”Tanti dentisti per il mollusco.
La trama del romanzo.
Il suo nome in codice è ’o Mollusco. Perché un nome in codice, per lavorare nella Compagnia delle Illusioni, è indispensabile, “un nome mellifluo, imprendibile”, come imprendibile deve essere la realtà dietro la finzione. Dopo una carriera d’attore con poche soddisfazioni – l’unico ruolo vagamente importante è stato Raffaele, il portiere impiccione dello sceneggiato Tutti a Casa Baselice! –, a quasi cinquant’anni Antonio Morra vive con mammà e la sorella Mari’ a Napoli e si arrabatta dirigendo la compagnia teatrale amatoriale fondata dal suo dentista per compiacere le amanti e i clienti importanti. La sua vita si è persa molti anni prima, quando Lea, l’amatissima fidanzata che portava in grembo la loro bambina, è morta. Da allora Antonio è diventato un uomo senza capo né coda: l’uomo perfetto per la misteriosa zia Maggie, che lo attrae nella rete segreta della Compagnia delle Illusioni. Ed è così che Antonio diventerà finalmente ’o Mollusco: l’interprete di mille ruoli diversi che gli permetteranno di influire sulle vite altrui, perché “le persone non vedono ciò che è vero, ma rendono vero quello che desiderano vedere”. Ma proprio quando crederà di essere al sicuro da ogni responsabilità verso se stesso e gli altri, quando l’illusione avrà sovvertito la sua vita e tutta Napoli, proprio in quel momento avrà l’occasione di ritrovarsi. Perché, in fondo, “la conseguenza ultima della finzione è la verità”. Una delle voci più sorprendenti della recente stagione letteraria italiana ci regala una commedia ricca di svolte inaspettate e personaggi irresistibili, doppi, acutissimi.
Come inizia.
- Il paese sta al paesaggio
- come la persona sta al personaggio.
- In un paese vivono le persone,
- in un paesaggio vivono i personaggi.
Prima parte
Amata, molto amata Lea
Lurida città puzzolente e sporca e cafona, città di cessi a vento che vi ha portato via senza dirmi niente, senza chiedere permesso, senza avvisare, senza darmi il tempo di un bacio a quelle labbra morbide e dolci come polpa di pera, sempre profumate, un bacio al tuo sorriso che ti si appoggiava, anzi ti fioriva, in volto come la grazia improvvisa e commovente sulla faccia dei bambini colti di sorpresa, e questa città di gente rozza e terribile, sempre pronta a sgomitare solo per arrivare prima di te dovunque e sentirsi felice come il gallo che canta sulla monnezza credendosi un leone, questa città senza gentilezza, senza amicizia, senza amore, senza speranza, senza gratuità se non quella pretesa dagli altri, senza discrezione se non quella dell’indifferenza, mai quella del rispetto, città senza sorriso, con un passato maltrattato e dimenticato e un futuro brodoso, sciapito, abusivo e arrugginito e fascista, questa città vi ha portato via da me, e io sono rimasto solo proprio mentre mi riempivo la testa e la pancia di sogni e desideri di felicità a portata di mano, convinto di andare incontro alla gioia, a una figlia, a una donna amata e a una vita raddoppiata, triplicata dall’arte, una vita al cubo, all’ennesima potenza, mille vite in una da trascorrere insieme a voi, dividendo il tempo tra la casa e il palcoscenico, le tournée, i set cinematografici, e poi magari sarebbe andato tutto in un altro modo, se tu fossi rimasta qui, vicino a questo modesto attore innamorato di te, forse avresti avuto successo tu, forse avrei avuto successo io, chi può saperlo e in fondo cosa importa!, ma saremmo stati felici insieme, avremmo letto i nostri copioni al mare, mentre nostra figlia giocava felice tra l’acqua e il sole, avremmo recitato insieme, avremmo finto di odiarci in scena sfiorandoci la mano con amore in segreto, avremmo urlato, sudati, con gli occhi di fuori dalla rabbia, “ti odio, muori, sparisci, vattene via lontano, non voglio vederti più, barbaro, canaglia, vigliacco, possa la terra inghiottirti davanti ai miei occhi, vattene, sparisci…! Sparisci… Non voglio vederti più…”. O, in un testo contemporaneo: “Sei un pezzo di merda! Mi fai schifo!”. Sarebbe stato così bello poterlo dire in scena!, poterselo dire per finta, poterlo dire sapendo che non era vero, che non sarebbe successo mai!, e chele nostre mani si sarebbero sfiorate fingendo di torcersi, e invece è arrivata lei, la città dei furbi, la città che non si ferma perché ci ha sempre da fa’, ma quando sei diventata così fangosa, così strafottente e fracica, quando?, tanto fracica da correre addosso a tutti senza pietà, senza ricovero per nessuno, tanto fracica da non fermarti a soccorrere una donna incinta che stava attraversando la strada sulle strisce pedonali, eh?, una ragazza di venticinque anni con la pancia e il cuore pieni di vita?
Quando?
1.
Ogni giorno la stessa storia
E pure quella mattina era iniziata con gli strilli di Maria, come tutte le mattine.
Maria era il gallo di casa nostra. Vedevo la sua sagoma dietro la porta col vetro smerigliato, mentre si agitava passandosi la mano tra i capelli e alzava il mento al cielo a ogni strillo, proprio come il gallo, tale e quale, con la cresta e tutto.
“Antonio! Anto’!! Aràpe!!!”
“No! Aspetta, altri dieci minuti!”
“Apri, Anto’! Sono le nove!”
“Le nove? Già sono le nove? Ma io sono entrato in bagno che erano le otto e un quarto, comm’è che già so’ ’e nove?”
“E come deve essere, Anto’? Sì stato tre quarti d’ora ncopp’o cesso, come al solito! Ecco com’è! Ormai dietro tieni ’nu tatuaggio a forma di tarallo.”
“Eccola qua, la contessa. Buongiorno! Sei sempre la solita volgare, Mari’!”
“Vabbuò, so’ volgare, ma io devo andare a lavora re, io, forza! Che alle dieci devo stare a Casoria, e sto ancora col pigiama addosso! Voglio vedere quando te lo levi, il vizio di fare le tue riflessioni dentro al bagno! Oppure, se il freddo della ceramica ti aiuta così bene a mettere in moto quei quattro neuroni che te so’ rimaste azzeccati con una goccia e mezzo di saliva, fatte mettere ’na bella tazza nella tua stanza, sopra al balcone, così rifletti e pigli il sole allo stesso tempo, tu che non tieni niente da fare tutta la giornata, accussì diventi intelligente e abbronzato.”
Io non avrei avuto niente da fare, capito? Proprio io!
“E perché, che tieni da fare? Che faresti di mestiere, tu? L’attore? Come no! L’attore, teniamo l’attore in casa! Bravo! Applaudite, applaudite! Mobili, soprammobili, sbattete le ante! È arrivato Gassmàn! È arrivato Hoffmàn! Quartiere, riconosci la grandezza di Antonio Morra, facci una bella statua sopra al cavallo co ’na spada in mano! Anto’, tu una cosa buona hai fatto…”
“Sì, lo so… Raffaele di Casa Baselice…”
“Eh, Raffaele, bravo! Allora sì, che potevi dire che facevi l’attore, che uscivi per televisione e la gente ti riconosceva per strada e portavi i soldi a casa. Quello, è fare l’attore. E mò, eh, che fai? Certe sottospecie di commedie patetiche con una compagnia amatoriale di disgraziati peggio di te, che non so perché e come mai ti pagano pure uno stipendio, e ringraziamo sempre la Madonna con la faccia per terra!, uno stipendio per fare quelle commedie che so’ ’na cosa talmente triste che se mettesse a chiagnere pure mammà, quando le fate. Non piange solo perché non ti vuole mortificare. Altro che ‘ogni scarrafone è bello ’a mamma sua’, a voi vi schifa pure la mamma dello scarrafone!”
“Si dice scarafaggio, non scarrafone, tamarra.”
“O scarafaggio, o scarrafone, voi facìte schifo sia in italiano che in dialetto. E jesce ’a dint’o cesso! Ops, scusa: portatevi fuori dalla toilette, per cortesia!”
“Ma se tu non sei venuta mai, a vedere le nostre commedie! Che parli a fare?”Nostra madre sorrideva e annuiva, sulla sedia a dondolo, forse la scenata la facevamo pure un po’ per lei, davanti e dietro la porta a vetri.
E ne era pure convinta, povera Maria!
Era convinta che io non avessi niente da fare tutto il giorno! Tanto per lei ero un attore sfasolato, pigro, disinteressato e vecchio, nonostante i miei soli quasi cinquant’anni portati veramente molto bene, che passava la giornata a passeggio tra piazza Plebiscito, via Toledo e piazza Dante a guardare i culi e le cosce delle ragazze. Certo, come no! I culi e le cosce li guardavo, e che dovevo fare?, quella è una delle grazie che ci manda il Padreterno. Lei non lo poteva sapere, ma se io la mattina me ne andavo in bagno e ci rimanevo esattamente per un’ora, lo facevo perché quello era l’unico punto della casa in cui prendeva il telefonino.
Tra le otto e le nove di mattina io ricevevo il mio incarico, quando ci stava.
Il mio ingaggio, anzi, meglio usare questa parola:ingaggio. Zia Maggie mi mandava un messaggino su whatsapp e mi dava un appuntamento, generalmente su una panchina davanti al mare alla Villa Comunale, per spiegarmi modalità, persone coinvolte, storia e luoghi dell’azione.
Quella mattina, il messaggino diceva:
Funerale. Villa Comunale, solita panchina ore 10.00.
“Ecco qua, Mari’, il cesso è libero.”
“Esatto. Lo vedo. E adesso il cesso se ne va camminando per Napoli, mentre la sorella lavora tutta la giornata!”
2.
Doje pälle tänte
Il problema della mia povera sorella Maria era che lavorava a Ikea.
E quando la sera le chiedevi com’era andata, ma pure se non glielo chiedevi, rispondeva sempre così: “Doje pälle tänte”, con l’accento svedese. Io la capivo, la mia povera sorella Maria; quella aveva studiato architettura, si era laureata con 110 e lode, era appassionata di Frank O. Gehry e Aldo Rossi e si vedeva come la nuova Zaha Hadid: L’architetto Maria Morra inaugura la nuova spettacolare sede di Spalding & Bros a New York, L’architetto Maria Morra nel cantiere del grattacielo Zurich a Dubai, e L’architetto Morra su, l’architetto Morra giù, e L’architetto Morra qua, l’architetto Morra là.Aveva pure studiato in Irlanda, per un po’ di tempo, e si era fidanzata con uno che si chiamava ’O Leary, come quello di Ryanair, ma non era lui e non era neanche parente suo, però, che peccato. Poi era tornata a Napoli quando papà aveva cominciato a stare male. Lei se n’era occupata fino alla fine e poi non se l’era sentita di lasciare mamma da sola; così, quando era uscito il miracoloso posto di lavoro a tempo indeterminato, grazie a una conoscenza di papà che ci teneva assai ad aiutare la famiglia, si era ripetuta la solita vecchia storia delle ambizioni tarlate: da un giorno all’altro, mentre stava inaugurando un grattacielo a Dubai e un supernegozio a New York, s’era ritrovata a spiegare mille volte alla settimana come si monta il divano letto Ikea a una cliente di Frattamaggiore inorridita dall’esistenza della brugola.
“Ma il Padreterno nun teneva niente che fa’, che dopo lo scarrafone s’è messo a fare la brugola?”
In quel periodo io stavo a Roma, studiavo per fare l’attore, e le cose sembravano andare molto bene, per me. Lavoravo, guadagnavo, riuscivo pure a mandare un po’ di soldi a casa che, dopo la morte di papà, servivano parecchio. Ed ero fidanzato con Lea. E aspettavamo pure un figlio, anzi una figlia.
La vita era bellissima!
Ma questa è una frase orribile.
La bellezza della vita si può coniugare solo al presente, con una bella è con l’accento, colorata e squillante; sennò la vita si chiama rimpianto o recriminazione, quattro inutili spicci di cui sono gonfi i borsellini degli infelici.
All’improvviso, Lea non c’era più. Io continuai a lavorare ma diventai serio, pesante, noioso, non riuscivo più a divertirmi, sentivo che la mia allegria, quando c’era, si appoggiava su un fondo melmoso, scivoloso, ammuffito, che era l’amore per una donna perduta per sempre. Il fatto è che io e Lea non avevamo bisogno di dirci le cose, se non per ridere; perché quando aprivamo la bocca era sempre per dire che avevamo pensato lo stesso pensiero e pure nello stesso momento, e qualche volta addirittura per rispondere a tempo a domande ancora non pronunciate. L’intesa è una forma sublime d’amore, che si presenta senza preavviso, che emerge solo stando insieme e accorgendosi che il tempo è passato nella felicità, perché l’intesa è una felicità del vivere, significa capire dell’altro quello che non ha il coraggio di confessarti e sorridere dentro di te perché sai che non ti darebbe fastidio, quella confessione. L’unico problema dell’amare in questo modo è che il tempo dura troppo poco, pochissimo.
Gli anni di felicità, purtroppo, volano.
I miei cinque anni di felicità con Lea erano durati cinque giorni, o cinque minuti.
Se ne andò e, dopo alcuni anni lenti e tiepidi, arrivò Raffaele.
E pure se ormai stiamo parlando di quasi dieci anni fa, la gente si ricorda ancora di me per quel personaggio. La serie televisiva si chiamava Tutti a casa Baselice, e io facevo la parte di un portinaio, ma mica ero il protagonista, eh! No, macché! Un personaggio secondario, molto secondario. Ero il portiere del palazzo in cui succedevano tutti gli inciuci: questo si metteva con quella ma la tradiva con quell’altra, che era la sorella di quello che se la faceva con la moglie di quell’altro. E il mio personaggio sapeva sempre tutto, si faceva i fatti di tutti quanti e serviva a ricordare al pubblico chi aveva messo le corna a chi e con chi, visto che c’era un viavai amoroso da uscire pazzi. Una specie di registro dell’infedeltà condominiale. Fatto sta che ancora adesso mi fermano per strada e mi dicono Rafè, quando torni in televisione? Sì troppo simpatico! Che fine hai fatto? Non lo sanno che io sto ancora nella loro vita di tutti i giorni e che mi possono vedere recitare con la mia compagnia amatoriale o in altri mille posti. E a me, questo lavoro, mi piace assai.
“Ciao mammà, ci vediamo più tardi!”
“Torni a mangiare?”
“No, mammà, oggi no. Tu tieni la frittata di maccheroni già pronta. L’insalata sta nel frigorifero, te la devi solo condire, olio e limone!”
“E bravo, perché se non me lo dicevi tu me la mangiavo così, comm’a ’na pecora! Scusa, ma chi ti ha insegnato a fare le zeppole, a te? E la genovese? E la pasta e cuccuzzielle con l’uovo?”“Tu, mammà, tu.”
“E il tòrtano ’nzogna e pepe? E la scarola coi fagioli?”
“Tu, mammà!” rispondevo, pizzicandole le guance, così sorrideva. Lo facevo perché era bella, ma pure perché, visto che la dentiera ci era costata cara e amara, almeno la sfruttavamo, ce la guardavamo un poco.
“E la pasta al forno con le polpettine?”
“Tu! E senza polpettine?”
“Sempre io, te l’ho insegnato. Quindi mi raccomando a te, per la strada, statte accorto, invece di pensare all’insalata mia.”
“Mammà, ma io tengo quasi cinquant’anni!”
“E che significa? Ci sta un sacco di gente falsa, in giro.”
“Su questo tieni ragione, mammà! Un sacco di gente falsa.”
3
’O Mollusco
“Ci vuole un nome in codice,” mi aveva detto Zia Maggie, durante il nostro primo incontro. “Magari non è così necessario, ma è meglio se lo tenete. Poi oggi si porta assai, questa cosa dei soprannomi. Non vedete che non esce romanzo ambientato nella nostra città ai giorni d’oggi che non sia pieno di soprannomi? E noi siamo immersi nella realtà e nell’attualità, ricordatevi. Il vostro nome vero deve servire solo alla vostra famiglia, ai vostri amici e per i vostri documenti. Ma qualcosa di illegale capiterà; quindi il vostro nome meno gira, meglio è.”
“Zia Maggie, ma secondo voi dev’essere un nome eroico? Tipo un killer silenzioso? Che ne so, tipo Leòn? O un numero, tipo 007?”
“Se vi piace, va bene pure Leòn, Crow, Coccodrillo e tutti gli animali che volete voi. Però non rispecchia proprio quello che dovrete fare. Io penso che sia meglio un nome mellifluo, imprendibile. Proteo, nun ve piace?”
“Proteo? No… Me pare ’na medicina, no…”
“Sì, forse tenete ragione. Allora fatevi venire un’idea che vi rispecchi. Tanto serve solo a noi.”
Ci avevo pensato un po’, e alla fine avevo proposto il mio bellissimo, intenso, pugnace nome in codice: ’O Mollusco.
Io non ho mai avuto una gran personalità, pure per questo avevo deciso di fare l’attore, da ragazzo, per vedere se potevo pigliarmi le personalità che mi offrivano i personaggi della letteratura e del teatro, e usarle nella mia vita di tutti i giorni, tutti quegli eroismi, quelle passioni febbrili che io sentivo di non avere, o di avere proprio poco poco. Invece, paradossalmente, il personaggio che mi aveva dato un po’ di fortuna, quel Raffaele il portiere che mi aveva reso riconoscibile per strada, era proprio così: un essere anonimo, senza mezzo straccio di opinione personale, pronto a mettersi al servizio di chiunque potesse allungargli un po’ di soldi; informato, sì, sui fatti di tutti quanti, ma invisibile. Allora pensai che ’O Mollusco era veramente il nome da battaglia giusto per me. Perché avevo una personalità scivolosa, senza capo né coda, una personalità umida e vischiosa: la personalità pelosa di una cozza. Almeno, questo pensavo di me.
Mentre andavo verso l’incontro con Zia Maggie alla Villa Comunale, respirando l’aria fresca di una nuova primavera che refolava tra i vicoli e nelle maniche e si infilava maleducata nei colletti, ripensai a quella scelta. Si era dimostrata assolutamente perfetta. Facevo questo lavoro da due anni, ormai, e per il nostro gruppo di lavoro ero ’O Mollusco, o a volte pure The Wimp, in inglese, bellissimo!
Sta arrivando The Wimp, diceva Zia Maggie al cliente, oppure questo è un lavoro per The Wimp, proprio come nei film.
Finalmente ero davvero qualcuno, o qualcosa, proprio come nei film.
All’inizio eravamo in tre, fissi, alle dipendenze di Zia Maggie: c’erano pure Sandinista!, così, col punto esclamativo, e Contromano.
Sandinista! aveva cinquantacinque anni portati veramente una chiavica; molto alto, col codino bianco e la voce così rauca che un fiammifero avrebbe preso fuoco sentendolo parlare, simpaticissimo. Si occupava della generazione dei sessantenni. Aveva scelto quel nome perché all’album dei Clash erano legati tutti i suoi ricordi più belli, soprattutto che non era andato a fare il militare perché c’era stato il terremoto, e così l’aveva messo in culo al sistema. A Sandinista! non gliene fotteva niente di fare l’artista, lui diceva che questo lavoro lo faceva perché era la sua rivoluzione antiborghese, perché voleva inquinare con l’arte la vita della gente, si definiva situazionista nostalgico alcolico intransigente. Ma manco a farlo apposta l’acronimo della sua definizione era SNAI, cioè il posto di scommesse in cui si giocava tutto quello che guadagnava.
Secondo me era soprattutto alcolico, ecco, diciamola tutta.
Invece Contromano era una trentacinquenne che di mestiere voleva fare l’attrice vera, quest’altro lavoro le serviva solo per arrotondare. Sognava una vita speciale, diversa da quell’asfissiante monotonia travestita da benessere che vivevano i suoi genitori, seduti con “La Settimana Enigmistica” sul divano di finta pelle beige.
Piano piano, Controma’, piano piano, facci stare quieti…, diceva Sandinista!
Sandini’, famme fa’, lasciami libera, io so’ ’na puledra!, rispondeva irritata Contromano.
Ma questo era solo all’inizio. Poi a Sandinista! era venuta una cirrosi epatica e si era ritirato, e Contromano pure si era licenziata da un giorno all’altro, perché finalmente le avevano assegnato una parte importante in uno spettacolo. Piccola piccola, ma importante importante. Collaboravano ancora con noi, ma solo ogni tanto.
Vabbuò, poi licenziata per modo di dire. Non è che ci potevano versare i contributi o che potevamo pagare le tasse, per il nostro lavoro. Cioè, dico, pur volendo, non si poteva proprio fare. Non potevamo essere inquadrati in nessun modo, perché non dovevamo essere niente. E forse per questo ’O Mollusco era diventato il più bravo di tutti.
Prima di arrivare alla Villa Comunale mi fermai a bere il solito caffè al Barettino di via Chiaia. Ogni giorno, che ci fosse o no un caso da affrontare, per prima cosa io mi incamminavo verso il mio piccolo bar. È che, dal punto in cui abito, quel bar non è così vicino, anzi, arrivarci è ’na bella sfacchinata. Però quello era il mio bar, lì facevano il mio caffè e me lo serviva la mia barista. In una stanzetta stretta e lunga, ’nu mastrillo, un banco bianco divideva il regno dei vivi da quello dei morti: nell’aldiquà, tutte le anime in pena nel purgatorio dell’esistenza; dall’altra parte, Beatrice, una barista di circa venticinque anni, un’eterea danzatrice, una dea Kali della macchina da caffè, con l’abilità di girarsi frusciando in quello spazietto piccolo piccolo con le mani ingombre di tazzine roventi di caffè saporiti, profumati, capaci di rimettere le povere animelle pezzenti nel fiume turbinoso della vita, ma stavolta con un sorriso sulla faccia. Pure mio padre sapeva girarsi dietro a un bancone con tre o quattro tazzine in mano senza sbattere da nessuna parte, una specie di Nureyev col mantesino bianco. Pure papà rimetteva in sesto una persona in tre mosse: un sorriso, un bicchiere d’acqua e un caffè.
Sì, io in quel bar ci andavo solo per Beatrice, questa è la verità. Avevo soltanto bisogno di vederla, almeno per un momento, tutti i giorni.
“Buongiorno Zia Maggie.”
“Buongiorno Mollusco. Come state?”
“Bene, e voi?”
“Bene, grazie. Vi volevo dire che mi ha telefonato il dottor Martucci, è stato molto contento del lavoro. Siete stato estremamente professionale.”
“Hanno chiuso il contratto?”
“Sì. A condizioni molto vantaggiose, grazie a voi.”
“Bene.”
“Domani invece abbiamo un funerale, come vi ho scritto, a Materdei.”
E mi passò la solita busta chiusa.
Dentro ci trovo: indicazioni generali, tratti peculiari, elementi organizzativi e un po’ di fondo cassa. Quello che facciamo, con la nostra compagnia, non è illegale, o forse sì, non lo sappiamo ancora. A volte sembra immorale, ma io non ne sono così convinto. In ogni caso, Zia Maggie preferisce che ci incontriamo alla Villa Comunale, per parlarne di persona e non al telefono. Oppure, nei giorni di pioggia, nel suo bellissimo appartamento sopra alla Galleria Umberto I.
L’autore.
Enrico Ianniello (Caserta, 1970) è un attore, regista e traduttore dal catalano. Ha lavorato a lungo nella compagnia di Toni Servillo e ha tradotto opere di Pau Mirò, Jordi Galceran e Sergi Belbel. Al cinema ha lavorato con Nanni Moretti (in Habemus Papam, 2011, e in Mia madre, 2015), in tv è il commissario Nappi della serie Un passo da cielo. Il romanzo d’esordio, La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin (Feltrinelli, 2015), ha vinto il Premio Campiello Opera prima 2015 e diversi altri riconoscimenti. Per Feltrinelli ha pubblicato nella collana digitale Zoom Flash Appocundria(2016), e il romanzo La Compagnia delle Illusioni (2019).
- La compagnia delle illusioni
- Enrico Ianniello
- Editore: Feltrinelli
- Collana: I narratori
- Anno edizione: 2019
- In commercio dal: 10 gennaio 2019
- Pagine: 272 p., Brossura