«È giunto il momento di costruire un’economia umana a vantaggio di tutti, non solo di pochi privilegiati»

LA CATASTROFE ECONOMICA E IL SUO ORIZZONTE POSTMODERNO


I dati sono sempre più allarmanti, le voci critiche si sollevano, ma la tendenza è la stessa da decenni. Perché?

Il Rapporto 2017 di Oxfam (la confederazione internazionale di organizzazioni non profit impegnate nella riduzione della povertà globale) titola in modo secco e perentorio: «Un’economia per il 99 per cento». Questa è ormai l’economia mondiale: una ricchezza accumulata da pochi. Quindi il sottotitolo del rapporto assevera programmaticamente: «È giunto il momento di costruire un’economia umana a vantaggio di tutti, non solo di pochi privilegiati». I dati ci dicono che la povertà si estende perché la ricchezza si concentra nelle mani di pochi, per i quali è quanto mai opportuno reintrodurre la categoria di privilegio, non in un senso metaforico e parziale, ma nel suo significato reale e brutale: non l’iperbole per indicare la possibilità di beneficiare – più o meno meritatamente – di alcuni beni, ma l’acquisizione di diritti a cui non corrispondono doveri, che esautorano dal loro compimento.

Pablo Picasso, “Poveri in riva al mare”

 

Ecco qualche cifra incredibile offerta da Oxfam:

   « dal 2015 l’1% più ricco dell’umanità possiede più ricchezza netta del resto del pianeta; oggi otto persone possiedono tanto quanto la metà più povera dell’umanità; nei prossimi 20 anni 500 persone trasmetteranno ai propri eredi 2.100 miliardi di dollari: è una somma superiore al PIL dell’India, Paese in cui vivono 1,3 miliardi di persone; tra il 1988 e il 2011 i redditi del 10 per cento più povero dell’umanità sono aumentati di meno di 3 dollari all’anno mentre quelli dell’1 per cento più ricco sono aumentati 82 volte tanto; un amministratore delegato di una delle 100 società dell’indice FTSE guadagna in un anno tanto quanto 10.000 lavoratori delle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh; negli Stati Uniti, secondo le nuove ricerche condotte dall’economista Thomas Piketty, negli ultimi 30 anni i redditi del 50 per cento più povero sono cresciuti dello 0 per cento, mentre quelli dell’1 per cento più ricco sono aumentati del 300 per cento; in Vietnam la persona più ricca del Paese guadagna in un solo giorno più di quanto la persona più povera guadagna in 10 anni.»

***Se tutto questo sembra ingiusto ed è percepito come un problema, e se nessuno auspica che la tendenza continui ad essere questa – come mai continua proprio ad essere questa la tendenza invalsa degli ultimi due secoli (con qualche accidentale e congiunturale variazione)? Lo si può capire solo prendendo in considerazione le categorie filosofiche fondamentali che hanno dato forma alla società occidentale: ci si accorgerebbe del perché i concetti di «umano» e di «vantaggio di tutti» siano divenuti involucri vuoti privi di capacità effettuale di trasformazione. Il modo più semplice per adombrare la plausibilità di questo giudizio è proprio il fatto che, benché da decenni si muovano critiche alla società capitalistica così come essa si sviluppava e continua a svilupparsi, e in nome di «un’economia umana a vantaggio di tutti», il corso del mondo sia lo stesso da due secoli e i risultati che produce sempre più evidenti. Il nodo cruciale sta nella concezione filosofica alla base del capitalismo, che è la logica che, assieme al capitalismo, va diffondendosi su scala planetaria; essa ha preso il nome tecnico di nichilismo, si è chiamata col nome più comune di relativismo e si è definitivamente, finalmente compiaciuta, battezzata Postmoderno. È questa logica filosofica, assunta inconsapevolmente, a dettare il destino del mondo. Pochi sono i pensatori la cui disamina è stata in grado di coglierla nella sua complessità e nella profondità nella quale si radica. Pensatori che, per l’appunto, sono poco considerati e studiati, perché incompresi. I nomi sono quelli della grande tradizione filosofica italiana e quello di Gómez Dávila. Così un abbozzo notevole della questione nelle parole di Ugo Spirito in La vita come arte:

Ugo Spirito (1896-1979)

«Una volta rigettata ogni istanza metafisica e gnoseologica, la vita non può concepirsi che sul piano dell’immediatezza, ossia dei giudizi di valore non giustificabili in funzione di un criterio sistematico. E allora è chiaro che assumere come valore il bello val quanto assumere l’utile o il buono, e non v’è anzi possibilità alcuna di dare ai concetti di bello, di utile, di buono un fondamento che vada al di là del gusto. La vita è bellezza dirà l’uno, e l’altro risponderà che invece è sacrificio, ma la sua risposta è dogmatica quanto la prima e non ha argomenti di sorta per combatterla e sostituirla. […] Perché l’altruismo possa dirsi veramente moralità, e distinguersi dall’edonismo e dall’estetismo, occorre non porre arbitrariamente l’altro come oggetto del proprio gusto, ma riconoscerlo come valore assoluto, in virtù di una metafisica che consenta di concepirne l’effettiva alterità. Fino a quando questa fondazione metafisica dell’altro e propriamente del significato dell’essere non è compiuta, parlare di moralità è soltanto una ipocrisia da retore.»

Questa la situazione nella quale ci troviamo, questa la logica inconscia che ci guida. Certamente lamentiamo le condizioni nelle quali ci troviamo, ma non per la loro ingiustizia: lamentiamo l’ingiustizia nella misura in cui non ci consente di partecipare al bottino. Qualora vi riuscissimo continueremmo quella tendenza che prima ci aveva reso vittime e poi ci incorona carnefici. Così come finora è avvenuto. O iniziamo a meditare seriamente questa contraddizione o continueremo a viverla ed alimentarla. La realtà che il capitalismo manifesta con sempre più chiarezza non è il prodotto di un certo tipo di capitalismo, né di scellerate politiche o di congiunture impreviste: è la logica stessa del capitalismo che lo fa da sempre essere ciò che oggi si fa più visibile. Contributi di autorevoli economisti sono recentemente stati raccolti a cura di Mariana Mazzucato e Michael Jacobs per Ripensare il capitalismo (Laterza, 2017), perché – si afferma – una svolta è necessaria. Ma ciò che oggi non è in luce è che una svolta all’interno del capitalismo è impossibile. Ripensarlo significa quindi comprendere diversamente quel che siamo diventati e come lo siamo diventati, proponendo una visione complessiva che inglobi l’orizzonte filosofico che ha dettato l’inferno della prima metà Novecento e la catastrofe della sua seconda metà. L’analisi economica, benché insufficiente, è però imprescindibile. Vediamo a grandi linee cosa è successo dal secondo Novecento ad oggi.

Come sottolineato a più riprese in Ripensare il capitalismo, benché una crescita debole e instabile sia costitutiva del capitalismo occidentale degli ultimi decenni, anche quando la crescita vi è stata, la popolazione non ne ha beneficiato: l’incremento del proprio reddito non ha seguito l’incremento della ricchezza complessiva.

Nel 2014 il reddito familiare mediano reale negli Stati Uniti era di circa 53 mila dollari: pressoché invariato rispetto ai circa 52 mila dollari di un quarto di secolo prima, nel 1990; ma in questo periodo il Pil era cresciuto del 78 per centro.

Se negli anni ’70, come indicato nei Global Wage Reports dell’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro), le retribuzioni erano tendenzialmente proporzionali alla produttività, dagli anni ’80 all’aumento del circa l’85 per centro della produttività del lavoro è seguita una retribuzione solo del 35 per cento circa.

Un dato ancor più sorprendente è costituito dalla ripresa nei tre anni successivi al crac del 2007-2008: il 91 per cento dei guadagni di reddito è andato all’1 per cento più ricco della popolazione. Ma la tendenza risale a ben prima della crisi: l’Ocse indica che negli ultimi vent’anni i guadagni dell’1 per cento più ricco della popolazione sono quintuplicati.

Per entrare più nel dettaglio, prendendo come esempio gli Stati Uniti dell’analisi fornita da Piketty e Saez in Income inequality in the United States, tra il 1980 e il 2014, il reddito medio dell’1 per cento più ricco della popolazione è cresciuto del 169 per cento; dello 0,1 per cento dei più ricchi è cresciuto perfino di più: del 281 per cento. Le cose sono andate diversamente in questi 34 anni per il reddito familiare mediano: è aumentato dell’11 per cento; ed è aumentato sempre meno: dal 1989 al 2014 è cresciuto solo dello 0,7 per cento.

Il confronto degli ultimi 40 anni (1973-2014) con i 25 (1948-1973) successivi al secondo conflitto mondiale – all’incirca quelli del boom economico – mostra una tendenza ribaltata: in quel primo periodo del dopoguerra i salari erano cresciuti allo stesso ritmo della produttività ed erano quasi raddoppiati; nel secondo periodo, mentre la produttività è aumentata di oltre il 70 per cento, la retribuzione è aumentata del 9 per cento soltanto. Quei vent’anni non sono la regola del capitalismo, ma un’eccezione nei suoi 200 anni. La comprensione del capitalismo passa necessariamente da qui.

Per ora accontentiamoci di scendere uno scalino in più nel particolare, ma per un “dettaglio” non da poco. Di recente, nel luglio scorso, ha creato scandalo l’ennesima buonuscita per un amministratore delegato, questa volta toccata a Flavio Cattaneo da parte del Consiglio di amministrazione di Tim, corrispondente a 25 milioni di euro. L’ennesima, appunto: l’AFL-CIO (l’American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations, che è la più grande centrale sindacale degli Stati Uniti, formata da oltre 50 sindacati nazionali ed internazionali, che rappresentano oltre 12 milioni di lavoratori) ha rilevato come il rapporto fra il salario di un amministratore delegato e quello del lavoratore medio sia salito da circa 20 a 1 a 354 a 1 nel 2012. Nel 2016, i 500 amministratori delegati più pagati hanno guadagnato mediamente 13 milioni di dollari, mentre il guadagno medio di un lavoratore è stato di 37 mila dollari. Ciò significa che un amministratore delegato guadagna in media 351 volte quel che guadagna un comune lavoratore. Realtà che il presidente dell’AFL-CIO ha commentato senza mezzi termini:

«L’ineguaglianza delle entrate che esiste nel nostro Paese è una disgrazia. Dobbiamo fermare gli amministratori delegati di Wall Street dal trarre profitto sulle spalle dei lavoratori.»

Ma chi potrà mai fermare gli amministratori delegati di Wall Street se il sogno più o meno recondito di ogni occidentale postmoderno è quello di fare la propria scalata in questa società e, magari, con successo sostituirvisi?

Gabriele Zuppa

 

 

 

8 settembre 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

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