”Da Platone in poi i filosofi si sono dedicati a immaginare città e Stati perfetti
LA CITTÀ UTOPICA
Da Platone in poi i filosofi si sono dedicati a immaginare città e Stati perfetti. Nel Rinascimento, Moro e Campanella vagheggiarono isole paradisiache dove regnava il bene comune, ma nel Novecento la visione si ribaltò, passando dall’utopia alla distopia.
Mai come oggi vorremmo abitare in una città utopica percependo che il mondo così non va. Le utopie infatti non nascono a caso. Tommaso Moro, umanista inglese del ‘500, per primo ha ideato il termine, ma la sua “Utopia” non si esaurisce nella città ideale: prende forma da quella reale e ne fa una critica spietata. Esemplare, giocando con il greco antico per fissarne l’etimologia: ou-topos (“non-luogo”) e eu-topos (“luogo felice”); insomma la sua Utopia equivaleva a un «luogo felice che non esiste». La società inglese del Cinquecento, in rapida evoluzione, accentua le ingiustizie: i ricchi sono sempre più rapaci e i poveri sono ridotti alla fame al punto che – perversione nelle perversioni – il sistema che fa l’uomo ladro finisce per punire il furto niente meno che con la pena capitale.
Ed ecco che Tommaso Moro immagina la sua città ideale dove la natura dell’uomo sembra essere rimasta allo stato di innocenza anteriore al peccato originale. Il bene prezioso dell’innocenza va custodito e preservato, occorre disciplinare la società in modo adeguato attraverso un’educazione pervasiva e salda ma se qualcuno viola la legge bisogna punirlo in modo adeguato. Questo è il compito della famiglia monogamica a cui accede la donna che abbia compiuto 18 anni e l’uomo 22. Il matrimonio normalmente è destinato a durare tutta la vita, tuttavia il divorzio è consentito in caso di adulterio o per incompatibilità di carattere. L’adulterio è punito con la più dura forma di schiavitù, mentre gli adulteri recidivi sono condannati a morte.
I giovani obbediscono agli anziani e tocca ai mariti castigare le mogli e ai genitori i figli.
Beni in comune, abolizione della proprietà privata e scomparsa del commercio, reso superfluo dall’assenza del mercato e dalla pratica dell’autoconsumo, perseguito grazie al lavoro nei campi. Ma per non più di quattro o sei ore al giorno: al cittadino serve tempo per riposare, riflettere e dedicarsi alla cultura, considerata l’unico lasciapassare per accedere alle leve di comando di una società fondata sul primato del sapere. Sono le basi costitutive della società ideale che Moro fa incontrare all’immaginario viaggiatore e filosofo Raffaele Itlodeo quando sbarca sull’isola di Utopia: un neologismo, che definisce il “luogo che non è in alcun luogo”, patria della perfezione inaccessibile.
Il libriccino davvero aureo, non meno benefico che divertente, sul migliore stato di una repubblica e della nuova isola, l’isola che non c’è, scritto nel 1516 e intitolato Utopia (in latino Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova isula Utopia). Moro immagina una struttura politica libertaria, dove ognuno abbia piena libertà di pensiero e di parola, e nessuno venga perseguitato per il suo credo religioso (sebbene gli atei non siano ben accetti ed esclusi dalla vita politica).
Se a Moro si riconosce l’invenzione del termine “utopia”, nemmeno prima erano mancati tentativi di costruire mondi ideali: nella “Repubblica”, Platone aveva teorizzato che la città ideale (anche qui tutto era in comune) dovesse essere suddivisa in tre classi: i lavoratori, i guardiani, i filosofi. Gli unici ad avere diritto alla vera educazione dovevano essere i filosofi. Per gli altri, in particolare i guardiani, era necessaria la menzogna (Platone la definisce “nobile”), perché tutti rimanessero al loro posto e non osassero mutare l’equilibrio della città perfetta.
L’Utopia fu il primo tentativo di trasferire in politica e filosofia l’ansia regolatrice propria del Rinascimento, che pose l’uomo e il suo agire razionale al centro dell’interesse speculativo e delle scienze sociali, eliminando dal consesso civile diseguaglianze, conflitti e ingiustizie. Moro non restò solo con il suo sogno: inaugurò un florido filone di opere che tradussero le utopie in progetti politici e filosofici improntati a giustizia e tolleranza, spesso senza riuscire a coniugare questi valori con le libertà personali.
La fine di un visionario
Tommaso Moro pagò con la vita l’aver rifiutato di accettare l’Atto di Supremazia del re sulla Chiesa d’Inghilterra. Aver ostacolato il Re è stata una grave offesa, ma mai quanto l’aver tradito un amico. E Re Enrico VII l’ha percepito proprio come un tradimento il comportamento del suo Lord Cancelliere (e amico): quando Tommaso Moro è stato considerato alla stregua degli uomini più malvagi. E per questo sarebbe dovuto morire.
«Avanzò quindi verso il ceppo, davanti al quale s’inginocchiò per la recita del Miserere. Poi si rialzò in piedi, e quando il boia gli si avvicinò per chiedergli perdono, lo baciò affettuosamente e gli mise in mano una moneta d’oro. Poi gli disse: “Tu mi rendi oggi il più grande servizio che un mortale mi possa rendere. Solo stà attento: il mio collo è corto, vedi di non sbagliare il colpo. Ne andrebbe della tua riputazione”. Non si lasciò legare. Da sé si bendò gli occhi con uno straccetto che s’era portato appresso. Quindi, senza fretta, si coricò lungo disteso, appoggiando il collo sul ceppo, che era molto basso. Inaspettatamente si rialzò con un sorriso sul labbro, raccolse con una mano la barba e se la collocò di lato celiando: “Questa per lo meno non ha commesso alcun tradimento”.» (Guido Pettinati, I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine, Segno, 1991, pp. 246-51.)
Il Paradiso in Terra
Altro idealista fu Tommaso Campanella frate domenicano, autore de La Città del Sole, pubblicata nel 1623, colloca la sua città ideale a Taprobana. Fu il geografo greco Megastene a parlare per primo di quell’isola, verso il 290 a. C., facendo entrare nella cultura e nell’immaginario occidentali questa terra favolosa, ammantata di foreste e popolata di elefanti. Plinio il Vecchio racconta che il mercante Annio Plocamo, agli inizi del I secolo d. C., condusse una spedizione a Taprobana, dove ebbe notizia di un Paese posto al di là dei Monti Emodi (probabilmente l’Himalaia) abitato dai Seri, popolo misterioso che non può essere identificato con i Cinesi Han, perché i suoi membri sono descritti di alta statura, con gli occhi azzurri e i capelli biondi e va forse identificato con i Saki o i Tocari, entrambi di origine indoeuropea. Così Campanella riproducendo l’antico mito di Atlantide descritto da Platone nel “Timeo” e nel “Crizia”, e quello vagheggiato da Orazio nelle “divites insulae” (“Odi”, IV, 8, 25-27; “Epodi”, XVI, 41 e sg.), sulla traccia di Esiodo (“Le opere e i giorni”, 126-173 dove si parla delle “makàron nésoi”, isole dei beati), e si sviluppa su una collina circolare, divisa in sei gironi separati da mura invalicabili. Immagina quindi un dialogo tra un cavaliere dell’ordine degli Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme e un “genovese nocchiero di Colombo” il quale racconta di aver girato il mondo e di essere approdato a Taprobana scoprendovi la Città del Sole, che egli descriverà come luogo felice e ordinato, per leggi e costumi, di una società perfetta.
Anche lì è stata abolita la proprietà privata e l’attività lavorativa giornaliera non supera le quattro ore. Campanella disegna un esempio di “comunismo teocratico”, che pone gli eruditi al vertice della piramide sociale e bandisce guerre, fame, e violenze. Per farlo introduce l’incessante azione degli “offiziali” (una sorta di polizia), che vigilano su tutto e incarnano il richiamo all’ordine e alla disciplina che caratterizza l’intera società pensata dal frate calabrese, disposto a sacrificare al suo “modello” ogni spazio di libertà.
Il pensatore calabrese pagò carissima la sua opera di dissidente un domenicano che non frequenta il convento e che rifiuta Aristotele e San Tommaso per Bernardino Telesio a cui trassero ispirazione dalla sua dottrina Giordano Bruno, Cartesio e lo stesso Campanella, non può essere un buon cattolico. Processato dall’Inquisizione romana per eresia nel 1594 e confinato agli arresti domiciliari per due anni. Cinque anni dopo nel 1599, fu accusato di aver cospirato contro i governanti spagnoli della Calabria, fu torturato e messo in prigione, dove trascorse 27 anni. Durante tale periodo di reclusione scrisse le sue opere più significative. Ma un carcere è anche la sua Città del Sole scritta in quel periodo, dove il sole non è l’astro del cielo, ma il magistrato supremo, rappresentante del potere. La società “felice” è una città fortificata inespugnabile che non conosce conflitti, corruzione, inimicizia, invidia, tradimento, fame. La forma del libro è il dialogo tra due uomini di mondo, l’Ospitalario, un Cavaliere di Malta che ha visitato la città, situata da Campanella nell’isola di Ceylon e il Genovese, un mercante.
Meno claustrale appare un’altra “isola che non c’è”, la Nuova Atlantide teorizzata da Francesco Bacone nel 1627. La Nuova Atlantide è un’isola immaginaria del Pacifico – l’isola di Bensalem – abitata da un popolo cristiano che vive in pace, che vi si è rifugiato per dedicarsi all’approfondimento della conoscenza della natura e all’utilizzazione pratica del sapere acquisito.
Bacone ribalta quell’universo utopico di Platone e del sacerdote nella Città del Sole: a guidare il suo Stato ideale sono gli scienziati, portatori di un sapere pratico, capace di trasformare la realtà. Nella ricerca di una società ideale e perfetta, quindi, Bacone assegna al metodo sperimentale il compito inedito, e per l’epoca rivoluzionario, di far progredire l’intera umanità verso il bene. Tra esperimenti prodigiosamente anticipatori e fratellanza universale, gli abitanti della misteriosa isola sono la prima raffigurazione letteraria della nuova epoca scientifica.
Al marinaio spagnolo, costretto da una tempesta ad approdare insieme all’equipaggio sull’isola, un saggio mostra le meraviglie della «casa di Salomone», sorta di Accademia delle scienze, cervello e centro motore della ricerca. Ci sono torri alte 3 miglia per l’osservazione meteorologica, allevamenti sperimentali, centri di fecondazione artificiale, istituti per lo studio della termologia, dell’ottica, dell’acustica, dei fenomeni olfattivi.
Gli abitanti della Nuova Atlantide dispongono di macchine per volare e di navi subacquee. Vengono a conoscenza dei progressi del sapere nel resto del mondo per il tramite di confratelli-spie («mercanti di luce»), spediti nei vari continenti in incognito.
Il filosofo inglese pur non dilungandosi a lungo sulla struttura sociale della sua costruzione (retta dal fondamentale istituto della famiglia), ma pone l’accento sul dominio della ragione e della scienza, e sulla ricerca promossa e controllata dallo Stato, che piega il sapere all’utilità sociale.
Al di là delle differenze tra i singoli pensatori, tutte le costruzioni utopiche di età rinascimentale e moderna rappresentano il tentativo di esprimere, in modo più o meno esplicito, una forma di critica sociale ai regimi del loro tempo, attraverso il ritratto di un ideale che raddrizzi le storture della Storia. Tutti, da Moro a Bacone, si ispirano più o meno direttamente a quello che resta l’archetipo filosofico e letterario del genere, la Repubblica, l’opera in cui Platone disegna il suo modello di Stato ideale retto da filosofi, guerrieri e lavoratori, dove ciascun individuo è in grado di trovare la felicità nell’equilibrio tra l’anima individuale e la città.
Il collettivismo platonico
Con i suoi epigoni, Platone condivide un’organizzazione sociale che respinge la proprietà privata, ripudia la guerra e predica la distribuzione dei beni e il rispetto degli individui di ambo i sessi.
L’ideale su cui si fonda lo stato di Platone non può essere definito vero e proprio comunismo, come, invece, in molti libri gli autori lo definiscono. Le sue teorie politiche erano una diretta conseguenza delle sue teorie filosofiche. Se proprio si vuol parlare di “comunismo”, lo si deve mettere almeno tra virgolette, precisando che si trattava di una forma di “statalismo”, la quale, Platone non riuscì a realizzare da nessuna parte e della quale egli ne parlò in maniera più che altro provocatoria, per sfidare una cittadinanza resasi colpevole della più grave ingiustizia che avesse mai compiuto: condannare Socrate a morte.
Il modello platonico, come quello degli umanisti, ricerca la perfezione dell’organizzazione politica attraverso la valorizzazione del sapere, che pone nelle mani dei dotti il timone della società ideale. Le radici della cultura sono amare, ma i frutti sono dolci diceva Aristotele e proseguiva nel suo ideale di città perfetta che deve essere a misura d’uomo, tale da soddisfare le sue necessità senza eccessi, e anche i cittadini dovrebbero avere i caratteri morali del giusto mezzo: i giovano saranno guerrieri poi consiglieri e sacerdoti da vecchi, in modo da sfruttare la loro forza secondo una giusta misura. ‟Katà Métron”, dicevano i greci, come contenimento del desiderio, della forza espansiva della vita che, senza misura, spinge gli uomini a volere ciò che non è in loro potere, declinando così il proprio ‟demone”, la propria disposizione interiore non nella felicità (eu-daimonia), ma nell’infelicità (kako-daimonia), che quindi è il frutto del malgoverno di sé e della propria forza, obnubilata dalla voluttà del desiderio.
L’illuminista francese Louis-Sébastien Mercier, autore del romanzo utopistico fantascientifico L’anno 2440, pubblicato nel 1770: Mercier, nella sua opera, immagina di rimanere addormentato per lungo tempo per poi risvegliarsi nel 2440, all’età di 700 anni. Da qui inizia la descrizione della nuova Parigi futuribile, realizzata attraverso una rivoluzione pacifica fondata su un modello sociale utopico, dove trionfa la libertà di stampa e viene riconosciuto il ruolo primario degli intellettuali. Dopo varie peregrinazioni il protagonista visita un castello in rovina, dove vede un vecchio piangente. Costui è il re, che piange per tutti i mali commessi durante il suo regno. In seguito il protagonista viene morso da un serpente e torna alla realtà.
Il romanzo anticipò profeticamente gli ideali della Rivoluzione francese, calpestati poi dal terrore giacobino.
Conclusasi l’epopea napoleonica, furono i fautori del socialismo utopista, delusi dai risultati della rivoluzione borghese che aveva distrutto il vecchio ordine feudale senza saperne costruire uno nuovo, a brandire la fiaccola dell’utopia per squarciare le tenebre della società capitalistica, fondata sull’ingiustizia sociale. Nella prima metà dell’Ottocento, il filosofo francese Charles Fourier è stato l’autore che ispirò la fondazione della comunità socialista utopista concreta erigendo agli inizi del XIX secolo, una struttura abitativa in cui si svolgeva la vita dei membri dell’unità sociale di base prevista nelle sue teorie e da lui denominata “Falange”. Secondo il pensatore politico francese, ogni Falange avrebbe dovuto essere costituita da un minimo di 1600 ad un massimo di 2200 individui, comprendendo circa 450 famiglie, piccole città ideali isolate, comunità di lavoratori autosufficienti nella produzione e nel consumo, isole di socialismo all’interno del sistema capitalistico. Tentativi, quelli di Fourier e dei suoi discepoli come Babeuf, autore di un Manifesto degli uguali poi sfociata in una cospirazione organizzata in Francia nel maggio 1796 dalla congiura degli Eguali contro il Direttorio che aveva lo scopo di abolire la proprietà privata, sostenendo esplicitamente che i frutti della terra appartengono a tutti, in modo da far scomparire ogni differenza sociale fra gli uomini; venne spazzata via dalla condanna dei primi teorici del socialismo Marx ed Engels, primi teorici del socialismo scientifico
Gli orrori delle distopie
Il Novecento si aprì con l’illusione dell’utopia comunista, ma conobbe presto le tragiche distorsioni di quell’ideale fattosi realtà. La risposta di artisti e intellettuali a tale disillusione fu affidata alla “distopia”, termine che deriva dal greco antico “δυς-” (dys): “cattivo” e “τόπος” (topos): “luogo”, dunque un luogo che ha caratteristiche negative.
Videro così la luce le profezie apocalittiche di Aldous Huxley, nei romanzi Il mondo nuovo (1932), il libro anticipa temi quali lo sviluppo delle tecnologie della riproduzione, l’eugenetica e il controllo mentale dell’individuo usati per forgiare un nuovo modello di società, tratteggiando una distopia in cui l’uomo vive in un drammatico limbo esistenziale. Ne L’isola (1962); nemmeno una terra paradisiaca come l’isola di Pala, i cui abitati fanno uso di droghe “della felicità” (l’opera è famosa in particolare perché l’autore l’ha scritta durante i suoi esperimenti con la mescalina), può sfuggire alle crudeltà della Storia. Altrettanto drammatiche le fantasie, oggi tanto profetiche, di George Orwell nella Fattoria degli animali e, con così vivida realtà fantapolitica e fantascientifica con tratti decisamente profetici e inquietanti, descritta nel suo più noto romanzo 1984 ad aver dato luogo alla nascita dell’aggettivo “orwelliano”, oggi ampiamente usato per descrivere meccanismi totalitari di controllo del pensiero.
Due opere che, attraverso le loro visioni distopiche, denunciano la deriva totalitaria tanto del comunismo realizzato, quanto del capitalismo avanzato. Così il “Grande Fratello” di Orwell diventa metafora di un perverso sistema sociale basato sul controllo degli individui, realizzano grazie alla forza pervasiva delle tecnologie e alla progressiva ma inesorabile riduzione del dizionario.
Il lungo filone degli “utopisti”, inaugurato da Platone e passato attraverso le società ideali degli umanisti e la critica sistemica dei primi socialisti, approdò così, nel Novecento, alla denuncia dell’utopia stessa, dei suoi errori e degli errori a cui aveva dato vita tutte le volte che qualcuno aveva tentato di tradurla in realtà. Dunque fine dell’utopia? Vedo il filosofo tedesco Herbert Marcuse scuotere la testa, padre ideologico dell’ultima stagione che ispirò al cambiamento, ossia che sfociò nei movimenti giovanili del Sessantotto. È pur vero che nel 1967, davanti agli studenti berlinesi, Marcuse annunciava che l’utopia era finita, ma non nel senso del suo fallimento, quanto della sua vicina realizzazione. Identificata tale possibilità nello sviluppo della scienza, della tecnologia e dell’automazione, che avrebbero progressivamente sostituito il lavoro fisico con quello intellettuale, generando un enorme forza produttiva e morale a fronte di un impegno decrescente della “forza lavoro”. Una contraddizione che avrebbe reso insostenibile il perdurare del dominio capitalistico.
Dunque le Città ideali di Platone, Aristotele… hanno sempre un denominatore comune: il controllo del popolo, vuoi attraverso la cultura vuoi attraverso l’indottrinamento sistematico delle proprie idee.
Riccardo Alberto Quattrini
Bibliografia:
- Tommaso Moro, L’utopia, Laterza, Roma, 2015
- Platone, La Repubblica, BUR Rizzoli, Milano, 2007
- Tommaso Campanella, La città del sole, Adelphi, Milano, 1995
- Francis Bacon, Nuova Atlantide, BUR Rizzoli, Milano, 2015
- Aldous Huxley, L’isola, Mondadori, Milano, 2017
- George Orwell, 1984, Mondadori, 2005
- Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 2017