Commercio e conquista nel cuore dell’Impero britannico

 

LA COMPAGNIA DELLE INDIE – BILANCI DI SANGUE (PARTE I)

Un saggio narrativo sull’impero aziendale che conquistò l’India e drogò la Cina

Redazione Inchiostronero

La Compagnia britannica delle Indie Orientali non fu una semplice impresa commerciale: fu una delle macchine di dominio più spietate e raffinate della storia moderna. Fondata nel 1600 per gestire i traffici mercantili tra Londra e l’Oriente, si trasformò rapidamente in una potenza privata con eserciti, flotte, ambasciatori e prigioni, capace di amministrare vasti territori, influenzare le corti asiatiche e dirigere la politica estera britannica senza doverne rendere conto a un governo o a un popolo. Nel corso di due secoli, la Compagnia orchestrò guerre, instaurò regimi fantoccio, depredò risorse naturali e provocò carestie devastanti — il tutto nel nome del profitto. Fu l’archetipo dell’imperialismo aziendale, ben prima che esistessero le multinazionali moderne. Il suo modello — un intreccio di armi, bilanci, diplomazia e corruzione — divenne lo standard operativo del colonialismo globale.Questo saggio ripercorre la parabola storica della Compagnia: dalle sue origini commerciali alla trasformazione in impero privato, fino al tracollo morale rappresentato dalla Rivolta dei Sepoy. Un’indagine lucida sul cinismo sistemico che ne guidò l’azione, sulle devastazioni che lasciò dietro di sé, e su un’eredità inquietante che ancora oggi plasma le logiche geopolitiche dell’Occidente — spesso mascherata da cooperazione, investimenti o sviluppo economico.


La guerra sotto copertura

“La Compagnia non combatteva guerre. Le investiva.”
— William Dalrymple

Non esiste al mondo esempio più limpido — e al tempo stesso più inquietante — di come il commercio possa travestirsi da civiltà, e la conquista da contabilità. La parabola della Compagnia britannica delle Indie Orientali è la storia di un’impresa che nacque tra le pergamene dei mercanti londinesi e finì col dettare legge su milioni di sudditi, senza mai essere eletta né consacrata.

Fondata nel 1600, in un’epoca in cui la globalizzazione era ancora un sogno cartografico, la Compagnia ricevette dalla Corona inglese una licenza per commerciare con l’Oriente. Ma non ci volle molto perché la sete di profitto si mutasse in ambizione imperiale, e i libri contabili si affiancassero ai fucili. Quel che iniziò come cooperazione divenne coercizione; e dove non arrivava la diplomazia, parlavano le cannoniere.

Né Stato né azienda, ma qualcosa di più pericoloso di entrambi: una macchina ibrida, capace di usare le logiche del mercato per giustificare l’occupazione, e quelle della guerra per proteggere i dividendi degli azionisti. La Compagnia gestiva bilanci miliardari, ma anche eserciti privati più grandi di quelli di molte monarchie europee. Governava territori vasti quanto un impero, ma con la mentalità spietata di un consiglio d’amministrazione.

Colonialismo in outsourcing, si potrebbe dire oggi. Ma sarebbe riduttivo. Perché la Compagnia non fu solo uno strumento della politica britannica: fu spesso la sua ispiratrice, il suo laboratorio, il suo braccio armato invisibile. Quando l’Impero britannico raggiunse l’apice nel XIX secolo, lo fece seguendo un copione già scritto dalla Compagnia: quello dell’appropriazione sistemica delle ricchezze altrui sotto la copertura della civiltà, del commercio e del diritto.

E oggi? Oggi è più facile parlare di “imperialismo economico” che di colonie. Più elegante, più compatibile con il lessico diplomatico. Ma la genealogia di quel modello è chiara. E comincia proprio qui: con una compagnia che non si accontentava di vendere tè, ma pretendeva anche di stabilire chi dovesse versarlo.

Origini della Compagnia – I semi dell’Impero

Elisabetta I con l’ermellino, olio su tela attribuito a William Segar, 1585

Nel dicembre del 1600, Elisabetta I firmò la Royal Charter che sanciva la nascita della Honourable East India Company, una società per azioni composta da 218 mercanti londinesi. La concessione era chiara: monopolio esclusivo per quindici anni sul commercio inglese a oriente del Capo di Buona Speranza. All’inizio, la Compagnia si presentava come una missione economica: importare spezie, tè, cotone e seta, in cambio di metalli preziosi, con profitto sia per la nazione che per i privati.

Ma dietro la patina di legittimità mercantile, già si intravedevano i germi di un altro progetto. La Compagnia ottenne il diritto di firmare trattati, detenere beni, addestrare milizie e costruire fortificazioni. In altre parole, una sovranità parallela, autorizzata dalla Corona ma non controllata da essa.

“Il potere segue il denaro, e la Compagnia imparò presto a dettare legge, non solo a pagare dazio.”
— John Keay

Nei decenni successivi, mentre l’Inghilterra si trasformava in una potenza marittima, la Compagnia estese le sue operazioni lungo le coste dell’India, dell’Indonesia e della Persia. Le sue factory forts — insediamenti commerciali fortificati — nacquero a Surat, Madras, Bombay e Calcutta, spesso grazie a concessioni ottenute da sovrani locali sotto pressione, con la promessa (mai mantenuta) di relazioni pacifiche e mutuo vantaggio.

Ma quel commercio, per prosperare, aveva bisogno di esclusività e protezione. E in un’Asia già competitiva, affollata da portoghesi, olandesi, francesi, moghul e maratti, la Compagnia imparò rapidamente che non bastava vendere: bisognava dominare.

Ogni trattato conteneva una trappola, ogni alleanza un’intenzione nascosta. E quando i commercianti britannici non ottenevano ciò che volevano, la flotta si trasformava in flotta da guerra, e i cannoni entravano in scena. Il commercio era la scusa. Il controllo, il vero obiettivo.

In questo primo secolo, la Compagnia si comportò come un predatore paziente: osservava, tessendo reti di influenza politica, approfittando delle fragilità dei regni indiani e della miopia delle élite locali. Più che una conquista in stile europeo, fu una penetrazione strisciante, basata su prestiti, concessioni, protezioni armate e piccole guerre dimenticate. Un impero nascente, senza troni né corone, ma con bilanci, cannoni e contabili.

Strategie di espansione – Corruzione, trattati, cannoni

A metà del Settecento, la Compagnia britannica delle Indie Orientali aveva ormai abbandonato ogni illusione di neutralità commerciale. Non era più una semplice entità economica in cerca di guadagni: era diventata un potere territoriale, con truppe, fortezze, tribunali e un piano preciso per conquistare il cuore del subcontinente indiano.

Eppure, ciò che rende la sua espansione così disturbante è il metodo. La Compagnia non si impose con invasioni dirette e dichiarazioni di guerra ufficiali, ma con una raffinata combinazione di corruzione, diplomazia fraudolenta e violenza selettiva. Una forma di imperialismo chirurgico, silenzioso, travestito da interesse commerciale.

“Plassey fu meno una battaglia e più un’asta truccata. Il miglior offerente, alla fine, era bianco.”
— Pankaj Mishra

Battaglia di Plassey. Parte della guerra dei sette anni Il generale Clive.

Il caso più emblematico fu la battaglia di Plassey, nel 1757. Apparentemente un confronto militare tra la Compagnia e il Nawab del Bengala, Siraj-ud-Daulah. In realtà, una messinscena orchestrata da Robert Clive, che aveva già corrotto segretamente il comandante in capo dell’esercito nemico, Mir Jafar. Quando lo scontro iniziò, una parte delle truppe bengalesi non mosse un dito. Il risultato fu una vittoria schiacciante, con la quale la Compagnia ottenne il controllo del Bengala — una delle regioni più ricche del mondo — e nominò Mir Jafar suo fantoccio sul trono.

Quella vittoria aprì le porte a un nuovo modello operativo: instaurare regimi dipendenti, controllare l’economia locale e drenare le risorse attraverso trattati truccati. Le cosiddette subsidiary alliances, imposte a molti regni indiani, obbligavano i governanti a mantenere truppe britanniche a proprie spese, rinunciando a ogni politica estera autonoma. Era come essere colonizzati senza bisogno di una bandiera ufficiale.

La corruzione sistemica era il vero carburante della macchina imperiale. I funzionari della Compagnia, spesso giovani aristocratici in cerca di fortuna, ricevevano tangenti, gestivano traffici personali e accumulavano fortune in pochi anni — da riportare in patria sotto forma di palazzi, rendite e titoli nobiliari. Si parlò di “nabobismo”, dal termine “nawab”, per indicare i nuovi ricchi dell’impero, spesso più avidi e arroganti dei monarchi orientali che sostituivano.

Ma quando la corruzione non bastava, si passava alle provocazioni armate. Ogni violazione contrattuale da parte degli indiani era un pretesto per l’intervento militare. Ogni scontro, un’occasione per annettere nuovi territori. Così, passo dopo passo, la Compagnia si impadronì di gran parte dell’India centrale e settentrionale, lasciando solo un’illusione di sovranità ai regni locali.

“Non serviva conquistare tutta l’India. Bastava controllare le sue chiavi.”
— William Dalrymple

In pochi decenni, un’organizzazione nata per commerciare tè e spezie si ritrovò a governare centinaia di milioni di persone. Non per ordine del Parlamento, ma per diritto di profitto.

Il volto nascosto dell’Impero – Oppio, carestie, sfruttamento

L’Impero della Compagnia delle Indie non si fondava solo su trattati e battaglie: il suo vero motore era la capacità di trasformare la miseria in valore, di convertire territori interi in centri estrattivi per il mercato britannico. Per sostenere le proprie strutture militari, amministrative e commerciali, la Compagnia impose un sistema economico che stritolava le popolazioni locali in nome della produttività e del profitto.

Tra le sue operazioni più spregiudicate, spicca la strategia dell’oppio. Per bilanciare il deficit commerciale con la Cina — principale acquirente di tè, ma riluttante a importare beni europei — la Compagnia iniziò a coltivare oppio su larga scala nelle pianure del Bihar e del Bengala. La droga veniva poi contrabbandata in Cina, dove provocò milioni di casi di dipendenza. Quando l’impero Qing cercò di vietarne l’importazione, la risposta britannica fu brutale: due Guerre dell’Oppio (1839–42 e 1856–60) concluse con l’imposizione di trattati umilianti e l’apertura forzata dei porti cinesi.

“La guerra non fu combattuta per l’oppio. Fu combattuta per difendere il diritto a vendere l’oppio.”
— Thomas Pakenham

Ma l’India stessa fu la prima a subire gli effetti devastanti di questa logica estrattiva. Le coltivazioni forzate di indaco, cotone, papavero e altri beni destinati all’esportazione portarono a carestie ricorrenti, perché sottrassero spazio e risorse ai raccolti alimentari locali. La carestia del Bengala del 1770 fu una delle più tragiche: tra i 7 e i 10 milioni di morti, mentre i funzionari della Compagnia continuavano a esigere le tasse — anche su villaggi spopolati.

“Non fu una carestia. Fu un calcolo.”
— Amartya Sen

Le condizioni sociali peggiorarono di pari passo. Gli artigiani tessili indiani — un tempo celebri per la qualità dei loro manufatti — vennero messi fuori mercato dalle merci industriali britanniche. In alcuni casi, le autorità della Compagnia mutilarono fisicamente i tessitori per impedire loro di competere. Interi distretti vennero convertiti in serbatoi di manodopera a basso costo, alimentando forme di schiavitù contrattuale che rientravano nelle leggi della Compagnia ma non in alcuna etica.

La popolazione indiana non era più considerata un insieme di cittadini o sudditi, ma una variabile economica: produttori, consumatori, debitori, servi. La logica imperiale non ammetteva redenzione, solo rendimento.

Riccardo Alberto Quattrini

 

 

 

 

Verso Oriente

Ma l’Impero della Compagnia non si fermò sulle rive del Gange. Guardò oltre. Vide un altro impero millenario — chiuso, fiero, e ricco. E decise che, se non poteva comprarlo, lo avrebbe drogato. 👉 Continua nella Parte II: Guerre dell’Oppio, rivolta e fine

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