”L’interprete di Annette Hess è la storia di Eva ma in realtà è la storia dell’umanità.
Siamo a Francoforte ed è il 1963, ha inizio uno dei processi più famosi del mondo. Sotto la lente imputati dai volti e dalle professioni rispettabili, accusati di aver picchiato, torturato, umiliato, ucciso con il gas, milioni di persone. La guerra è finita e la Germania (non solo) ha una grande voglia di lasciarsi alle spalle il passato e ricominciare ma la verità torna sempre a galla.
Eva, una giovane interprete, rappresenta tutto il popolo tedesco: una domenica viene chiamata per un lavoro diverso dal solito: certo, deve sempre tradurre dal polacco ma questa volta non si tratta di documenti per le assicurazioni ma di una vera e propria testimonianza: quella di un ex prigioniero. L’inizio de L’interprete è con il botto, la nostra protagonista traduce delle frasi che non possono avere senso. Il testimone parla di morti asfissiati, di violenze… non è possibile. Non può essere reale.
Il popolo tedesco non conosce ancora l’orrore dell’Olocausto. Il processo di Francoforte farà luce sui crimini di guerra svelando che i campi di lavoro erano soltanto fabbriche di morte. Donne, bambini e anziani venivano mandati subito a morire, gli altri erano costretti a lavorare.
Rasati, marchiati, seviziati, trattati come bestie. Dal processo di Francoforte uscirà una verità agghiacciante, una realtà che viene riportata con tantissima, forse troppa, delicatezza da Hess.
Dalla prigioniera che implora di essere uccisa, ai bambini che capiscono che non vedranno mai più i genitori, fino ad arrivare alle voci di chi quella puzza di bruciato ce l’aveva addosso perché vedeva il fumo uscire dai forni ogni giorno. Il crimine di cui si sarebbero macchiati i prigionieri? La loro esistenza, la loro appartenenza ad un’etnia diversa da quella tedesca. Sono ebrei, tanto basta per cancellare il loro nome, le loro vite.
Eva si ritrova ad essere in contrasto con la famiglia: i suoi genitori vogliono che lasci perdere il lavoro. In casa non se ne parla mai, i giornali vengono accartocciati, fatti sparire. L’inquietante fidanzato di Eva si oppone, la sorella non ha un’opinione in merito. L’interprete è sola:
“Papà, in questo lager venivano uccise migliaia di persone al giorno.” Eva notò meravigliata che la sua voce suonava quasi rabbiosa.
“Chi lo dice?”.
“I testimoni”.
“Dopo tutti questi anni, i ricordi possono essere confusi”.
“Quindi credi che mentano?”. Eva era Sgomentata, non aveva mai visto suo padre così sulla difensiva.
“Ti ho solo detto la mia opinione, se me lo permetti”. Ludwig fece per uscire e aprì la porta. Eva si alzò, lo seguì e disse con voce smorzata: “Ma bisogna che si sappia. E i criminali devono essere puniti. Non possono continuare a girare a piede libero!”. Vedendo la figlia così turbata, Ludwig rispose: “Sì, è vero”. Poi la lasciò nel soggiorno buio. Eva pensò che suo padre non le era mai sembrato così estraneo prima di allora.
Consigliato per gli amanti della storia, per chi apprezza i colpi di scena e l’apparente ritmo lento dei romanzo.
La trama del romanzo.
Francoforte, 1963. Durante il processo che vede Fritz Bauer indagare sulle responsabilità di alcuni membri del personale del campo di concentramento di Auschwitz, Eva Bruhns viene assunta come interprete dal polacco degli interrogatori dei testimoni. I suoi genitori, proprietari del ristorante Deutsches Haus, (Casa Tedesca), si mostrano decisamente contrari alla carriera scelta dalla figlia, così come lo stesso fidanzato di Eva, Jürgen, ancorato alla convinzione che una donna non debba lavorare se il futuro marito si può permettere di mantenerla. Ma la giovane, vinta dalla curiosità e dalla passione, accetta comunque il lavoro. Eva è figlia di un omertoso dopoguerra, di un boom economico in cui si è disperatamente tentato di seppellire il passato. Ascoltando le scioccanti testimonianze dei processi, però, il suo pensiero corre continuamente ai genitori e ai motivi per cui nella sua famiglia non si parla mai della guerra e di ciò che accadde. Perché sono tutti così restii ad affrontare l’argomento? Lentamente Eva si rende conto che non solo i colpevoli sono stati colpevoli, ma anche coloro che hanno collaborato, in silenzio, rendendo possibile l’inferno dei campi di concentramento. E che tra quelli che non hanno mai alzato la voce per protestare, rendendosi complici, potrebbero esserci persone a lei molto vicine. In questo sconvolgente romanzo Annette Hess sviluppa una trama e dei personaggi di grande spessore, in grado di dare vita a un autentico ritratto non solo della Germania post-bellica ma anche dei complessi rapporti interfamiliari, mostrando quanto sia sottile la linea che separa l’accettazione dalla negazione e dando vita a un complesso affresco storico che riguarda il passato dell’umanità intera.
Come inizia.
Parte 1
Nella notte c’era stato un altro incendio. Ne sentì subito l’odore, appena scesa senza cappotto nel silenzio domenicale sulla strada ricoperta da un sottile strato di neve. Questa volta doveva essere successo molto vicino a casa sua. L’odore acre si sollevava insistente dalla foschia invernale: gomma carbonizzata, stoffa bruciata, metallo fuso, ma anche pelle e lana incenerite, perché alcune mamme proteggevano i loro neonati dal freddo coprendoli con pelli di pecora. Eva rifletté ancora una volta su chi potesse essere l’autore di simili atti di vandalismo, su chi da qualche tempo facesse irruzione di notte nei condomini, attraversando il cortile interno, per dare fuoco alle carrozzine sistemate sui pianerottoli. Un pazzo oppure dei teppisti, secondo l’opinione di molti. Per fortuna non era mai successo che il fuoco si propagasse fin dentro gli appartamenti e nessuno aveva ancora subito danni. A parte quelli economici, s’intende. Da Hertie una carrozzina nuova costava centoventi marchi, non certo un’inezia per le giovani famiglie.
Giovani famiglie: l’espressione riecheggiava nella testa di Eva, mentre camminava nervosa avanti e indietro lungo il marciapiede. Faceva un freddo terribile ma, nonostante indossasse solo il vestito nuovo di seta azzurra, non aveva freddo, anzi sudava per l’agitazione. Stava aspettando nientemeno che l’amore della sua vita, come sua sorella lo definiva in tono canzonatorio. Aspettava il suo futuro marito che oggi, terza domenica di Avvento, desiderava presentarsi per la prima volta alla sua famiglia ed era stato invitato a pranzo. Eva guardò l’orologio. Le tredici e tre minuti. Jürgen era in ritardo.
Ogni tanto passava un’auto, lentamente. Qualche guidatore della domenica. “Ghiaccinava”. Era un verbo che il padre di Eva aveva inventato apposta per quel fenomeno atmosferico: piccoli trucioli di ghiaccio che veleggiavano dalle nuvole verso terra, come se lassù qualcuno stesse levigando un gigantesco blocco di ghiaccio. Qualcuno da cui tutto dipendeva. Eva guardò in alto, nel cielo grigio sopra i tetti biancastri, e si accorse di essere osservata: alla finestra del primo piano, sopra l’insegna Deutsches Haus, “Casa Tedesca”, all’altezza delle lettere a e u, una figura marroncina guardava giú, verso di lei. Sua madre. Pareva immobile, ma Eva ebbe l’impressione che si stesse congedando. Le voltò le spalle velocemente. Deglutí. Ci mancava solo che le venisse da piangere.
La porta della trattoria si aprì e ne uscì suo padre, austero e rassicurante nella sua giacca bianca. Ignorò Eva e aprì la teca a destra della porta per inserire un ipotetico nuovo menu. Ma Eva sapeva che il menu non sarebbe cambiato prima di carnevale. In realtà suo padre era preoccupato. Era molto legato a lei e aspettava in preda alla gelosia lo sconosciuto che stava per arrivare. Eva lo sentì canticchiare sottovoce per dare a intendere di essere tranquillo. Era uno dei canti popolari che si divertiva a storpiare. Ludwig Bruhns era completamente stonato, con suo grande rammarico. Wir summen vor dem Tore und sind in bester Laune. Unterm Liii-indenbaume.
Alla finestra, accanto alla madre comparve una donna più giovane dalla gonfia capigliatura biondo chiaro. Fece un cenno esageratamente allegro in direzione di Eva, nel quale tuttavia, persino a quella distanza, Eva poté rilevare il malumore. Ma lei non aveva niente da rimproverarsi. Aveva aspettato abbastanza a lungo che la sorella maggiore si sposasse prima di lei. Quando però Annegret aveva compiuto ventotto anni e per di più continuava a ingrassare, Eva aveva deciso, in segreto accordo con i suoi genitori, di porre fine a quella regola non scritta. Nemmeno lei era più una ragazzina e aveva avuto ben pochi pretendenti. I suoi familiari non ne capivano la ragione, perché Eva aveva un aspetto sano e femminile, labbra carnose, il naso fine e lunghi capelli biondi naturali che tagliava, pettinava e arrotolava in un artistico chignon senza ricorrere al parrucchiere. Ma nei suoi occhi c’era spesso un’espressione turbata, come se prevedesse l’arrivo di una catastrofe. Lei stessa aveva il sospetto che questo tenesse alla larga gli uomini.
Le tredici e cinque minuti. Nessuna traccia di Jürgen. Si aprì invece la porta di casa sulla sinistra di quella della trattoria. Eva vide uscire il fratellino Stefan, senza giacca, cosa che scatenò dei colpetti sul vetro e gesti preoccupati da parte della madre alla finestra. Ma Stefan continuò a fissare ostinato davanti a sé, perché comunque si era messo il berretto di lana arancione e i guanti abbinati. Si trascinava dietro uno slittino e intorno a lui saltellava Purzel, il bassotto nero della famiglia, un cagnetto malefico ma adorato da tutti.
«Che puzza!» disse Stefan. Eva sospirò. «No, adesso pure voi due! Questa famiglia è una maledizione». Stefan prese a trascinare lo slittino avanti e indietro sulla neve sottile del marciapiede. Purzel annusò un lampione, girò in tondo eccitato e defecò sulla neve, rilasciando un fumante mucchietto di escrementi. Le lame dello slittino grattavano l’asfalto e il rumore si univa al raspare della pala con cui il padre si teneva impegnato davanti alla porta d’ingresso. Eva lo vide toccarsi la schiena e socchiudere gli occhi, il che significava che erano tornati i dolori, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Una mattina di ottobre, quando il dolore alla schiena già da un po’ gli faceva patire le pene dell’inferno, come diceva lui, non era riuscito ad alzarsi dal letto. Eva aveva chiamato l’ambulanza e in ospedale gli avevano fatto una radiografia e diagnosticato un’ernia al disco. Era stato operato e il dottore gli aveva raccomandato di chiudere la trattoria. Ludwig Bruhns gli aveva spiegato che aveva una famiglia da mantenere. Come ci sarebbe riuscito con solo la sua misera pensione? Avevano cercato di convincerlo ad assumere un cuoco che si occupasse della cucina al posto suo, ma lui si era rifiutato di lasciare a un estraneo il suo regno. Alla fine si era deciso a non servire più il pranzo. Dall’autunno precedente la trattoria apriva solo di sera. Il fatturato si era quasi dimezzato, ma la schiena di Ludwig andava meglio. Eva però sapeva che il più grande desiderio di suo padre era poter riaprire in primavera anche per pranzo. Ludwig Bruhns amava il suo lavoro, amava vedere i suoi ospiti seduti vicini, in allegria, apprezzare il cibo e tornare a casa soddisfatti, sazi e brilli. «Io tengo uniti il corpo e l’anima degli uomini» gli piaceva ripetere. E la moglie gli rispondeva scherzando: «In chiesa coi santi e all’osteria coi ghiotti». Eva stava tremando per il freddo. Incrociò le braccia, rabbrividendo. Sperava intensamente che Jürgen trattasse i suoi genitori con rispetto: in un paio di occasioni, aveva notato che con i camerieri o i commessi assumeva un atteggiamento supponente.
«La polizia!» esclamò Stefan. Un’auto bianca e nera con la sirena sul tetto si stava avvicinando. All’interno sedevano due uomini in uniforme blu scuro. Stefan si irrigidí con deferenza. Di sicuro gli agenti stavano andando nel luogo dove era stata incendiata la carrozzina, pensò Eva, per cercare tracce e chiedere agli abitanti della palazzina se durante la notte avessero notato qualcosa di sospetto. L’auto li superò quasi senza rumore e i poliziotti rivolsero un cenno del capo prima a Ludwig e poi brevemente a Eva – nel quartiere tutti si conoscevano –, prima di girare in Königstrasse. Sì. Probabilmente qualcosa ha preso fuoco nel nuovo edificio rosa della zona residenziale. Ci abitano alcune famiglie. Giovani famiglie.
Le tredici e dodici minuti. Non verrà. Ha cambiato idea. Domani mi chiamerà per dirmi che non siamo fatti l’uno per l’altra. Mia cara Eva, non possiamo superare le differenze sociali tra le nostre famiglie. Paff!!! Stefan la colpì in pieno petto con una palla di neve, che prese a scivolarle gelida lungo la scollatura. Eva afferrò il fratellino per il maglione e lo tirò a sé. «Sei matto? Questo vestito è nuovo di zecca!». Stefan serrò i denti, in quella che era la sua espressione colpevole. Eva stava per continuare a sgridarlo ma, in quello stesso momento, alla fine della strada sbucò la macchina gialla di Jürgen e il suo cuore fece un balzo come un vitellino in preda al panico. Maledisse la propria fragilità nervosa, che l’aveva già portata in passato a consultare un medico. Doveva respirare lentamente. Non ci riuscì. Poi, mentre l’auto di Jürgen si avvicinava, di colpo capì che nulla avrebbe convinto i suoi genitori che quell’uomo potesse rendere felice la loro figlia. Neppure il denaro. Riconobbe il volto di Jürgen dietro il parabrezza. Sembrava stanco. È serio. Non la guardava. Eva pensò per un lungo e terribile istante che avrebbe accelerato e sarebbe passato oltre. Invece rallentò. Stefan sbottò: «Ha i capelli neri! Come uno zingaro!».Jürgen si avvicinò un po’ troppo al marciapiede e lo pneumatico strisciò lungo il cordolo. Stefan prese per mano la sorella, che sentiva la neve sciogliersi nella scollatura.
Jürgen spense il motore e rimase seduto in auto ancora per qualche istante: non avrebbe dimenticato l’immagine delle due donne, una grassa e una piccola, dietro la finestra sopra la parola Haus, erroneamente convinte di essere invisibili, né del bambino che lo fissava accanto alla sua slitta, né del padre massiccio con la pala in mano, in piedi sulla porta della trattoria, pronto a tutto. Lo stavano guardando come si fa con un imputato che entri per la prima volta in tribunale e prenda posto al banco. Tranne Eva, il cui sguardo era pieno di trepidante amore.
Jürgen deglutì, si tolse il cappello e prese dal sedile del passeggero un mazzo di fiori avvolto nella carta velina. Scese dall’auto e si avvicinò a Eva. Voleva sorridere, ma all’improvviso qualcosa lo pizzicò da dietro, un morso rapido e doloroso, sul polpaccio. Un bassotto. «Purzel! Via! Via!» urlò Eva. «Stefan, portalo via! In camera da letto!». Il bambino brontolò, ma prese il cane e lo condusse in casa, sgambettando. Eva e Jürgen si guardarono imbarazzati. Non sapevano esattamente come si sarebbero dovuti salutare sotto lo sguardo della famiglia di lei. Si diedero la mano e dissero contemporaneamente: «Mi dispiace, sono così curiosi» e: «Che comitato di benvenuto! A cosa devo l’onore?». Appena Jürgen le lasciò la mano, il padre, la madre e la sorella si ritirarono dalle loro postazioni di vedetta come conigli nelle loro tane. Eva e Jürgen rimasero soli. Una folata di vento gelido turbinò sulla strada.
«Ti piace l’oca?» chiese Eva.
«Da giorni non penso ad altro».
«Devi solo andare d’accordo con il mio fratellino. Poi avrai tutti dalla tua parte».
Entrambi risero, senza sapere perché. Jürgen si diresse verso la porta della trattoria, ma Eva lo guidò a sinistra, all’ingresso dell’abitazione. Non voleva farlo passare per la sala da pranzo semibuia, con quell’odore di birra versata e cenere umida. Perciò salirono fino all’appartamento al piano superiore, lungo le scale lucidate con il corrimano nero. L’edificio a due piani era stato ricostruito dopo che, durante la guerra, un attacco aereo sulla città l’aveva quasi completamente distrutto. La mattina dopo quell’inferno era rimasto soltanto il lungo bancone all’aperto, esposto alle intemperie senza alcuna protezione.
La madre di Eva era in attesa sulla porta e sfoderò il sorriso che di solito riservava ai clienti abituali della trattoria. La sua faccia zuccherosa, come la chiamava Stefan. Edith Bruhns indossava il doppio filo di granati, i piccoli pendenti dorati con le perle coltivate e la spilla d’oro a forma di trifoglio.Sfoggiava tutti i suoi gioielli, cosa che Eva non le aveva mai visto fare prima di allora. Le tornò in mente una fiaba che aveva letto a Stefan, su un abete che dopo Natale viene riposto in solaio per essere bruciato in cortile a primavera: ai suoi rami rinsecchiti sono ancora appesi i resti della vigilia, dimenticati.
Quantomeno è in tema con la terza domenica di Avvento, pensò.
«Signor Schorrmann, cos’ha portato con questo tempo? Rose a dicembre?! Dove le ha scovate, signor Schorrmann?».
«Si chiama Schoormann, mamma, con due o!».
«Mi dia pure il cappello, signor Schoooormann».
Nel soggiorno, che la domenica fungeva anche da sala da pranzo, Ludwig Bruhns accolse Jürgen con in mano la forca dello spiedo e il trinciapollo e gli porse il polso destro in segno di saluto. L’ospite si scusò per il ritardo. La neve. «Non si preoccupi, va tutto bene. È un’oca grossa, sette chili abbondanti, e ci vuole il suo tempo». Annegret dal fondo si spostò verso Jürgen. Si era messa un po’ troppa matita nera e un rossetto un po’ troppo arancione. Strinse la mano all’ospite e sorrise ammiccante: «Congratulazioni. Di lei si può fidare». Jürgen si domandò se si riferisse all’oca o a Eva.
Poco dopo sedevano tutti a tavola e guardavano il volatile fumante, accanto al quale in un vaso di cristallo facevano bella mostra le rose gialle portate da Jürgen. O, per meglio dire, parevano un corredo funerario. La radio a basso volume trasmetteva un’irriconoscibile musica tipicamente domenicale e sulla credenza girava una piramide natalizia, azionata da tre candele tremolanti. La quarta era ancora intatta. Al centro della piramide c’erano Maria, Giuseppe e la mangiatoia con il bambinello davanti a una stalla. Intorno alla famiglia pecore in movimento, pastori e i tre Re Magi con i cammelli che si muovevano in un eterno girotondo. Non avrebbero mai raggiunto la santa famiglia, non avrebbero mai potuto porgere i loro regali a Gesú bambino. A Eva da piccola questo pensiero metteva tristezza e un giorno aveva sottratto al re moro il suo dono e lo aveva posto davanti alla mangiatoia. L’anno successivo la scatolina di legno era scomparsa e da allora il re moro girava a mani vuote. Il suo dono non era piú saltato fuori. La madre di Eva raccontava questa storia ogni anno nei giorni precedenti il Natale, quando tirava giù la piramide dal solaio. All’epoca Eva avrà avuto sí e no cinque anni e dunque non poteva ricordarselo.
Il padre tagliò l’oca lungo il petto con il trinciapollo. «Una volta l’oca era viva?». Stefan guardò suo padre in attesa di una risposta e Ludwig Bruhns fece l’occhiolino a Jürgen. «No, è un’oca finta. Solo da mangiare». «Allora voglio il petto!». Il bambino allungò il suo piatto verso il padre. «Golosone, prima l’ospite» disse la madre, porgendo al marito il piatto di Jürgen. Aveva messo in tavola il servizio di Dresda decorato con tralci verdi. Eva notò che Jürgen si guardava attorno con discrezione. Osservava il divano sfondato con la coperta gialla a quadri che sua madre aveva steso sulla seduta logora. Anche sul bracciolo di sinistra c’era una piccola coperta fatta all’uncinetto. Era il posto dove sedeva suo padre dopo mezzanotte, quando tornava dalla cucina e poggiava i piedi sullo sgabello imbottito, come gli aveva consigliato il medico. Sul tavolino davanti al divano il settimanale Der Hausfreund era aperto su un cruciverba lasciato a metà. Un’altra coperta all’uncinetto proteggeva il prezioso televisore. Jürgen inspirò e ringraziò gentilmente per il piatto pieno che la madre di Eva, facendo dondolare gli orecchini, gli metteva davanti, girato in modo da sembrare particolarmente appetitoso. Il padre di Eva, che aveva sostituito la divisa bianca da cuoco con la giacca della domenica, si sedette accanto alla figlia. Aveva qualcosa di verde sulla guancia, probabilmente prezzemolo, ed Eva glielo strofinò via velocemente. Il padre le fermò la mano e la strinse brevemente, senza guardarla. Eva deglutì e si sentì irritata con Jürgen per quel suo sguardo indagatore. Era abituato diversamente, e allora? Non avrebbe potuto non apprezzare quanto fossero premurosi, onesti e amorevoli i suoi genitori.
All’inizio mangiarono tutti in silenzio. Annegret, come sempre quand’era in compagnia, tenne a bada la fame piluccando la sua porzione, apparentemente senza appetito. Più tardi, in cucina, si sarebbe abbuffata con gli avanzi dei piatti e di notte sarebbe andata nella dispensa a ingozzarsi di oca fredda. Porse a Jürgen il portaspezie e gli fece l’occhiolino.
«Vuole del pepe, signor Schoooormann? Sale?».
Jürgen rifiutò ma ringraziò, cosa che il padre di Eva registrò senza alzare lo sguardo.
«Nessuno ha mai dovuto aggiungere condimento ai miei piatti».
«Eva mi ha raccontato che lei fa l’infermiera. Lavora all’ospedale qui in città?». Jürgen si era rivolto ad Annegret, che per lui era un enigma. Annegret si strinse nelle spalle, come se l’argomento non fosse degno della conversazione.
«In che reparto?».
«Neonatologia».
Ci fu una pausa, durante la quale la voce del presentatore alla radio divenne udibile: «Per la terza domenica di Avvento, da Gera nonna Hildegard saluta la famiglia a Wiesbaden, e in particolare il nipotino Heiner di otto anni». La musica riprese.
Edith sorrise a Jürgen.
«E lei che lavoro fa, signor Schoooormann?».
«Ho studiato teologia. Adesso lavoro nell’azienda di mio padre. In amministrazione».
«Vendite per corrispondenza, giusto? La sua famiglia si occupa di questo?» domandò Ludwig.
Eva gli diede un colpetto. «Papà! Per favore, non sembrate più stupidi di quanto siete!».
Un breve silenzio, poi tutti risero, anche Stefan, sebbene non capisse perché. Eva si rilassò. Lei e Jürgen si scambiarono un’occhiata.
«Ci mancherebbe! Il catalogo Schoormann ce l’abbiamo, naturalmente» disse Edith.
Stefan cantò in falsetto lo slogan pubblicitario: «Da Schoormann c’è, Schoormann lo porta fino a te. Dindon! Don-din!».
Jürgen, calato nel suo ruolo, chiese: «Avete mai ordinato qualcosa? Mi sarebbe utile saperlo».
Edith replicò con premura: «Ma certo. Un phon e un impermeabile. E siamo rimasti molto soddisfatti. Però dovreste offrire anche le lavatrici. Non vado volentieri da Hertie per comprare qualcosa di così importante. Ti fanno il lavaggio del cervello. Invece, con un catalogo puoi pensarci comodamente a casa tua».
Jürgen annuì cortese. «Sì, ha proprio ragione, signora Bruhns. Comunque, ho in mente di cambiare alcune cose».
Eva gli rivolse uno sguardo incoraggiante e Jürgen si schiarí la voce.
«Mio padre è malato e non potrà dirigere l’azienda ancora per molto».
«Mi dispiace davvero» disse la madre.
«Che cos’ha?» chiese il padre porgendogli la salsiera, ma Jürgen non era pronto a fornire altre informazioni.
«Il cibo è ottimo» disse, versando la salsa nel piatto.
«Mi fa piacere».
Eva sapeva che il padre di Jürgen era malato di sclerosi multipla. Jürgen gliene aveva parlato, ma solo una volta. C’erano giorni buoni e giorni cattivi, ma la situazione si faceva sempre più difficile. Eva non aveva ancora conosciuto il padre di Jürgen e la sua seconda moglie. Prima toccava al fidanzato fare visita ai genitori della futura moglie. Eva e Jürgen avevano animatamente discusso se lui dovesse chiedere la sua mano già al primo incontro. Lui si era dichiarato contrario: se avesse parlato subito, senza un minimo di conoscenza, i genitori di Eva lo avrebbero considerato sfacciato. O, ancora peggio, avrebbero creduto che lei fosse incinta. La discussione non aveva portato a una decisione condivisa. Eva cercò di leggere sul volto di Jürgen se avesse intenzione di parlare a suo padre, ma lo sguardo di lui non rivelava alcunché. Osservò le sue mani, che reggevano le posate in maniera un po’ più rigida del solito. Non aveva ancora avuto con Jürgen un rapporto intimo, come lo chiamava il dottor Gorf. Eppure era pronta, dato che aveva perso la sua innocenza già due anni prima. Jürgen, tuttavia, aveva le idee chiare: niente rapporti prima del matrimonio. Era un uomo d’altri tempi, la donna doveva essere obbediente nei confronti del marito. Fin dal loro primo incontro Jürgen aveva creduto di poter leggere nell’animo di Eva, di sapere meglio di lei che cosa le facesse bene. Ed Eva, che troppo spesso non capiva che cosa volesse veramente, non aveva niente in contrario a farsi guidare, nel ballo e nella vita. Inoltre, quel matrimonio le avrebbe fatto salire i gradini della società. Da figlia dell’oste di Bornheim a moglie di un distinto imprenditore. Al solo pensiero le prendevano le vertigini, ma erano più che benvenute!
Dopo pranzo, Eva e sua madre si alzarono subito per preparare il caffè nella spaziosa cucina. Annegret si era congedata, aveva il turno pomeridiano in ospedale e doveva dare il latte ai suoi neonati. E comunque i dolci con la crema al burro non le piacevano.
Eva tagliò in grosse fette il Frankfurter Kranz, il tipico dolce locale a forma di ghirlanda, mentre sua madre tritava i chicchi di caffè con un macinino elettrico. Edith Bruhns teneva lo sguardo fisso sull’apparecchio che ruggiva. Quando smise di fare rumore disse: «Non è il tuo tipo, Evchen. Voglio dire… Quando penso a Peter Kraus, per il quale hai sempre avuto una cotta…».
«Solo perché Jürgen non è biondo?».
Eva era sgomenta, perché sua madre stava dichiarando apertamente che Jürgen non le piaceva. E lei teneva in grande considerazione la conoscenza che sua madre aveva degli esseri umani. Come moglie di un oste, Edith Bruhns incontrava moltissima gente e riusciva a distinguere al primo sguardo una persona a modo da una che non lo era.
«Quegli occhi neri…»
«Mamma, i suoi occhi sono verde scuro! Guardalo bene».
«Penso solo che tu lo debba sapere. Sulla famiglia non c’è nulla da ridire, ma sono sincera e non posso fare diversamente, bambina: lui non ti rende felice».
«Ma lo hai appena conosciuto».
La madre versò l’acqua bollente nel colino riempito di caffè. Il profumo era di miscela costosa.
«È troppo introverso. Eva, mi inquieta».
«È riflessivo. Jürgen in realtà voleva diventare prete…».
«Dio ce ne scampi!».
«Era già arrivato all’ottavo semestre di teologia. Ma poi ha conosciuto me e ha capito che non sarebbe mai riuscito a resistere al voto di celibato».
Eva rise, ma sua madre rimase seria. «Ma non ha interrotto gli studi a causa di suo padre, per rilevare l’azienda?».
«Sì» Eva sospirò. Sua madre non era in vena di scherzare. Entrambe fissarono l’acqua gorgogliante del caffè che scendeva lentamente nel filtro.
L’inquietante Jürgen e il padre di Eva sedevano in salotto davanti a un cognac. La radio parlava e suonava instancabilmente. Jürgen fumava una sigaretta e intanto osservava il massiccio quadro a olio appeso sopra la credenza. Vi era rappresentato un paesaggio paludoso immerso nel rosso di un tramonto che divampava dietro un tetto, con mucche che pascolavano su un prato rigoglioso e una donna che stendeva il bucato vicino a una capanna. Un po’ discosto rispetto a lei, sul lato destro del quadro c’era un’altra figura, sfuocata, come se fosse stata abbozzata a posteriori. Non si riusciva a capire se fosse il pastore, il marito o uno sconosciuto.
Stefan era inginocchiato sul tappeto, intento a schierare la sua armata di plastica per la battaglia. Purzel aveva ottenuto il permesso di uscire dalla camera da letto e ora, steso a pancia in giù, osservava strizzando gli occhi le lunghe file di soldatini davanti al suo naso. Stefan possedeva anche un carro armato apribile di latta che stava in agguato dentro la sua scatola, ancora inutilizzato.
Nel frattempo il padre di Eva presentava al futuro genero un compendio per sommi capi della storia di famiglia. «Sì, io sono un Wattwurm1, vengo da Juist, si sente da come parlo. I miei genitori avevano un negozio, rifornivano l’intera isola: caffè, zucchero, vetri per finestre. Da noi si trovava di tutto, proprio come da lei, signor Schooormann. Mia madre morí quand’era ancora giovane e mio padre non se fece mai una ragione. Adesso non c’è più neanche lui, da quindici anni ormai. Edith, mia moglie, l’ho conosciuta all’istituto professionale alberghiero di Amburgo. Era il ’34, eravamo ancora due pivelli! Lei viene da una famiglia di artisti, anche se non si direbbe. I suoi genitori suonavano entrambi in una filarmonica, lui era primo violino, lei secondo. Ma nella loro coppia era esattamente il contrario. La madre di mia moglie è ancora viva, sta ad Amburgo. Mia moglie, che avrebbe dovuto suonare anche lei il violino, ha purtroppo le dita troppo corte; a un certo punto decise di diventare attrice, ma le fu categoricamente vietato. Allora chiese almeno di vedere il mondo, e i genitori la mandarono alla scuola alberghiera».
«E com’è finito a vivere qui?» chiese Jürgen, il tono interessato e cordiale. L’arrosto d’oca l’aveva trovato buonissimo. E Ludwig Bruhns, così orgoglioso di poter raccontare della sua famiglia, gli piaceva. Eva aveva ereditato dal padre la sua bocca carnosa.
«La Deutsches Haus era di un cugino di mia moglie, il quale aveva deciso di venderla. Era perfetta per noi, ci calzava a pennello. Abbiamo colto l’occasione al momento giusto e abbiamo aperto nel ’49. Non ce ne siamo mai pentiti».
«Sì, Berger Strasse è una posizione vantaggiosa…»
«Un quartiere a modo, ci tengo a dirlo, signor Schoormann!».
Jürgen sorrise tranquillo.
«Sì, be’, quando mi è capitato l’incidente alla schiena, il dottore ha detto che dovevo chiudere. Gli ho spiegato a quanto ammonta la mia pensione e così ora apriamo alle cinque. Ma in primavera la smetterò con questa vita sregolata!».
Rimasero in silenzio. Jürgen capì che c’era ancora qualcosa che opprimeva Ludwig. Aspettò. Il padre di Eva si schiarì la gola senza guardarlo.
«Sì, il problema alla schiena è cominciato durante la guerra».
«Una ferita?» chiese Jürgen cortese.
«Ero nella cucina del campo. Sul fronte occidentale. Solo per sua informazione» disse, e si scolò il resto del cognac. Jürgen rimase un po’ meravigliato. Non si accorse che Ludwig Bruhns gli aveva appena mentito.
Toc-toc-toc! Stefan aveva dimenticato il suo carro armato, che ora si stava facendo strada sul tappeto come se stesse attraversando un terreno paludoso, investendo un soldatino dopo l’altro.
«Stefan, va’ a giocare in corridoio!».
Ma Stefan era interessato solo a Jürgen, il quale temeva l’impertinenza dei bambini. Tuttavia, si ricordò della raccomandazione di Eva di conquistarsi la simpatia del fratellino.
«Mi fai vedere il tuo carro armato, Stefan?».
Il bambino si alzò e porse a Jürgen il giocattolo di latta.
«È grande quasi il doppio di quello di Thomas Preisgau».
«Thomas è il suo migliore amico» spiegò Ludwig, mentre si versava altro cognac.
Jürgen si dimostrò debitamente ammirato e Stefan scelse dal tappeto anche un soldatino. «Guarda, l’ho dipinto io. Questo è un americano! Un negro!» spiegò.
Jürgen guardò l’omino di plastica che il bambino gli tendeva: aveva il volto dipinto di rosso sangue. Chiuse gli occhi, ma l’immagine faticò a scomparire.
«E Babbo Natale mi porterà un fucile ad aria compressa».
«Un fucile ad aria compressa» ripeté Jürgen distratto, prendendo subito dopo un lungo sorso dal bicchiere. In un attimo il ricordo sarebbe scomparso.
Ludwig attirò Stefan verso di sé. «Questo però non lo sai con certezza, tesoro mio». Il bambino si liberò dall’abbraccio.
«Mi porta sempre tutto quello che desidero».
Ludwig lanciò a Jürgen un’occhiata di scuse. «Purtroppo è vero. Stefan è molto viziato. Non ce l’aspettavamo, io e mia moglie, che dopo le ragazze arrivasse un altro figlio».
In quel momento, nel corridoio suonò il telefono. Stefan arrivò per primo all’apparecchio e sciorinò la solita formula: «Qui parla Stefan Bruhns della famiglia Bruhns. Chi parla, prego?». e rimase in ascolto. Poi gridò: «Eva, è per te! Il signor Körting!». Eva uscì dalla cucina, si asciugò le mani sul grembiule e allungò il braccio per prendere la cornetta. «Signor Körting? Sì, quando? Subito? Ma noi stiamo…».
Si interruppe, ascoltò e guardò attraverso la porta aperta i due uomini seduti al tavolo. Le parve che avessero già preso abbastanza confidenza, quindi disse al ricevitore: «Va bene, sì, arrivo» e riagganciò.
«Sono mortificata, Jürgen. Era il mio capo. Devo andare al lavoro».
La madre arrivò dalla cucina con il vassoio del caffè.
«In una domenica di Avvento?».
«A quanto pare è urgente. La prossima settimana inizia un processo».
«Be’, il dovere è dovere e la grappa è grappa, come dico sempre io» fece Ludwig mettendosi in piedi. Anche Jürgen si alzò.
«Ma lei rimanga! Non ha ancora assaggiato il Frankfurter Kranz!».
«È fatto con puro burro. Mezzo chilo!» aggiunse Edith.
«E non hai ancora visto la mia camera!».
Jürgen accompagnò Eva in corridoio. Si era cambiata e ora indossava un sobrio completo da ufficio. La aiutò a infilarsi il cappotto di lana cotta, mentre diceva con comica disperazione: «L’hai organizzato tu, è una specie di test, vero? Vuoi lasciarmi da solo con la tua famiglia e vedere come me la cavo?».
«Non ti mangiano mica».
«Tuo padre ha già gli occhi iniettati di sangue».
«È per gli antidolorifici. Tra un’ora sono di ritorno. Si tratta di quel risarcimento danni. I pezzi di ricambio dalla Polonia che non funzionano».
«Posso accompagnarti in macchina?».
«Stanno venendo a prendermi».
«Vengo anch’io. Alla fine sarai distrutta».
Eva s’infilò i guanti di pelle di cervo, regalo di Natale di Jürgen.
«L’unico cliente ad avermi distrutta sei stato tu».
Si guardarono. Jürgen sentì il desiderio di baciarla e lei lo tirò nell’angolo accanto al guardaroba, dove i genitori non potevano vederli. Si abbracciarono, si sorrisero, si baciarono. Eva sentì l’eccitazione di Jürgen, vide nei suoi occhi che la desiderava. Ma l’amava anche? Si staccò da lui. «Per favore, chiediglielo oggi, d’accordo?».
Jürgen non rispose.
Eva uscì dall’appartamento e Jürgen si girò nuovamente verso il salotto. I signori Bruhns lo aspettavano davanti al tavolino da caffè, come attori su un palcoscenico in attesa di pronunciare la loro battuta.
«Siamo del tutto innocui, signor Schoormann».
«Totalmente inoffensivi, signor Schooormann».
«Solo Purzel a volte morde!» urlò Stefan dal tappeto.
«Be’, allora assaggio la torta».
Jürgen tornò nel calore del soggiorno dei Bruhns.
Eva uscì di casa. Imbruniva già e il manto di neve brillava di un azzurro delicato, mentre sotto i lampioni si creavano aloni d’un giallo-arancione. In mezzo alla strada c’era una grossa vettura con il motore acceso. Eva vide il cenno impaziente del giovane uomo alla guida che le indicava di avvicinarsi, e salì dal lato del passeggero. L’auto odorava di sigarette e di menta. L’autista, che masticava un chewing-gum, non indossava il cappello e non le porse la mano. Annuì solamente, presentandosi: «David Miller». Poi diede gas. Non guidava bene, andava troppo veloce, cambiava marcia troppo tardi o troppo presto. Eva non aveva la patente, ma si accorse che l’uomo non aveva confidenza con quella vettura e spesso finiva per farla slittare. Ma sarebbe stato un pessimo guidatore su qualsiasi auto. Lo scrutò con la coda dell’occhio: aveva folti capelli rossicci un po’ troppo lunghi sulla nuca, lentiggini, sottili ciglia chiare e mani affusolate che sembravano stranamente innocenti.
Il signor Miller non dimostrò alcun interesse a fare conversazione e dunque viaggiarono in silenzio verso il centro della città, sotto le luci delle pubblicità che brillavano chiare e colorate. Soprattutto, e sempre di più, erano luci rosse, a mano a mano che l’auto scendeva lungo Berger Strasse e i suoi locali, Da Susi e Mokka-Bar. Eva immaginò Jürgen che tornava al tavolo, si sedeva e mangiava il Frankfurter Kranz preparato da lei, e probabilmente quasi non ne percepiva il sapore. Di sicuro stava nervosamente riflettendo se fosse il caso di infliggere la famiglia di lei alla propria e se davvero voleva trascorrere il resto della vita con lei.
La sede dell’ufficio era in un alto palazzo su una delle vie principali della città. David Miller ed Eva entrarono in un angusto ascensore. Le porte si chiusero automaticamente, due volte. Porte doppie. David premette l’8, poi si mise a fissare il soffitto della cabina, come se aspettasse qualcosa. Anche Eva notò in alto lo sportello avvitato con innumerevoli forellini. Una presa d’aria. Di colpo provò un senso di oppressione, il battito del cuore accelerò e la bocca rimase senza saliva. David la guardava. Dall’alto in basso, nonostante non fosse molto piú alto di lei. Le sembrò troppo vicino, era imbarazzata. Gli occhi di quell’uomo avevano un’espressione strana.
«Com’è il suo nome?».
«Eva Bruhns».
L’ascensore si fermò con un sobbalzo ed Eva ebbe paura per un attimo che si fosse bloccato. Ma le porte si aprirono. Uscirono, svoltarono a sinistra e suonarono a una pesante porta a vetri. Dal lato opposto, un’impiegata vestita di verde trotterellò verso di loro e aprì. Le due donne si studiarono brevemente. Stessa età, fisico simile. L’impiegata aveva i capelli scuri, la pelle grassa e gli occhi grigio chiaro.
Eva e David la seguirono attraverso un lungo corridoio. Eva guardava l’abito, che a ogni passo faceva delle pieghe sul sedere, e le décolleté nere dal tacco vertiginoso. Probabilmente le vendevano da Hertie, in Hauptstrasse. Da una stanza in fondo al corridoio giunse un suono simile a un singhiozzo. Ma più si avvicinavano, piú il suono si abbassava. Quando infine si fermarono davanti alla porta, c’era solo silenzio. Forse quel pianto Eva se l’era solo immaginato.
La giovane bussò, quindi aprì la porta di un ufficio sorprendentemente angusto. Tre uomini erano in attesa, circondati da fumo di sigaretta e da numerosi raccoglitori che giacevano l’uno sull’altro su tavoli e scaffali, e persino sul pavimento.
Uno di loro, un uomo anziano, di bassa statura, sedeva impettito su una sedia al centro, come se l’intera stanza, l’intera casa – forse persino l’intera città – fossero state costruite intorno a lui. Un uomo piú giovane, con i capelli biondi e gli occhiali dal fine bordo dorato, era dietro una scrivania invasa da documenti. Si era creato un piccolo spazio libero, dove ora stava scrivendo. Fumava una sigaretta e aveva dimenticato di scrollare la cenere. Quando Eva rivolse lo sguardo verso di lui, una lunga striscia di cenere cadde sugli appunti e il biondino la spinse meccanicamente sul pavimento. Nessuno dei due uomini si alzò, cosa che Eva giudicò piuttosto scortese.
Il terzo uomo, dalla figura spigolosa, le voltava addirittura le spalle. Era in piedi davanti alla finestra e guardava fuori nell’oscurità. A Eva venne in mente un film su Napoleone che aveva visto con Jürgen: il generale era in piedi nella stessa posizione davanti a una finestra chiusa e, in preda ai dubbi per la sua spedizione militare, guardava la campagna. E si notava che il paesaggio davanti alla finestra era dipinto sul cartone.
L’uomo dai capelli biondi dietro la scrivania fece un cenno a Eva, indicando la persona sulla sedia. «Le presento il signor Josef Gabor, da Varsavia. Oggi sarebbe dovuto arrivare anche l’interprete polacco, ma ha avuto difficoltà con l’espatrio ed è stato fermato all’aeroporto. Si accomodi».
Poiché nessuno dei due uomini si mosse verso di lei, Eva si tolse da sola il cappotto e lo lasciò su un appendiabiti a stelo dietro la porta. Il biondino indicò un tavolo vicino alla parete, su cui erano poste tazze da caffè sporche e un piatto con un paio di biscottini avanzati. Eva adorava i biscotti di panpepato, ma si sforzò di rinunciarvi: nelle ultime settimane era ingrassata di due chili. Perciò si sedette al tavolo in modo da avere di fronte il signor Gabor e prese dalla borsa due dizionari, uno generale e l’altro tecnico-economico. Spostò il piatto con i biscotti e appoggiò al suo posto i dizionari; poi tirò fuori bloc notes e matita. La signorina in verde, seduta all’altro lato del tavolo davanti a una macchina stenografica, arrotolava con un crepitio una striscia di carta e intanto non toglieva gli occhi di dosso al biondino. Chiaramente le interessava, ma a lui non interessava lei, come Eva notò subito. Anche David Miller si tolse il cappotto e si sedette con aria indifferente su una sedia contro la parete, tenendo il cappotto sulle ginocchia.
Tutti aspettavano, come ai blocchi di partenza di una gara. Eva guardò i biscottini. L’uomo spigoloso alla finestra si girò, rivolgendosi all’uomo sulla sedia.
«Signor Gabor, la prego, ci spieghi bene cosa accadde il 23 settembre del 1941».
Eva tradusse la domanda, meravigliandosi della data. Era più di vent’anni prima. Si trattava quindi molto probabilmente di un procedimento penale (ma non avrebbe dovuto essere caduto in prescrizione?) e non di una questione contrattuale. L’uomo sulla sedia guardava Eva dritto negli occhi, evidentemente sollevato di incontrare finalmente in quella nazione qualcuno che capisse la sua lingua.Iniziò a parlare. La sua voce non era coerente con il suo aspetto: pareva che stesse leggendo a voce alta una lettera scolorita, come se stentasse a decifrare le parole. Inoltre parlava un dialetto di campagna che creava a Eva qualche difficoltà, facendola inceppare nella traduzione.
«Quel giorno faceva caldo, era quasi afoso, e dovevamo addobbare tutte le finestre. Tutte le finestre dell’alloggio con il numero undici. Le addobbammo con sacchi di sabbia e riempimmo tutte le fessure con paglia e terra. Ci davamo tutti un gran daffare, perché non ci era permesso nessun errore. Quando finimmo era quasi sera; dopodiché condussero gli ottocentocinquanta ospiti sovietici giù nello scantinato dell’alloggio. Attesero l’oscurità, in modo da poter vedere meglio la luce, suppongo. Poi gettarono la luce nello scantinato attraverso i pozzi di ventilazione e chiusero le porte. Il giorno seguente le riaprirono e noi dovemmo entrare per primi. La maggior parte degli ospiti era illuminata».
Gli uomini nella stanza guardavano Eva e questo le provocò una leggera nausea. Qualcosa non andava. La signorina batteva a macchina impassibile; tuttavia il biondino chiese a Eva: «È sicura di aver capito bene?». Eva sfogliò il dizionario tecnico. «Mi scusi. Io solitamente traduco contratti, quindi questioni economiche e cause legali per risarcimento danni…».
Gli uomini si scambiarono qualche occhiata. Il biondino scosse impaziente la testa, ma l’uomo spigoloso alla finestra gli fece cenno di restare calmo. David Miller guardava Eva con aria sprezzante dall’altro lato della stanza.
Eva prese in mano il dizionario generale, che pesava come un mattone. Lo aprì e trovò che non si trattava di ospiti, bensì di prigionieri. E non era un alloggio, bensì una baracca. E niente luce. L’illuminazione non c’entrava. Eva guardò l’uomo sulla sedia, il quale ricambiò lo sguardo, come se avesse interiormente perso i sensi.
Eva disse: «Mi dispiace, ho tradotto male. Ha detto: trovammo la maggior parte dei prigionieri asfissiati dal gas».
Nella stanza cadde il silenzio. David Miller voleva fumare una sigaretta, ma il suo accendino non funzionava. Grrr-grrr-grrr. Poi il biondino tossì e guardò l’uomo spigoloso: «Comunque possiamo già essere contenti di aver trovato un sostituto. In così poco tempo. Meglio che niente».
Quello replicò: «Proviamoci di nuovo. Che altro possiamo fare?».
Il biondino si rivolse a Eva. «Quando è incerta, controlli».
Eva annuì. Traduceva lentamente. La signorina digitava altrettanto lentamente sulla sua macchina. «Quando aprimmo le porte, una parte dei prigionieri era ancora viva. Circa un terzo. Troppo poco gas. La procedura venne ripetuta con il doppio della quantità. Questa volta aspettammo due giorni prima di riaprire le porte. L’operazione fu un successo».
Il biondino si alzò da dietro la scrivania. «Chi diede l’ordine?». Spinse di lato la tazza di caffè e appoggiò sul tavolo ventuno fotografie, una dopo l’altra. Eva osservò i volti di lato: uomini davanti apareti intonacate di bianco, con dei numeri sotto il mento. Ma anche alcuni in giardini soleggiati, che giocavano con grossi cani. Un uomo aveva una faccia da scimpanzé. Josef Gabor si alzò e si avvicinò. Guardò a lungo le fotografie e ne indicò una, così all’improvviso che Eva sussultò. Nell’immagine, un giovane sollevava per la nuca un coniglio grasso e lo mostrava alla macchina fotografica sorridendo orgoglioso. Gli uomini nella stanza si scambiarono occhiate compiaciute e annuirono. Anche suo padre aveva allevato conigli, pensò Eva, nel loro orticello fuori città, dove coltivava anche la verdura per la cucina. Nelle piccole gabbie c’erano stati innumerevoli esemplari, intenti a masticare di continuo. Tuttavia un giorno, quando capí che non solo accarezzava e nutriva con denti di leone i suoi morbidi amici, ma anche li mangiava, Stefan scoppiò a piangere disperato. E il padre eliminò i conigli.
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L’autrice
Annette Hess nasce ad Hannover il 18 gennaio 1967. È sceneggiatrice pluripremiata di serie tv di grande successo come Weissensee e Ku’damm 56/59, trasmessa in Italia con il titolo Una strada verso il domani. L’interprete è il suo primo romanzo.
- L’ interprete
- Annette Hess
- Traduttore: Chiara Ujka
- Editore: Neri Pozza
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 904,55 KB
- Pagine della versione a stampa: 315 p.