Mentre la realtà del conflitto smentisce la narrazione ufficiale, politici e media continuano a recitare una parte che non convince più nessuno. La guerra è vera, ma la commedia continua.

LA COMMEDIA È FINITA, MA GLI ATTORI NON L’HANNO CAPITO

Il Simplicissimus  

La commedia è finita, ma gli attori non l’hanno capito – Nel grande teatro della geopolitica, la scenografia è in fiamme, ma gli attori sul palco continuano a recitare, convinti che il pubblico stia ancora applaudendo. In un contesto di guerra reale e propaganda farsesca, il racconto occidentale sulla debolezza russa e sulla vittoria imminente dell’Ucraina appare sempre più come una pièce fuori tempo massimo, incapace di confrontarsi con la cruda realtà dei fatti sul campo. Mentre le forze russe guadagnano terreno e infliggono colpi pesanti alle infrastrutture militari avversarie, i media continuano a vendere illusioni, ignorando segnali evidenti: offensive fallite, alleati silenziosamente in ritirata, e persino episodi di guerriglia interna nelle roccaforti ucraine. Questa è la cronaca di una narrazione che si ostina a ignorare il sipario già calato, mentre i protagonisti, ciechi e sordi, insistono nel loro ruolo, inchinandosi a un pubblico che non c’è più.


Aprendo qualche giorno fa la Stampa, con supremo sprezzo del pericolo per la propria vita intellettuale, si poteva leggere un articolo in cui si diceva che la Russia era una tigre di carta e che l’Ucraina aveva tutte le carte per prevalere. Questa attenta analisi veniva fatta nel momento in cui i russi avanzavano lungo tutto il fronte e distruggevano decine di strutture militari del regime di Kiev e della Nato, facevano saltare un deposito per lo stoccaggio dei missili a Odessa, azione nella quale hanno perso la vita circa cento militari francesi e hanno annientato alcune strutture di assemblaggio dei droni. Per giunta, evento forse ancor più significativo da un certo punto di vista, il vice capo del reclutamento di Odessa è stato ucciso dai partigiani filorussi. Se a questo aggiungiamo il fatto che l’attacco terroristico, meticolosamente preparato per colpire la triade nucleare russa, ha fatto molto scalpore, ma nel complesso si è rivelato un fallimento.

Questo è solo un esempio della totale irrealtà in cui viviamo e in cui naviga il potere globalista che è ormai in grave crisi perché le sue promesse si sono rivelate illusorie, i suoi presupposti – utilitarismo e mercato – errati, il tentativo di mantenere in piedi l’iper-consumismo a debito che è l’unica vera forma di populismo esistente, completamente fallimentare. Ciò in qualche modo è all’origine della frattura che si è creata fra Stati Uniti e Ue: gli Usa se la devono vedere con il loro debito di 36 trilioni di dollari che costituisce la metà del debito pubblico planetario, hanno un grave deficit commerciale e per giunta i valori azionari e obbligazionari sono del tutto scollegati dai profitti e del tutto disconnessi dai debiti che gravano sulle grandi aziende, 300 triliardi di dollari secondo un calcolo approssimativo. Insomma, devono fare qualcosa per uscirne prima di un crollo, anche se non si sa bene cosa, ma in ogni caso è necessario arrivare gradualmente o a seguito di qualche evento traumatico – e almeno per questo in Occidente non mancano le competenze professionali – a una svalutazione del dollaro. I dazi non sono che una preparazione per questo scenario. Inoltre, gli Usa hanno in qualche modo interiorizzato il senso di sconfitta. Come dice Emmanuel Todd: la politica delle sanzioni ha dimostrato che il potere finanziario dell’Occidente non era onnipotente. Agli americani è stata ricordata la fragilità della loro industria militare. Chi lavora al Pentagono sa bene che uno dei limiti della loro azione è la ridotta capacità del complesso militare-industriale americano. Che l’America sia nel mezzo di una seria rivoluzione, in questo momento – facilmente paragonabile alla fine dell’Urss – è compreso da pochi”.

Si tratta della sconfitta di un intero modello, rimasto in piedi per molti decenni, anzi ormai da sessant’anni. Paul Walker ex presidente della Federal Reserve, ha affermato che ciò che tiene insieme l’intero sistema globalista è stato l’enorme flusso di capitali dall’estero (oltre 2 miliardi di dollari al giorno lavorativo) che ha sostenuto lo stile di vita confortevole e poco inflazionistico degli Stati Uniti. Ma certo tutto ciò ha causato guasti epocali.

Com’è ovvio, tutto ciò ha come conseguenza la perdita di potere delle centrali globaliste che negli ultimi decenni hanno accumulato risorse gigantesche con le quali favorire il passaggio a un mondo fatto a loro immagine e somiglianza. In Europa la crisi non è ancora così acuta perché in qualche modo una parte dell’economia produttiva si è conservata e perciò il globalismo ha tuttora una certa presa grazie soprattutto all’esistenza di una governance slegata dal consenso, come quella della Ue. Una delle vie d’uscita intraviste dalle élite è la continuazione di una guerra grazie alla quale mettere le mani sulle risorse rimanenti per continuare vanamente un gioco che si è già concluso. In aggiunta, proprio la psicologia della sconfitta rende pressoché impossibile comprendere gli eventi mondiali: la dissociazione quasi patologica dal mondo reale che la Ue mostra nelle sue parole e azioni è una barriera ancora troppo resistente. Chi capisce meglio le cose sono invece i ceti popolari – che in qualche modo sono già stati sconfitti tra gli anni ’80 e ’90 – e ora rifiutano di adeguarsi alle parole d’ordine anche quando si presentano circondate da rulli e tamburi o da illusionismi per strappare il consenso. Vedi referendum.

Redazione

 

 

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