”Paladini del disordine e del nichilismo, tra imbecilli “strumentalizzati” e corteggiatori di morte: è in corso la battaglia decisiva fra l’ordine e il caos; la vita ha bisogno di ordine, la morte è solo il trionfo del disordine.
Il mondo, le cose e noi stessi, l’intera l’esistenza di tutto si basa sul principio dell’ordine. Il mondo esiste perché esiste un certo ordine; le cose esistono perché sono ordinate; se aumenta l’entropia, cioè il disordine, le cose si autodistruggono. Ciò vale per la realtà fisica, ma anche e a maggior ragione per le realtà spirituali. Una famiglia, per esempio, si regge sul principio d’ordine: è necessario che ciascuno dei suoi membri svolga il proprio ruolo, e che lo svolga in maniera appropriata, cioè ordinatamente. Le cose sono ordinate ad un fine, e l’ordine consiste nella proporzione fra i mezzi e il fine. Anche il pensiero, anche i sentimenti e gli affetti devono rispondere a questo principio: sono ordinati quando conducono verso la meta e sono disordinati quando portano lontano da essa. Oggi prevale la filosofia del disordine, che è l’essenza della modernità: prevale, cioè, l’idea che le cose non hanno alcun fine e che ciascuno è perfettamente libero di cercare la propria realizzazione in qualsivoglia maniera, anche la più disordinata e aberrante. Sempre per restare nell’ambito della famiglia, oggi ci sono persone che si sposano con altre del loro sesso; ci sono quelle che si sposano da sole, ovvero con se medesime; e quelle che sposano un animale. Sono casi molto rari, questi ultimi, e tuttavia ce ne sono: è l’inizio di una tendenza. Senza dubbio, nel prossimo futuro, ci saranno persone che si sposeranno con un computer. Trionfa il principio dell’individualismo: ciascuno fa quel che vuole, senza alcuna preoccupazione per gli altri. Ma un mondo disordinato, lo abbiamo detto, fatalmente si autodistrugge: è una legge fisica. Si conserva solo ciò che è ordinato, solo ciò che riesce a ricostituire continuamente una certa quantità di ordine. Il disordine, infatti, fa parte delle leggi della vita: è inevitabile che le cose siano sottoposte a un certo grado di pressione e di logoramento, sia dall’interno che dall’esterno; ma è di vitale importanza che esse riescano a contrastare l’entropia con una ricostituzione progressiva dell’ordine. Di fatto, la realtà si regge su un equilibrio dinamico fra ordine e disordine; tuttavia i due principi non stanno su uno stesso livello ontologico: il principio dell’ordine è di natura positiva, serve a far esistere le cose; il principio del disordine è di natura puramente negativa: registra la perdita di ordine e, in ultima istanza, ratifica la fine dell’esistenza delle cose. Fondare l’esistenza sul principio del disordine significa decretarne la rapida distruzione: è l’ordine che fa esistere le cose, non il disordine.
Non sempre è facile ricostituire l’ordine che si è logorato per il sopraggiungere di varie circostanze. Di nuovo, la famiglia: la morte di un componente è una ferita che incrina l’ordine del gruppo. Se, poi, a morire è un figlio, una persona giovane, che aveva l’avvenire davanti a sé, l’ordine vitale degli altri componenti, e specialmente dei genitori, subisce un colpo fierissimo. Il principio dell’ordine vuole che le ferite siano rimarginate e che le persone ritrovino il senso della loro esistenza; se lo smarriscono, subentra il principio del disordine e si può prevedere che la vita di quelle persone, e forse dell’intera famiglia, precipiterà verso il disordine della depressione, della sofferenza cieca, della disperazione, tutte cose che conducono verso la morte, se non in senso fisico, in senso spirituale. La vita ha bisogno di ordine; la morte è il trionfo del disordine. Gli organi cessano di funzionare, le cellule si disgregano, l’attività spirituale si interrompe – sul piano fisico, beninteso. Chi ama il disordine come principio dell’esistenza, ama, in realtà, la morte. L’incitamento alla libertà sfrenata, alla realizzazione di sé in qualsiasi maniera, assecondando qualsiasi impulso, sono tutte maniere di corteggiare la morte.
La filosofia nichilista è un corteggiamento della morte; l’arte brutta è un corteggiamento della morte; la musica rock pesante è un corteggiamento della morte; i fumetti e i film horror che trasudano violenza e crudeltà, sono un corteggiamento della morte; lo sport praticato con l’assunzione sistematica di sostanza anabolizzanti è un corteggiamento della morte; la finanza che accresce a dismisura i capitali, a scapito della società del lavoro, depauperando le persone concrete che lavorano e risparmiano, è un corteggiamento della morte. La civiltà moderna è una civiltà di morte. E poiché noi viviamo immersi nella modernità, abbiamo perfino smarrito la capacità di accorgerci che stiamo corteggiando la morte, la nostra morte. I libri che leggiamo, i film che guardiamo, i passatempi e spesso perfino gli sport che pratichiamo o ai quali assistiamo e dei quali siamo tifosi, sono altrettante manifestazioni di un istinto di morte. In alcune forme, anche molto diffuse, l’istinto di morte non si prende neanche il disturbo di dissimularsi. La diffusione dell’uso di droghe, anche pesanti, ad esempio, specialmente fra i giovani, è già di per se stessa un fenomeno eloquente; ma è ancor più significativo il fatto che molte forze politiche ne sostengano la perfetta liceità, e che alcuni parlamenti l’abbiano riconosciuta per legge. Un discorso analogo si può fare per l’aborto, riconosciuto per legge in tutti i Pesi occidentali e democratici, mentre in alcuni anche l’eutanasia ha ottenuto un riconoscimento legale. Non solo l’istinto di morte è stato legalizzato, ma è stato anche presentato e recepito presso l’opinione pubblica come una “conquista di civiltà”. Tutto questo si configura come un autentico trionfo del disordine istituzionalizzato: è come se le società occidentali avessero imboccato consapevolmente la strada dell’autodistruzione, approvando e riconoscendo tutte quelle pratiche che introducono una crescente quantità di disordine al loro interno. L’aborto è una forma di disordine perché, oltre che un disordine morale, introduce un elemento di automutilazione e, alla lunga, di autodistruzione per l’intera società: è l’equivalente di un albero che divori i suoi stessi semi. L’eutanasia è un disordine perché infrange il tabù del rispetto incondizionato per la vita, e specialmente per quella delle persone care: facendo passare per un atto di amore la soppressione di un malato terminale, si preparano le condizioni perché la vita appaia sempre più come un fenomeno meramente biologico, che non è degno di essere difeso e conservato se vengono meno le condizioni che noi, soggettivamente, giudichiamo accettabili, il che apre inquietanti scenari futuri, nei quali chiunque si sentirà depresso, o scoraggiato, o deluso, potrà chiedere e pretendere il diritto di essere aiutato a morire. I cosiddetti matrimoni omosessuali rientrano in questa generale tendenza al disordine e all’auto-distruzione. Infatti è evidente che una società nella quale le unioni fra persone dello stesso sesso vengono incoraggiate, e nella quale viene incoraggiata e favorita anche la pratica del cambiamento di sesso, a spese della sanità pubblica, è una società che prepara la propria dissoluzione, visto che la società esiste perché esiste l’amore fra uomo e donna e che da quell’amore fecondo nascono i bambini. Finché i bambini nasceranno da uno spermatozoo e da un ovulo, la sola famiglia degna di essere chiamata tale è quella che si origina dall’unione di un uomo e di una donna. Il fatto che si debbano ripetere simili ovvietà, e il fatto che chi le afferma rischia di essere aggredito, accusato di omofobia, e magari denunciato per istigazione all’odio contro i “diversi”, la dice lunga su quanto in profondità sia penetrato l’istinto di morte – perché di questo si tratta – nella nostra società; e di come ci siamo ormai abituati a considerare normale vivere in un mondo sempre più disordinato, e nel quale il disordine è stato promosso a virtù ed eretto a sistema. Ciò è stato reso possibile da alcuni secoli – perché il male parte da lontano – di cultura materialista, relativista, edonista, soggettivista e ultra-individualista, e, da ultimo, dal dilagare del consumismo, specie nella versione tecnologica – computer, telefonini, social network – che ha dato il colpo di grazia a quel poco che ancora esisteva di ordinato e di amante della vita nella nostra società. Per alcune centinaia d’anni, ma specialmente a partire dal tardo XIX secolo, il pubblico europeo ha corteggiato, celebrato, osannato i cattivi maestri: cattivi maestri nella filosofia e nella letteratura, poi nelle arti figurative, nel cinema, nella musica leggera; per non parlare della politica. Il fatto che milioni di uomini abbiano creduto in capi comeHitler e Stalin è già altamente indicativo; tuttavia, se si considerano i contenuti delle opere di tanti sedicenti artisti, cantanti, registi, e le dichiarazioni e gli stessi atteggiamenti e stili di vita di uomini e donne di spettacolo, nonché dei “divi” dei social network, ci si accorge che non esiste, rispetto a quei casi del recente passato, una differenza significativa nell’odio verso la vita e nel rifiuto dell’ordine, che è anche un rifiuto del bene.
Come si può uscire da una simile situazione? Non esistono ricette, non esistono scorciatoie; la malattia è gravissima, e non si può sperare di guarirne senza sottoporsi ad una cura radicale – la quale, però, richiede del tempo, e non è detto che ne abbiamo ancora molto a disposizione, prima che la nostra società imploda. E la cura radicale consiste in questo: da un lato, abbandonare immediatamente il gusto del disordine, il disprezzo e l’odio per l’ordine, che è poi disprezzo e odio per la vita; dall’altro, ritrovare tutti quegli atteggiamenti, quei pensieri, quegli affetti e quegli stili di vita, che vanno nella direzione di ricostituire sia il nostro io sfilacciato e devastato dall’ubriacatura nichilista ed edonista, sia il tessuto sociale, quasi distrutto da anni e anni di anarchismo dilagante e sempre più aggressivo. Le forze del disordine hanno un nome ben preciso: quelli che denigrano e insultano la vera famiglia; quelli che vorrebbero aprire le frontiere all’ingresso di chiunque, di qualsiasi provenienza e animato da qualunque intenzione, anche la meno nobile; quelli che propongono la libertà di drogarsi, la libertà di sopprimere i malati terminali, quelli che presentano l’aborto come una conquista di civiltà: tutti costoro sono agenti consapevoli del disordine e si possono paragonare ai virus o ai batteri che aggrediscono un organismo sano e che, se non vengono fermati, lo porteranno alla morte. È proprio così che bisognerebbe considerarli: non come i portatori di un’ideologia come un’altra, di una visione lecita quanto un’altra, ma gli odiatori della nostra civiltà, gli odiatori della vita e i fautori di un progetto complessivo di morte. Tali essi sono, in realtà, se si sfrondano le loro parole e i loro gesti dalla vernice buonista della quale si ammantano. A parole, infatti, essi amano i più deboli, gli emarginati, gli ultimi; di fatto, le loro intenzioni sono nere come l’inchiostro e si possono riassumere in questa formula: condurre alla morte l’intera società, nel più breve tempo possibile. E se alcuni fra essi sono realmente in buona fede; se davvero non hanno capito il ruolo che stanno svolgendo, e quale sia la reale posta in gioco: ebbene, bisogna concludere che si tratta di perfetti imbecilli, che vengono usati e strumentalizzati a piacere dai registi occulti di questa sporca e nefanda operazione. Che si sveglino, dunque, e si accorgano di come stanno in realtà le cose! I poveri migranti, tanto per fare un esempio: davvero quei signorini si credono “buoni” perché li vanno a raccogliere nelle acque antistanti la Libia, e poi li scaricano a volontà nei porti italiani, tanto che il nostro Paese ospita circa settecentomila clandestini totalmente fuori controllo, secondo le cifre ufficiali? Davvero ritengono di essere i buoni samaritani che salvano dal naufragio uomini, donne e bambini? Non pensano, al contrario, che grazie a loro una quantità potenzialmente illimitata di africani si sentiranno spinti a tentare la traversata, senza fine, con qualsiasi mezzo, e che tutti quelli che periscono in mare sono, sia pure indirettamente, le vittime necessarie della loro “bontà” velleitaria e scriteriata? E che anche i futuri disadattati e delinquenti stranieri, come Kabobo, e le future vittime di furti, rapine, stupri e omicidi per mano di quei clandestini, come gli anziani coniugi di Catania, massacrati in casa propria, sono dovute, sia pur indirettamente, anche alle loro azioni?
Abbiamo accennato che le cose sono ordiate ad un fine; dobbiamo riprendere ora questo concetto. Il principio dell’ordine non richiede che l’ordine venga adorato in se stesso, come se fosse un fine; l’ordine è un mezzo: la vita ordinata è uno strumento per un fine ulteriore; dobbiamo precisare quale sia tale fine. Affermare che le cose sono ordinate ad un fine è lo stesso che dire che le cose hanno un senso: non sono un frutto del caso, non vengono dal nulla e non vanno verso il nulla. Se il mondo ha un senso, allora esiste un fine per il quale esso esiste; tutto ciò che esiste, esiste per un senso. L’essere non viene dal nulla: l’essere è, quindi, per il fatto di essere, è anche dotato di senso. Le cose, per il fatto di avere l’essere, pur non essendo l’essere, partecipano al senso complessivo del mondo. Ora, il fine e il senso del mondo coincidono, e non possono che essere tutt’uno col Bene, poiché il fatto stesso dell’esistenza è un bene. Immaginare di avere un figlio, per la donna sterile, è una cosa buona; ma aver davvero un figlio è una cosa assai migliore. L’esistenza, rispetto alla mera possibilità, esprime un maggior grado di perfezione delle cose. Dunque, ciò che ha l’essere in se stesso, e che i filosofi chiamano l’Essere, con la lettera maiuscola, è anche il Bene assoluto, perché esso è assolutamente, incondizionatamente ed eternamente, mentre tutte le cose del mondo hanno un’esistenza limitata, imperfetta e transitoria. Ma noi abbiamo detto che le cose sono ordinate ad un fine, e che il fine dell’esistenza è il Bene; dunque, il fine delle cose è l’Essere, ciò che i credenti chiamano Dio. Ancora: abbiamo detto che le cose tendono alla perfezione; ma la pienezza della perfezione è il fatto di esistere assolutamente e incondizionatamente; dunque, le cose tendono alla felicità, perché la felicità consiste nel godere della perfezione. Da tutto ciò appare che siamo fatti per la pienezza, per la vita e per la felicità; e non per l’angoscia, per la disperazione e per la morte…
Francesco Lamendola.
Immagine: Ingmar Bergman, Il Settimo Sigillo. La partita a scacchi tra Antonius e la Morte.
Francesca Rita Rombolà
15 Aprile 2019 a 16:03
Quanto sarebbe bello per la vecchia Europa riscoprire le proprie radici non dico cristiane ma almeno platoniane e aristoteliche, quel sano dissertare sull’Essere che porta alla felice conclusione di una realtà positiva e piacevole per tutti. Ma oggi è ancora possible ciò?