Dopo aver saccheggiato l’India, la Compagnia rivolse lo sguardo alla Cina. E scoprì che il profitto poteva passare anche dalla dipendenza.

LA COMPAGNIA DELLE INDIE – BILANCI DI SANGUE (PARTE II)

Guerre dell’Oppio, rivolta e fine

Redazione Inchiostronero

Nel primo atto di questa storia abbiamo seguito l’ascesa della Compagnia delle Indie: da consorzio commerciale a potenza imperiale, da mercante a sovrano. L’India fu il suo primo laboratorio di dominio: trattati capestro, carestie pianificate, guerre truccate. Ma l’ambizione della Compagnia non si fermò tra i fiumi del Gange e le rovine di Delhi. Ora la scena si sposta più a oriente, in una civiltà millenaria che aveva sempre guardato l’Occidente con distacco: la Cina. Lì, l’Impero britannico non impose solo tasse o leggi straniere, ma qualcosa di più subdolo: una dipendenza farmacologica di massa, confezionata in casse di oppio e protetta da cannoniere.Seguiranno le Guerre dell’Oppio, il saccheggio del Palazzo d’Estate, la resa dell’Impero Qing… E infine la rivolta dei Sepoy, ultima esplosione di rabbia coloniale, che porterà alla caduta della Compagnia, ma non del sistema che essa ha costruito.


  • Perché quando un’azienda fa la guerra,
  • e una nazione vende droga per legge,
  • il disonore non si dimentica.
  • E il passato non finisce: cambia solo pelle.

Contenuti Parte II:

  1. Le Guerre dell’Oppio
  2. Box Lin Zexu + biografia
  3. Il fallimento morale – La rivolta dei Sepoy
  4. Protagonisti dell’Impero
  5. Eredità storica

Le Guerre dell’Oppio – Quando il profitto drogò la Cina

Guerra dell’oppio

Dunque vi chiedo: dov’è la vostra coscienza?”
Lin Zexu, 1839

Lin Zexu (1785–1850) fu un alto funzionario dell’Impero Qing, noto per la sua integrità e la lotta contro il traffico di oppio.
Nel 1839 distrusse tonnellate di droga britannica a Canton, diventando simbolo della resistenza morale cinese contro l’imperialismo.

“La guerra non fu per l’oppio. Fu per il diritto di venderlo.”
— Thomas Pakenham

Mentre la Compagnia imponeva carestie e trattati capestro in India, estendeva la propria ombra anche sulla Cina. Lì, il problema era semplice (e inquietante): l’Impero Qing aveva tutto ciò che gli inglesi volevano — tè, seta, porcellane — ma non desiderava nulla in cambio. Il commercio era sbilanciato. L’Inghilterra perdeva argento. La Compagnia cercava una soluzione. E la trovò: vendere droga.

L’oppio, coltivato nei campi indiani sotto controllo britannico, venne contrabbandato sistematicamente in Cina. Milioni di cinesi divennero dipendenti. Quando il funzionario Lin Zexu cercò di fermare il traffico, confiscando e distruggendo il carico britannico a Canton, Londra rispose con le armi.

La Prima Guerra dell’Oppio (1839–1842) si concluse con la sconfitta cinese e il Trattato di Nanchino, che sancì la cessione di Hong Kong, l’apertura di cinque porti al commercio e un’indennità enorme da pagare alla Gran Bretagna. Era il primo dei cosiddetti “trattati ineguali”.

La Seconda Guerra dell’Oppio (1856–1860) fu ancora più brutale. I britannici, insieme ai francesi, saccheggiarono Pechino e incendiarono il Palazzo d’Estate. La Cina fu costretta a legalizzare l’oppio, aprire altri porti e accettare la penetrazione culturale, religiosa e militare europea.

Queste guerre non solo devastarono l’Impero Qing. Gettarono le basi per un secolo di umiliazione che i cinesi non hanno dimenticato. Ancora oggi, il ricordo dell’oppio alimenta diffidenza, orgoglio ferito e nazionalismo.

La Compagnia, formalmente, non governava la Cina. Ma è innegabile che fu lei ad aprire le porte — con la droga, e con i cannoni.

Robert Clive – L’architetto dell’Impero-azienda

Robert Clive, I barone Clive. Ritratto eseguito da Nathaniel Dance. Sullo sfondo è visibile la Battaglia di Plassey uno dei suoi più grandi trionfi militari in India.

Per comprendere il volto della Compagnia, basta osservare il volto di Robert Clive: non un aristocratico né un diplomatico, ma un contabile fallito che divenne governatore militare. Salpò per l’India come impiegato e tornò a Londra come barone, milionario, e controverso fondatore dell’impero britannico in Asia.

Clive non era né raffinato né stratega. Era, soprattutto, spietato e fortunato. Dopo aver prestato servizio come soldato durante la presa di Arcot (1751), si guadagnò fama e promozioni. Ma fu a Plassey (1757) che costruì la sua leggenda: la corruzione di Mir Jafar, il tradimento orchestrato dietro le quinte e la vittoria militare trasformarono la Compagnia da attore commerciale a potenza territoriale.

“Clive non conquistò l’India. Comprò il suo biglietto d’ingresso.”

Tornato in patria, fu accolto come eroe. Ma le sue fortune sollevarono scandalo: accumulò ricchezze enormi in pochi anni, fu accusato di saccheggio e appropriazione indebita, difese il suo operato davanti al Parlamento con una frase rimasta celebre:

“Considerando le opportunità, mi meraviglio della mia moderazione.”

La sua storia incarna l’etica della Compagnia: pragmatismo mascherato da missione, brutalità giustificata dal successo economico. Clive morì nel 1774, in circostanze ambigue, forse suicida. La sua eredità sopravvive, però, in ogni pagina dei registri coloniali: non fu un imperatore, ma lasciò un impero.

Il fallimento morale – La rivolta dei Sepoy

Moti indiani del 1857 parte del processo di indipendenza dell’India 10 maggio 1857–8 luglio 1858

Nel 1857, dopo oltre due secoli di crescita spietata, la Compagnia delle Indie si trovò di fronte a un incendio che non poteva spegnere con l’oro né con la burocrazia: una sollevazione armata, improvvisa ma inevitabile, che esplose tra i ranghi stessi del suo esercito. La Rivolta dei Sepoy — come la chiamarono i britannici — fu molto più di un ammutinamento militare: fu la vendetta dei colonizzati, l’eruzione del risentimento represso, la prova finale del fallimento morale dell’intero progetto coloniale privato.

I sepoy, soldati indiani reclutati dalla Compagnia per combattere guerre in patria e all’estero, avevano servito per anni un padrone distante, spesso contro la propria gente. Pagati poco, trattati con sufficienza, obbligati a rinunciare a identità religiose e culturali, si trovarono infine provocati da una scintilla simbolica: l’introduzione di nuove cartucce per i fucili Enfield, che secondo le voci dovevano essere ingrassate con grasso di mucca e di maiale — un affronto sia per i soldati indù che per quelli musulmani.

Ma la questione religiosa fu solo la miccia. Le cause erano ben più profonde:

  • Le interferenze culturali, come la proibizione delle pratiche locali e il tentativo di cristianizzazione forzata.

  • La spoliazione dei nobili indiani, espropriati di terre e titoli.

  • Le condizioni economiche disperate di molte comunità rurali, devastate da carestie e imposizioni fiscali.

  • Il crescente sentimento che la Compagnia non era più un’impresa straniera, ma una prigione nazionale.

Nel maggio del 1857, a Meerut, un gruppo di sepoy si rifiutò di usare le cartucce incriminate. Furono arrestati e puniti. La notte seguente, i loro compagni si ribellarono, uccisero i superiori britannici e marciarono su Delhi, proclamando il ritorno dell’Impero Mughal sotto Bahadur Shah II. In poco tempo, l’intera India del nord fu in fermento: contadini, principi, ex funzionari e civili si unirono alla rivolta.

La risposta britannica fu terribile. La repressione fu condotta con ferocia sistematica: intere città rase al suolo, civili impiccati, sospetti giustiziati senza processo. Le testimonianze dell’epoca parlano di villaggi bruciati, donne violentate, prigionieri legati ai cannoni ed esplosi come monito.

“Quella non fu una rivolta. Fu una guerra civile coloniale.”
— Christopher Bayly

Il bilancio fu devastante. Migliaia di ribelli furono uccisi. Ma anche la Compagnia uscì moralmente e politicamente distrutta. L’opinione pubblica britannica, fino a quel momento relativamente indifferente, fu scossa dalle dimensioni del conflitto e dalle atrocità commesse da entrambe le parti. Il Parlamento intervenne.

Nel 1858, un anno dopo la fine ufficiale della ribellione, la Compagnia fu sciolta per legge. L’amministrazione dei territori indiani passò direttamente alla Corona britannica, che istituì il British Raj, formalizzando il dominio coloniale ma eliminando l’ambiguità aziendale.

La fine della Compagnia segnò l’inizio di un nuovo capitolo: l’impero sotto bandiera ufficiale, più visibile, ma non necessariamente meno violento. Il sogno (o l’incubo) dell’espansione tramite profitto privato aveva mostrato il suo limite: quando il capitale ignora la dignità umana, prima o poi trova un popolo disposto a morire per ricordarglielo.

Eredità storica – L’azienda che inventò l’Impero

Quando nel 1858 la Compagnia britannica delle Indie Orientali venne ufficialmente sciolta, non finì soltanto un’era aziendale: iniziò un modello, un paradigma che avrebbe segnato l’intero sviluppo del potere occidentale nei secoli a venire. Nonostante la sua dissoluzione, la Compagnia lasciò un’eredità più potente delle sue armate o delle sue rotte commerciali: un’idea di dominio fondata non sulla conquista esplicita, ma sull’amministrazione profittevole del mondo.

Perché ciò che la Compagnia perfezionò fu la logica dell’impero privatizzato. Le sue tecniche di controllo – alleanze strategiche, sfruttamento fiscale, manipolazione commerciale, guerre “preventive” – sarebbero diventate l’ossatura del colonialismo britannico ufficiale per oltre un secolo. E, con il tempo, sarebbero state adottate anche da altre potenze: la Francia in Algeria, il Belgio in Congo, gli Stati Uniti nelle Filippine e oltre.

“L’invenzione più duratura della Compagnia non fu un prodotto, ma un metodo.”
— William Dalrymple

E quel metodo ha continuato a mutare forma. Oggi, in un mondo formalmente decolonizzato, molti osservatori riconoscono nella multinazionale moderna un’erede diretta di quella Compagnia: entità economiche che influenzano la geopolitica, negoziano con stati sovrani, destabilizzano economie locali, detengono eserciti di sicurezza privata, spostano capitali più velocemente di quanto uno stato possa legiferare.

  • Le privatizzazioni delle risorse nei paesi in via di sviluppo.

  • I contratti capestro imposti da istituzioni internazionali.

  • L’uso della forza militare a protezione degli interessi economici in Africa, Medio Oriente, America Latina.

Queste sono, in filigrana, varianti moderne dell’algoritmo coloniale scritto dalla Compagnia.

Anche culturalmente, la Compagnia ha lasciato un segno profondo. Il suo linguaggio – “civilizzazione”, “progresso”, “ordine” – sopravvive oggi nei discorsi sullo sviluppo, sull’aiuto internazionale, sulla democrazia “esportata”. Ma sotto la superficie, il meccanismo resta simile: il controllo passa attraverso il debito, la dipendenza economica, l’egemonia tecnologica.

“La Compagnia delle Indie ha smesso di esistere. Ma il suo spirito siede oggi nei consigli di amministrazione, nei think tank e nei ministeri degli esteri.”
— Shashi Tharoor

Comprendere la storia della Compagnia non è un esercizio archeologico, ma un atto di consapevolezza politica. Significa riconoscere i fili invisibili che collegano le piantagioni di oppio del Bihar alle speculazioni odierne sul cobalto africano. Significa ammettere che la globalizzazione non è un orizzonte neutro, ma un’eredità imperiale mascherata da innovazione.

Riepilogo – Cinque lezioni dalla Compagnia delle Indie

La storia non è un museo. È uno specchio.
Ecco cosa ci mostra, oggi, l’eredità della Compagnia:

🧭 1. Il commercio può diventare conquista
Dietro le carovane e i registri contabili si nascondeva un progetto imperiale. La Compagnia fu azienda e stato, insieme.

💰 2. Il profitto giustifica ogni mezzo
Corruzione, guerre truccate, carestie: ogni strumento era lecito se aumentava il bilancio degli azionisti.

🗡 3. La violenza può essere privatizzata
Con un esercito privato più grande di molti stati europei, la Compagnia rese la guerra un investimento.

📉 4. I popoli colonizzati diventano numeri
Fame, migrazioni forzate, distruzione culturale: le società tradizionali furono ridotte a variabili economiche.

🌍 5. L’eredità è viva
Multinazionali, trattati opachi, zone economiche speciali: il “nuovo imperialismo” ripete schemi antichi, con nuovi nomi.

Riccardo Alberto Quattrini

 

 

 

Invito alla Parte III

E quando anche la guerra finì, restarono i volti.
I generali, i governatori, gli imperatori in rovina.

Chi decise. Chi obbedì. Chi resistette.

👉 Scopri i protagonisti, le memorie e le lezioni nella Parte III – Volti dell’Impero

Le fonti che hanno sostenuto questo viaggio storico sono raccolte in fondo alla Parte III, insieme alle riflessioni conclusive e al riepilogo delle cinque lezioni lasciate dalla Compagnia delle Indie.

 

 

 

 

 

 

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