L’ammissione di Imane Khelif alle Olimpiadi nella boxe femminile ha scatenato un’ondata di pesanti critiche da parte degli haters

LA BOXE INGIUSTA ALLE OLIMPIADI WOKE:

L’IDEOLOGIA CONTRO LA BIOLOGIA

di Andrea Zhok


Pugile trans dell’Algeria – bandito dai mondiali di boxe – può partecipare alle Olimpiadi e affronterà la nostra Angela Carini.
Un’atleta messicana che l’aveva affrontata ha dichiarato “i suoi colpi mi hanno fatto molto male, non credo di essermi mai sentita così nei miei 13 anni da pugile, nemmeno combattendo contro sparring partner uomini”.

Da quanto capisco – non seguo queste Olimpiadi come forma di boicottaggio privato – oggi nella categoria superleggeri donne gareggeranno Imane Khalif (Algeria) e Angela Carini (Italia).

Auguro all’atleta italiana ogni bene e possibilmente la vittoria. Tuttavia, c’è un problema non trascurabile. Imane Khalif – secondo quanto riportato dall’International Boxing Association nel 2023 – è biologicamente un uomo, in quanto l’analisi del DNA ha riportato la presenza di cromosomi XY e non XX.

Peraltro, se uno dubitasse dell’analisi cromosomica, uno sguardo alla struttura fisica dell’atleta non lascia molti dubbi.

Ora, in molti sport, e in modo particolarmente rilevante negli sport di combattimento, la differenza biologica tra chi ha avuto una crescita e pubertà maschile e chi ha avuto una crescita e pubertà femminile è molto marcata. La densità ossea è maggiore nei maschi, il che ha due implicazioni: conferisce maggiore resistenza alle percosse e, dipendendo la potenza di una percossa da massa per velocità, l’incremento della massa ossea conferisce maggiore potenza al colpo (le misurazioni medie danno una potenza di pugno maschile del 162% rispetto al pugno femminile). Anche i tempi di reazione sono inferiori e sia le fibre muscolari bianche, da cui dipende la velocità, che rosse, da cui dipende la resistenza, sono mediamente maggiori nei maschi.

Chiedo scusa per essermi soffermato su queste banalità prosaiche, ma in un mondo in cui l’ideologia cancella la realtà, anche l’ovvio deve essere ribadito in forma dimostrativa.

E l’ovvio qui è che mettere su di un ring un atleta geneticamente maschio contro un’atleta geneticamente femmina è una grave scorrettezza. Può darsi che la sorte sia benevola, ma in generale è un’ingiustizia, con potenziali rilevanti rischi fisici.

(Segnalo un dettaglio forse non noto a chi non ha praticato la boxe. Alle Olimpiadi si utilizza un caschetto per gli incontri. Il caschetto nella boxe è l’apoteosi dell’ipocrisia. Infatti il caschetto limita soltanto le ferite superficiali, i sanguinamenti delle sopracciglia o degli zigomi – preservando gli spettatori – ma i traumi cerebrali legati all’entità della percossa sono esattamente identici, e naturalmente sono quelli ad essere i più pericolosi nel medio periodo.)

Ora, la questione è: come si è potuti arrivare a questo punto?

Storicamente la cesura ideologica su questi temi avviene all’inizio degli anni ’70. Fino ad allora le rivendicazioni di genere (first-wave feminism) avevano sollevato il sacrosanto tema dell’eguaglianza formale, legale, dei diritti tra persone di sesso, genere o inclinazione sessuale differente.

A partire dai primi anni ’70 si avvia invece un movimento ideologico con caratteristiche essenzialmente differenti, che non mira più al raggiungimento di diritti legali identici (in Occidente raggiunti), ma ad un non meglio precisato superamento sostanziale” delle differenze.

Di questo superamento sostanziale fanno parte numerose battaglie distinte, il cui punto di caduta comune però è il rifiuto della realtà materiale nel nome di una rivendicazione ideologica (o, per chi vi aderisce, ideale).

Si tratta di una curiosa forma di idealismo, che inizia in sempre maggior misura a negare la realtà come se si trattasse di un improvvido accidente, qualcosa che dovrebbe essere superato di principio dall’autoaffermazione volontaria. Come in una novella forma di idealismo assoluto, l’Io si deve qui imporre al non-Io (alla Natura, alla Materia, alla Società).

Identità di genere

Di questa tendenza fa parte il rigetto delle differenze sessuali, viste come latrici di discriminazione, nel nome della “lotta al patriarcato”, e ne fanno parte tutte le varie forme di rivendicazione dell’identità sessuale percepita, vista come superiore all’identità biologica.

L’intera tematica viene infine presa ostaggio dall’atteggiamento politicamente corretto, che rende ogni discussione aperta di tali questioni difficile, rischiosa, sempre sull’orlo di accuse infamanti.

Il cerchio così si chiude.

La prima mossa sancisce la superiorità delle pretese idealistiche di una sorta di Io assoluto, che può e anzi deve imporsi sulla materia (sulla biologia, ma anche sulla realtà sociale).

La seconda mossa mette al sicuro dalle confutazioni le pretese di questo Io assoluto, isolandolo dalle critiche, attraverso una loro delegittimazione a priori (come omofobe, sessiste, retrograde, ecc.).

E cosa resta fuori da questo cerchio splendidamente autoreferenziale?

Nulla. Nulla salvo la realtà, che anche se i suoi campioni sono stati silenziati, rimane tuttavia testardamente in piedi.

Ed è la realtà che, con i suoi tempi, la sua implacabilità, e purtroppo anche le sue vittime sacrificali, finirà per fare giustizia di questo delirio culturale.

Andrea Zhok

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Tratto da: https://www.facebook.com/andrea.zhok.5/posts/pfbid02SqKotrMtXxdf2TcBUbTVzuAkrAChXP3LGFgPVdFfWFHsceF6osiwin6STLe14UyZl.

 

 

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