orrore, un uomo «secco come un colpo di manganello e dallo sguardo come filo spinato». Il capitano dei carabinieri Viktor Martini, quello che in un’altra vita, a Roma, ha catturato lo Squartatore di Testaccio. E da allora non è più lo stesso.

La trama del romanzo

Dora Holler ha tredici anni e le idee chiare su ciò che non va nel mondo. Adesso si è data una missione: salvare il nido di una lince. Perciò scappa di casa con Gert, uno che ha conosciuto su Internet. Solo che Gert è un adulto e, soprattutto, il movimento ecologista di cui dice di far parte non esiste. Gert le ha mentito; mente sempre, perfino a sé stesso. Una fuga che doveva essere un viaggio iniziatico si trasforma in un incubo, impigliandosi nelle maglie di un disegno spaventoso che parte da molto lontano. La ricerca di Dora scatena volontari armati di fucile, teste calde e lotte di potere. Per salvarla serve qualcuno che ha conosciuto da vicino l’essenza più pura dell’orrore, un uomo «secco come un colpo di manganello e dallo sguardo come filo spinato». Il capitano dei carabinieri Viktor Martini, quello che in un’altra vita, a Roma, ha catturato lo Squartatore di Testaccio. E da allora non è più lo stesso.

Come inizia

 

 

                                                           L’animale più pericoloso

per Alessandra,

custode dei miei silenzi

 

 

   La danza delle aquile

   L’ansia la costrinse a uscire in anticipo, la rabbia a lasciare il mazzo di chiavi in bella vista al centro del tavolo in cucina. Chiusa la porta, tornò a respirare.

   Superò il panificio della signora Kircher, il bar di Alois, il Despar, la filiale della Volksbank e il negozio di articoli sportivi del signor Wegener con la statua di Sepp Innerkofler in vetrina. Camminò a testa bassa, sudando sotto la tuta da ginnastica di una taglia più grande che indossava non per il freddo (i milletrecento metri di altitudine di Sesto Pusteria potevano mitigare, non ignorare quell’agosto torrido), ma perché l’estate era la stagione che piaceva solo alle ragazze che si avvicinavano allo specchio senza sentire le budella fare le capriole.

   Dora aveva tredici anni e stava scappando di casa perché portava le trecce come Greta Thunberg, perché leggeva un sacco di libri e guardava ancora più documentari, perché aveva deciso che il tofu era meglio dello speck, perché sua madre mentiva quando le assicurava che questa ragazza-bruco sarebbe presto diventata una splendida ragazza-farfalla, ma soprattutto perché suo padre, l’uomo che una volta l’aveva portata sulla Croda Rossa ad ammirare la danza d’amore delle aquile, le aveva detto che «certe faccende» non erano «roba per tredicenni».

   Attraversò il Rio Sesto passando sul vecchio ponticello di legno e si inoltrò lungo il sentiero che puntava a sud, le trecce bionde che salterellavano allegre e il sottile rimpianto di aver abbandonato sul comodino la biografia di Dian Fossey. Ma fra un paperback ingiallito che ricordava parola per parola e una borraccia in più nello zaino non c’era gara. Riempire uno zaino non è un capriccio, è una scienza.

   Dopo una ventina di minuti sotto il sole infuocato, fra prati verdi da far male agli occhi, il sentiero la condusse nel folto del bosco dove la fragranza di resina si fece pungente, fino a un bivio in cui si fermò per controllare l’ora. Era in anticipo. Riposto lo smartphone, accelerò in direzione est. Cambiò diversi sentieri senza mai esaminare la cartina, perché conosceva la zona come le sue tasche, sostando solo per un sorso d’acqua ogni tanto.

   Marciò con il cuore che batteva piú forte mano a mano che si avvicinava alla meta, non per stanchezza e nemmeno perché stava scappando di casa. Il cuore di Dora Maria Holler, nata e cresciuta a Sesto Pusteria, Alto Adige Südtirol – prima della classe in ogni materia (tranne quella che costringeva le Dora di questo mondo a indossare magliette e pantaloncini corti) –, faceva tutto quel chiasso perché aveva un appuntamento, e suo padre le aveva detto che l’amore era come la danza delle aquile.

   Strano, pericoloso, e per sempre.

   Il carabiniere scelto Melan si era arruolato per poter infrangere ogni norma del codice stradale e in cambio ottenere uno stipendio. Certo, l’aveva fatto anche per via del senso della giustizia, per difendere i più deboli, per spirito di sacrificio e per quelle cose giustissime e bellissime in cui credeva sinceramente e che usava per far colpo sulle ragazze. Però l’adrenalina vinceva su tutto.

   In Alto Adige, sede del suo primo assegnamento operativo, Melan aveva scoperto le strade di montagna. Curve, tornanti, dossi da far spavento: amore a prima vista. Ma l’amore sapeva essere ingrato, e dopo un anno passato senza mai provare nemmeno l’ebrezza del posteggio in doppia fila, Melan iniziava a vedere i suoi sogni di gloria mutare in miraggi inafferrabili. Quando poi gli capitava di fare coppia con il brigadiere Terlizzi il miraggio assumeva i contorni dell’incubo. Terlizzi, un cinquantenne nato a Pantelleria dai capelli biondi come quelli di Thor, taciturno come la Sfinge e pedante come un Autovelox, si era messo in testa di insegnargli il mestiere vero: ore e ore a guidare in un silenzio irreale spezzato da un unico mantra: «Guarda, osserva e vai piano». Poche parole ossessivamente scandite che, quando il brigadiere aveva la luna storta, si tramutavano in un più crudo ed efficace «Vidi, talía e vai adashu». Melan si impediva di far notare al superiore che dal suo punto di vista «guardare» e «osservare» erano sinonimi, limitandosi a rispettare l’adashu tenendo il tachimetro sotto i quaranta, e pregando per un po’ di azione.

   Quel giorno le sue suppliche furono esaudite.

   Dalla curva che il Renegade aveva appena imboccato sbucò un trattore rosso, a tutta velocità e in pieno contromano. Ottanta, forse novanta chilometri orari. Melan ancora non aveva capito che guardare e osservare erano sport completamente diversi, ma aveva i riflessi di un pilota di caccia e col volante ci sapeva fare sul serio. Schivò il tank color Ferrari con un testa-coda che fece fischiare gli pneumatici, controsterzò quando il Renegade uscì dalla striscia asfaltata, mantenne l’assetto scalando le marce poi, mentre rallentava fino a fermarsi, vide il brigadiere Terlizzi schizzare verso il contadino che, miracolosamente illeso, barcollava fuori dal trattore incastrato nel guard-rail, biascicando chissà cosa. Melan sospirò. Diede un colpetto affettuoso al volante, accese i lampeggianti e con un po’ di retromarcia posizionò il Renegade in modo che fosse ben visibile a chiunque percorresse la corsia. Scese, notò con una punta di vanità che il Suv nero non aveva subito nemmeno un graffio, aprì il baule e solo quando ne emerse con il necessario per l’alcoltest lanciò un’occhiata al brigadiere e al Bauer kamikaze. Il contadino, un vecchio con la barba lunga e il grembiule blu sudtirolese d’ordinanza stretto in vita, stava piangendo aggrappato a Terlizzi che, per nulla turbato, lo cingeva a sua volta per le spalle.

   Da quando il motto dell’Arma era diventato «abbracciali e confortali»?

   La stazione dei carabinieri di San Candido era bella, c’erano persino i gerani alle finestre. Il maresciallo Fanti, seduto sotto il getto dell’aria condizionata, mentre si arrovellava sulla situazione, incrociò il proprio riflesso sulla porta a vetri e, all’improvviso e senza motivo, ebbe una specie di epifania.

   Quel luogo custodiva trent’anni dei suoi ricordi più preziosi. Nella sala riunioni aveva stappato lo spumante quando era diventato padre, nell’ufficio comando aveva ricevuto l’encomio per aver salvato un turista nel ’98, chiuso nel bagno dei sottufficiali aveva pianto quando suo figlio si era laureato, eppure, si rese conto con stupore, non erano solo i ricordi il motivo per cui amava quel posto. Per trent’anni, fra quelle mura, il maresciallo Fanti si era sentito realizzato.

   Il suo lavoro era riassumibile in una parola, la cui importanza in pochi avrebbero potuto capire: mediazione. Mediava fra fratelli, fra marito, moglie e terzo incomodo, fra il giovanotto esagitato e la sua stupida testa calda, fra l’ubriacone e le chiavi della sua automobile, fra turisti e albergatori. Mediava. Mediava sempre. Perché alle volte mediare significava evitare spargimenti di sangue e mediare gli era sempre riuscito bene. Tranne quando si trattava della situazione.

   La situazione ruotava attorno all’Inquilino dell’ufficio s, il tizio arrivato da nemmeno un paio di mesi che salutava sempre ma non sorrideva mai, vestiva jeans-maglietta-giacca-da-barbone anziché indossare la divisa e che, con gli auricolari nelle orecchie e la musica a tutto volume, senza che nessuno glielo avesse chiesto o tantomeno ordinato, si era fatto carico della zavorra che rendeva l’ufficio s, cioè l’ufficio scartoffie, l’anticamera dell’inferno. Compilava verbali, ordini di servizio, allegati riguardanti mezzi e/o persone sospette, riempiva moduli, trascriveva intercettazioni, si occupava persino delle pratiche per la benzina e la mensa. Dalle otto del mattino alle otto di sera a battere sulla tastiera del computer: tic-tic-tic. Uno così sarebbe stato una manna dal cielo, non fosse che l’Inquilino aveva un cognome (Martini, come il cocktail), un nome (Viktor, con la k, come il papà di Frankenstein), un grado (capitano, come Orlandi, il comandante della stazione), e un maledetto procedimento in corso per omicidio.

   Ecco perché la situazione rendeva tutti nervosi, soprattutto il capitano Orlandi, cui era concesso soltanto di rodersi il fegato in silenzio, visto che la situazione derivava da un ordine diretto del generale Leoni, che non era solo il comandante della Legione Trentino Alto Adige, ma una vera e propria leggenda. Ed ecco perché Fanti, il grande mediatore, non poteva mediare un bel…

   La porta a vetri si aprì.

   La donna aveva perso una scarpa. L’uomo la sorreggeva per la vita. Naufraghi, pensò il maresciallo, facendosi loro incontro. I naufraghi non arrivavano lì in cerca di giustizia (o vendetta o desiderio di ripicca) come la maggior parte delle persone. Lo facevano perché la disperazione non aveva lasciato loro altro luogo in cui andare. E, disperati, quei due lo erano sul serio.

   Mormorando parole rassicuranti il maresciallo li sospinse nella sala colloqui dove, senza farsi vedere, tolse la suoneria dal cellulare e cominciò la registrazione. Non avrebbe avuto alcun valore legale, ma l’esperienza gli aveva insegnato che, per quanto confuso, il primo resoconto dei naufraghi è spesso il più importante. Anziché parlare, però, la donna mostrò due fotografie. Nella prima sorrideva una ragazzina bionda dallo sguardo vispo, che somigliava così tanto a entrambi da non lasciar dubbi sulla sua identità; l’altra immortalava una lince nell’atto di spiccare un balzo. Suo malgrado Fanti represse un brivido.

   Forse a causarlo furono le fauci dell’animale, forse fu lo sguardo vuoto della donna o il modo in cui l’uomo non smetteva di passarsi le mani fra i capelli, o forse, a causargli i brividi, era il dannato tic-tic-tic che proveniva dall’ufficio s.

   Sembrava il timer di una bomba.

   Le indicazioni del vecchio contadino in preda al panico si dimostrarono precise. Zona Geiger, fra San Candido e Prato alla Drava. Il brigadiere Terlizzi non batté ciglio né davanti al veicolo al centro dello spiazzo né alla vista dei fori di proiettile. Annotò che il primo era un Renault Midlum da 14 tonnellate adibito a uso speciale, con targa austriaca, bianco con fregi blu, e che i secondi, raggruppati in una rosa parecchio stretta, erano stati prodotti da un .308 Winchester o da qualcosa di equivalente. Rimase immobile a fissarli finché non scorse Melan avvicinarsi al portellone dell’autocarro con l’intenzione di aprirlo. Un fischio e il carabiniere scelto si bloccò, scuotendo la testa. Il simbolo del pericolo di contaminazione biologica era stampato bello grande sul retro del Renault, ma Melan, sotto shock, l’aveva guardato e non l’aveva visto. Comprensibile. In addestramento, pensò Terlizzi, non ti dicono che il sangue ha quest’odore, non ti dicono che il ronzio delle mosche rischia di farti diventare scemo.

   Mani dietro la schiena, il brigadiere calcolò che tutto quel sangue sul volante, sul sedile e fuori dal veicolo significava che non troppo distante avrebbero trovato un cadavere. Nessuno sopravvive a una simile emorragia. A meno che l’assalitore non si fosse preso la briga di portare via il corpo. Ipotesi. Terlizzi non si fidava delle ipotesi. Le lasciava ai superiori. Lui si fidava delle chiazze di sangue, e quelle puntavano verso una macchia di pino mugo. Cento, forse centoventi metri di distanza. Terlizzi indicò a Melan gli alberi bassi e contorti.

   – Guarda, osserva e vai piano.

   Il giovane carabiniere, in mezzo al ronzio delle mosche, seguendo il sangue, iniziò a capire la differenza fra guardare e osservare. Fu guardando e osservando che trovò il cadavere. Maschio, sul metro e sessantacinque, magro, una tuta da lavoro indosso, riverso su sé stesso, le mani sullo stomaco e metà del cranio sparso intorno. Melan riuscì a non vomitare, tornò indietro e annunciò di aver intravisto, fra le radici delle piante, il bossolo di un’arma da fuoco. Corta o lunga? Corta.

   Il brigadiere lo congedò e si attaccò al telefono. Non era la prima scena del crimine in cui si imbatteva, sapeva cosa andava fatto e come, perciò non tentennò neppure quando sentì scattare la segreteria telefonica del maresciallo Fanti. Era il bello della gerarchia: c’era sempre un altro numero da comporre.

   Il capitano Orlandi rispose al secondo squillo. Il brigadiere spiegò con meno di trenta parole quanto accaduto e quanto stava vedendo. Ricevette gli ordini, salutò, decise di lasciare a Melan ancora qualche minuto per riprendere fiato, e si avvicinò al Bauer indirizzandogli un «A scheane grosse Scheisse, ah?» in perfetto dialetto pusterese con giusto un fondo di sicilianità. Se non altro, riuscì a strappare un mezzo sorriso al contadino che, dopo essersi acceso una sigaretta, ribatté serio: – Bella grande e poco profumata, brigadiere.

   Giunta sul luogo dell’appuntamento, mentre il tramonto esplodeva in sfumature di rosso così numerose che alcune non avevano nemmeno un nome, Dora si sedette su un piccolo masso coperto di muschio. Per scacciare il desiderio di mordicchiarsi le unghie, chiuse gli occhi e pensò alla danza d’amore delle aquile.

   Iniziava con il maschio e la femmina che si studiavano, planando in cerchi simili a giri di walzer. Il maschio a quota più alta, la femmina più in basso. Potevano continuare per giorni. Toccava alla femmina decidere quando trasformare il walzer in un tango. Lo faceva con zia, infischiandosene delle correnti d’aria e della forza di gravità, ruotando su sé stessa e librandosi in volo rovesciato: schiena alla terra e sguardo rivolto al futuro compagno. Un invito ad avvicinarsi. Lentamente, però, perché l’irruenza non era né concessa né ammessa. Una cabrata, un’altra più stretta. Le ali che si sfioravano, l’artiglio che lambiva le penne più robuste poi, se la femmina lo permetteva, una carezza alle piume morbide del ventre. Il tocco leggero fra i due rostri acuminati, il primo bacio, chiedeva al maschio di dare prova di forza e generosità. Il maschio quindi si allontanava, scrutava fra arbusti, alberi o rocce e non appena avvistava una lepre, una marmotta o un furetto, chiudeva le ali e a velocità folle piombava sulla preda, l’afferrava con gli artigli e tornava in cielo per offrirla alla femmina. E se lei accettava di mangiare dal suo becco, nella stessa maniera in cui aveva ricevuto il cibo quando era un pulcino, la danza si concludeva in un vortice di passione, trasformandosi nella melodia segreta che avrebbe accompagnato i due rapaci fino alla fine dei loro giorni. Perché l’amore delle aquile era strano, pericoloso e per sempre. E così, per un attimo, si sentì Dora. Piena di un amore che cancellava ogni preoccupazione. La notte incombente, l’ansia, le faccende che non erano roba da tredicenni, tutto dimenticato.

   Dimenticò persino che la danza delle aquile prevedeva sempre la morte di un innocente.

   L’Inquilino dell’ufficio s

   L’angoscia dei naufraghi trasformava ogni parola in un atto di impotenza. Toccava a chi stava dalla parte giusta della scrivania ricostruire una logica in ciò che raccontavano. Loro era già tanto che respirassero.

   Arrivato al termine della deposizione il maresciallo Fanti lasciò soli i genitori di Dora. Provò inutilmente a contattare il capitano Orlandi, quindi chiamò il tribunale dei minori. La Pm si chiamava Elena Pellegrini. A lei Fanti lasciò un messaggio in segreteria. Prese fiato, tentò di scacciare dalle orecchie il tic-tic-tic dell’ufficio scartoffie, indossò il suo sorriso più rassicurante e rientrò nell’aria fetida della sala colloqui. L’angoscia ha un odore tutto suo. Metallo, soprattutto.

   – Sta arrivando la dottoressa Pellegrini del tribunale dei minori. Sarà lei a decidere le prossime mosse.

   – Decidere? – ripeté come istupidito il padre di Dora. – Cosa c’è da decidere? Dobbiamo…

   Matthias Holler era nel direttivo del soccorso alpino di Sesto. Fanti l’aveva incrociato un paio di volte. Un cowboy delle montagne col mento volitivo e la battuta pronta. Di quel Matthias Holler non restava che il guscio. Fanti cercò di non provare pena. Lui era quello seduto dalla parte giusta della scrivania.

   – Dobbiamo fare un po’ d’ordine per spiegare in modo chiaro le cose alla dottoressa. Capisce, signor Holler?

   No, l’uomo non capiva, glielo si leggeva in faccia. – Ci vogliono i cani. E i volontari. Vigili del fuoco, protezione civile. Freiwillige. Tutti i Freiwillige disponibili. E i cani. I cani sono…

   – Dora ha lasciato casa con uno zaino, gli scarponi da montagna, una cartina, diverse provviste e l’idea di andare a salvare una lince. Fin qui ho capito bene?

    – Non una lince, un nido di lince. In Val Fiscalina. È andata lì, ne sono sicuro. Se ci sbrighiamo…

   – Torniamo al 16 aprile, per favore?

   Gli occhi del padre di Dora si fecero più attenti, forse perché parlare del proprio lavoro significava abbandonare per un po’ la sofferenza del presente.

   – Una coppia di scalatori. Uno dei due era scivolato e si era rotto il femore. Una brutta frattura. Il compagno di cordata non riusciva a darci le coordinate precise. In fondo alla Val Fiscalina, diceva.

   – Un po’ vago, – commentò il maresciallo aprendo sulla scrivania la cartina della zona.

   Matthias Holler scosse le spalle. – Shock. È sempre cosí. Nel giro di cinque minuti eravamo in volo e dopo dieci li abbiamo visti, incrodati su una cengia stretta, esposta ai venti. Abbiamo verricellato il medico, che ci ha comunicato che non c’era pericolo di emorragia. Avevamo il tempo per preparare il ferito senza dover fare le corse, così siamo atterrati su una cima poco distante perché l’elicottero smuove aria e sassi ed è meglio essere prudenti. E qui abbiamo visto la lince –. L’uomo indicò un luogo preciso sulla mappa. – Una femmina. Ho scattato un paio di foto perché sapevo che a… che a mia figlia avrebbe fatto piacere… io… Sono stato così stupido, così stupido!

   – Il nido, – lo incalzò Fanti, – l’avete visto subito o quando avete ripreso il volo?

   Un colpo di tosse. – Dopo, in volo. Il territorio di una lince può arrivare a quattrocento chilometri quadrati ed è raro vedere un nido, ma con il ferito a bordo non c’era il tempo di fotografarlo. Però la zona è questa, ne sono certo.

   – E l’ha detto a Dora.

   – Ho fatto di peggio, maresciallo.

   I fari allestiti dai vigili del fuoco illuminavano il Renault, la macchia di pino mugo, i carabinieri e i tecnici di una luce cruda che feriva gli occhi.

   Orlandi si godeva la scena. Quella era la Macchina e lui adorava la Macchina. «Loro vogliono tutto e subito, noi abbiamo pazienza. Loro sono soli, perché non possono fidarsi di nessuno, noi siamo parte l’uno dell’altro. Noi siamo gli ingranaggi della Macchina. E la Macchina vince sempre».

   Quello che il capitano Orlandi non aggiungeva era che in pochi potevano azionare le leve della Macchina. I migliori. Come lui. Non era un giudizio dettato dalla vanità. Dall’inizio dell’anno c’erano stati quattro omicidi nella sua giurisdizione. Tre degli assassini li aveva arrestati nel giro di ventiquattr’ore, il quarto si era presentato con un avvocato dopo dodici, ed era il suo sospettato.

   Entro la fine dell’anno Orlandi sarebbe stato promosso maggiore e avrebbe inoltrato domanda di trasferimento. Roma. Aveva le idee chiare sul proprio futuro. Sua moglie non era d’accordo, diceva che l’Alto Adige era un bel posto in cui crescere i gemelli, perché non si limitava a puntare alla poltrona del generale Leoni? Comandare la Legione Trentino Alto Adige non era abbastanza per lui?

   Chiara era una madre d’oro e, nonostante la gravidanza e il tempo che scorreva, era ancora impossibile staccarle gli occhi di dosso, ma mancava di ambizione. Orlandi voleva arrivare ai vertici. Voleva i palazzi del potere. Non voleva essere parte della Macchina, Orlandi voleva guidare la Macchina. E la buona riuscita dei suoi progetti passava per l’uomo che scese da un’Audi grigia e gli si fece incontro. Il Pm Baldini.

   La mano di Baldini era umida; Orlandi nascose il disgusto dietro a un sorriso. Baldini era un concentrato di tutto ciò che il capitano detestava. Molle, indeciso, senza spina dorsale. Per questo gli riservava sempre il migliore dei sorrisi: Baldini era l’uomo perfetto per la sua scalata al successo. Non uno di quei magistrati che si credevano degli Sherlock Holmes, ma un burocrate che era arrivato dove era arrivato lasciando fare il lavoro a gente come lui. Orlandi sapeva già in che modo sarebbe finita la conversazione. La solita battuta: «Carta bianca e buona fortuna, capitano».

   – Conosciamo l’identità della vittima?

   – Non ancora, ma l’autocarro ha targa austriaca e lo stesso logo della tuta da lavoro indossata dal cadavere. Ho chiamato i colleghi d’oltreconfine. Il simbolo è quello di una specie di parco-zoo nei pressi di Lienz. Dölsach, per la precisione. Nelle prossime ore ne sapremo di più.

   – Quanti chilometri sono?

   – Prego?

   – Da qui a questo zoo.

   – Una cinquantina. Ottanta al massimo.

   Baldini si guardò attorno. – Che dice Tamanin?

   – Il quadro è questo: sono stati sparati quattro colpi, probabilmente .308 Winchester, munizioni comuni per la caccia al cervo. Uno ha colpito al ventre la vittima, che si è trascinata fuori dall’abitacolo e ha cercato rifugio in quella macchia di pino mugo, – indicò il luogo in cui il dottor Tamanin, riconoscibile perché era l’unico del Nucleo scientifico a non indossare la pettorina, stava parlottando con altri tecnici, – dove è stato freddato con un colpo alla testa da distanza ravvicinata. Nove millimetri.

   – Impronte? Tracce? Bossoli?

   – Solo quello della pistola. Per il resto, citando il dottor Tamanin: questa scena è un casino.

   Baldini sospirò. – E quando mai non lo è, capitano? Qualsiasi cosa non esiti a contattarmi. Ha carta bianca, buona fortuna.

   – Grazie della fiducia, dottore.

   Baldini fece per tornare all’Audi, poi si voltò.

   – E per la bambina? Come pensa di procedere?

   – Quale bambina?

   – La Pellegrini non l’ha informata?

  

   – Dora è più consapevole della maggior parte delle sue coetanee. È testarda, molto. È diventata vegetariana, anche se questo ha creato qualche…

   – Malumore? – fece il maresciallo, conciliante.

   – Dora… – fu la donna minuta a rispondere. – Aveva nove anni. Trovò un gufo con un’ala spezzata. Quando arrivò a casa era coperta di graffi e beccate, sanguinava, ma non si lamentò nemmeno una volta. Portammo il gufo al Centro protezione volatili. Alla fine dell’intervento, i veterinari lo misero in una gabbia e Dora diede in escandescenze. Non l’avevamo mai vista comportarsi in quella maniera. Ci crede? Ci spaventò. Una bambina di nove anni. La nostra piccola Dora è una guerriera, capisce?

   Matthias Holler si sfregò il viso con forza, come se volesse cancellare le lacrime che non smettevano di annebbiargli la vista. – Quando le ho detto che lí, dove la lince aveva il nido, nel giro di un anno sarebbe stato costruito un impianto di risalita, mi ha chiesto cosa ne sarebbe stato degli animali e io le ho spiegato la prassi. La lince sarebbe stata catturata, sedata, e insieme ai suoi cuccioli portata in un luogo sicuro dove potesse svezzarli. Poi sarebbe stata reinserita nel suo ambiente naturale.

   – E Dora?

   – Ha detto che era una cattiveria…

   – Merdata, ha detto merdata, – mormorò Elisabeth Holler stringendo la mano del marito.

   – … mettere una lince in gabbia. Io ho cercato di farle capire che la funivia era importante. Che senza turismo non ci sarebbe stato il parco naturale e senza il parco le persone sarebbero tornate a sparare a qualsiasi cosa si muovesse. Che il mondo funziona così. E che quelle… che quelle non erano faccende da tredicenni.

 

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L’autore

Luca D’Andrea è nato a Bolzano, dove lavora come insegnate precario d’italiano nella scuola media. Per Einaudi ha pubblicato nel 2016 La sostanza del male, il suo primo thriller, che diventerà una serie Tv internazionale, e nel 2017 Lissy. Nel 2019 esce Il respiro del sangue (Einaudi).

  • L’ animale più pericoloso
  • Luca D’Andrea
  • Editore: Einaudi
  • Formato: EPUB con DRM
  • Testo in italiano
  • Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
  • Dimensioni: 277,28 KB
  • Pagine della versione a stampa: 232 p.
  • EAN: 9788858432952

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