”Avete mai letto storie sui viaggi nel tempo? Io ne ho lette diverse ma devo ammettere che questa storia mi ha colpita profondamente.
Il compito degli storici del Saint Mary, infatti, non è quello classico degli studiosi: hanno la possibilità di viaggiare nel tempo per documentare gli eventi nel momento stesso in cui si stanno verificando.
La confraternita degli storici curiosi è il primo volume di una serie incentrata sui viaggi nel tempo che trasporta il lettore da un posto all’altro, da un evento all’altro, facendogli vivere avventure entusiasmanti sulle montagne russe. Conosciamo Madeleine, una storica che su invito della sua ex insegnante fa domanda per un lavoro presso l’Istituto di ricerche storiche Saint Mary, una sezione riservata dell’Università di Thirsk. Non è chiaro quale sarà esattamente il suo lavoro, ma decide di rischiare scoprendo presto che farà parte di una squadra di storici che viaggiano nel tempo per sperimentare e indagare in prima persona su importanti eventi storici del passato. Il suo obiettivo sarà quello di osservare, documentare e cercare delle risposte a molte domande senza risposta della Storia, cercando di non morire durante il processo e di non avere un qualsiasi attaccamento emotivo dal momento che, dopotutto, provengono dal futuro e la storia deve seguire la sua corretta sequenza temporale, senza deviazioni diverse. È un lavoro pericoloso in quanto la storia resiste a qualsiasi tentativo deliberato o involontario di cambiare gli eventi.
Madeleine, il dottor Bairstow, il capo Leon Farrell e tanti altri personaggi ci faranno vivere un’avventura bellissima insieme al loro equipaggio. Gran parte della storia è narrata in prima persona dal punto di vista di Madeleine così da seguire la sua formazione, le amicizie, la sua impazienza e la sua propensione al disastro. L’autrice ci permette di conoscere i principali personaggi attraverso le loro azioni e battute, piuttosto che attraverso lunghe descrizioni. La trama si concentra principalmente sull’azione piuttosto che sulla profondità; infatti, vediamo come gli eventi di susseguono senza fornire molte informazioni, evitando così questo aspetto che avrebbe potuto beneficiare di maggiori dettagli, come ad esempio dell’infanzia traumatica del personaggio principale. Il ritmo è abbastanza veloce e si intreccia con l’umorismo dei personaggi, l’azione, l’amicizia, il romanticismo e una buona tazza di tè, senza far cadere la serietà negli aspetti della Storia e dei viaggi nel tempo. La storia d’amore è abbastanza reale e complessa, senza drammi o scossoni. Insomma, questo è un ottimo inizio di serie. Non vedo l’ora di leggere i seguiti.
Ho apprezzato moltissimo il lavoro di documentazione di Jodi Taylor che ha fatto sembrare ogni salto indietro incredibilmente reale e vivido.
“La confraternita degli storici curiosi” è sicuramente un romanzo piacevole e scorrevole, merito della penna assolutamente godibile di Jodi Taylor, ma alcuni momenti non mi hanno convinta del tutto. Chi lo sa, magari è stato anche un modo per tenere alta la tensione in vista di un eventuale, prossimo romanzo…
La trama del romanzo
Gli storici del Saint Mary non si limitano a studiare il passato: lo vivono!
Dietro la facciata apparentemente innocua dell’Istituto di ricerche storiche Saint Mary, si nasconde ben altro genere di lavoro accademico. Guai, però, a parlare di «viaggio nel tempo»: gli storici che lo compiono preferiscono dire che «studiano i maggiori accadimenti nell’epoca in cui sono avvenuti». E, quanto a loro, non pensate che siano solo dei tipi un po’ eccentrici: a ben vedere, se li si osserva mentre rimbalzano da un’epoca all’altra, li si potrebbe considerare involontarie calamite-attira-disastri. La prima cosa che imparerete sul lavoro che si svolge al Saint Mary è che al minimo passo falso la Storia vi si rivolterà contro, a volte in modo assai sgradevole. Con una vena di irresistibile ironia, la giovane e intraprendente storica Madeleine Maxwell racconta le caotiche avventure del Saint Mary e dei suoi protagonisti: il direttore Bairstow, il capo Leon Farrell, Markham e tanti altri ancora, che viaggiano nel tempo, salvano il Saint Mary (spesso – anzi sempre – per il rotto della cuffia) e affrontano una banda di pericolosi terroristi della Storia, il tutto senza trascurare mai l’ora del tè. Dalla Londra dell’Undicesimo secolo alla Prima guerra mondiale, dal Cretaceo alla distruzione della Biblioteca di Alessandria, una cosa è certa: ovunque vadano quelli del Saint Mary, scoppierà il finimondo.
Come inizia
Mi sono inventata tutto. Storici e fisici,
vi prego, non sputatemi addosso per strada.
Jodi Taylor
La storia è solo una dannata cosa dopo l’altra.
Arnold Toynbee
Personaggi
Il Boss
Edward Bairstow, direttore del Saint Mary.
Sulla cinquantina. Alto, autorevole. Tiene insieme un’unità volubile composta da tecnici, storici, personale di sicurezza, addetti alle cucine e ai costumi, e dalla talvolta esplosiva sezione Ricerca e sviluppo.
La signora Partridge
Segretaria del direttore. Meglio non contrariarla.
DIPARTIMENTO DI STORIA
Madeleine Maxwell («Max»)
Storica. Non ancora trentenne. Piccola di statura, capelli rossi, attraente, impaziente, atteggiamento autocritico, con un passato poco chiaro e un futuro incerto.
Tim Peterson
Storico. Non ancora trentenne. Alto, capelli scompigliati. Un buon amico.
Kalinda Black
Storica. Bionda con gli occhi azzurri. Sembra una principessa di Walt Disney. Forse beve il sangue dei corsisti. Oggetto dell’amore di Dieter.
Sussman, Grant, Rutherford, Stevens, Nagley, Jordan
Compagni di corso di Max.
REPARTO TECNICO
Leon Farrell
Direttore tecnico. Sui trentacinque anni. Capelli scuri, occhi azzurri, competente, calmo, taciturno.
Dieter
Numero due di Farrell. Massiccio. Un giovane con un gran fisico.
INFERMERIA
Dottoressa Helen Foster
Sulla trentina. Medico con le capacità relazionali di Vlad l’Impalatore. Oggetto dell’amore di Peterson.
Infermiera Hunter
Destinataria delle discutibili attenzioni di Markham.
REPARTO SICUREZZA
Maggiore Ian Guthrie
Capo della Sicurezza. Il suo compito, poco invidiabile, è quello di tenere lo spericolato personale del Saint Mary al sicuro.
Markham
Addetto alla sicurezza. Piccolo, sporco e pasticcione. Ritenuto indistruttibile, e per fortuna.
Whissel
Un tipaccio.
Big DaveMurdock.
Un gigante buono.
DIPARTIMENTO RICERCA E SVILUPPO
Professor Rapson
Capo del dipartimento. Età ignota. Vive nel suo mondo. Responsabile della distruzione della Torre dell’orologio e del disastroso esperimento di Icaro. Ignaro, a quanto pare, delle proprietà del metano.
Dottor Dowson
Bibliotecario e archivista. Età ignota. Anche lui non molto ferrato sul metano.
UFFICIO IT
Isabella Barclay
Capo dell’IT. Stronza patentata. Piccola, astiosa, capelli rossi. Stando ai pettegolezzi, ha una passione non corrisposta per Farrell.
Polly Perkins
Tecnico informatico.
ALTRI
La signora Mack, capo supremo della cucina, sui quarantacinque anni.
Jenny Fields, assistente in cucina e sostenitrice dei dodo.
La signora De Winter, insegnante in pensione.Turk, ufficialmente un cavallo.
IL CATTIVO
Clive Ronan
Capelli e occhi scuri, ordinario, distaccato e letale.
Inoltre, eserciti assortiti, rapaci, muratori e contemporanei ostili troppo numerosi per nominarli tutti.
1.
Nella mia vita ci sono stati due momenti in cui tutto è cambiato. Momenti in cui le cose avrebbero potuto prendere direzioni diverse. Momenti in cui ho dovuto fare una scelta.
Il primo fu a scuola. Dopo l’ennesima giornata turbolenta, mi trovavo al cospetto della signora De Winter, la preside. Avendo già superato il limite della terza punizione, avevo fatto quella che se ne sta zitta col broncio in attesa di essere espulsa. Non fu così.
«Madeleine» mi disse invece la preside con insolita urgenza, «non devi lasciare che quello che succede a casa determini l’intero corso della tua vita. Sei intelligente, hai delle capacità di cui non sei neppure consapevole. Io posso aiutarti, ma questa è l’unica occasione che avrai. Mi permetterai di farlo?»
Nessuno s’era mai offerto d’aiutarmi. Mi si accese qualcosa dentro, ma il sospetto e la diffidenza sono duri a morire.
Lei insistette con dolcezza: «Posso aiutarti. Ultima possibilità, Madeleine. Sì o no?»
Non mi uscì una parola. Ero chiusa nella prigione che mi ero costruita da sola.
«Sì o no?»
Feci un respiro profondo e dissi: «Sì».
La preside mi diede un libro, un blocco per scrivere e due penne.
«Cominceremo dall’antico Egitto. Leggi i primi due capitoli e il capitolo sei. Devi imparare ad assimilare, adattare e descrivere. Voglio millecinquecento parole sull’esatta natura del concetto di Maat. Per venerdì.»
«È una punizione?»
«No, Madeleine. È un’opportunità.»
«Ma… sa che non posso portarlo a casa.»
«Puoi usare la biblioteca della scuola e lasciare lì le tue cose. La signorina Hughes ti sta aspettando.»
Quello fu il primo momento.
Il secondo venne dieci anni dopo. Un’e-mail, del tutto inaspettata.
Cara Madeleine,
sarai certamente sorpresa di avere mie notizie, ma ti confesso che da quando hai lasciato la Thirsk ho seguito il tuo percorso con grande interesse e anche con un certo orgoglio. Congratulazioni per il tuo curriculum universitario, dottoressa Maxwell. È sempre una soddisfazione vedere un’ex allieva conseguire simili risultati, specie dopo le tante difficoltà dei primi anni.
Ti scrivo per parlarti di un’opportunità di lavoro che credo troverai assai interessante.
Avendo frequentato la Thirsk, saprai dell’esistenza di un’università gemella, l’Istituto di ricerche storiche Saint Mary. È un’organizzazione che piace a chi come te predilige una vita meno strutturata, e si concentra più sul lato pratico della ricerca storica. Questo è tutto quello che posso dirti al momento.
L’Istituto si trova appena fuori Rushford, dove abito adesso, e i colloqui si terranno il giorno 4 del mese prossimo. Ti può interessare? Secondo me è la cosa giusta per te, quindi mi auguro che la prenderai in considerazione. I viaggi che hai fatto e l’esperienza accumulata in campo archeologico ti saranno assai utili e sono convinta che tu sia esattamente il tipo di persona che stanno cercando.
La paga è pessima e le condizioni persino peggiori, ma è un ambiente di lavoro straordinariamente stimolante, con persone molto dotate. Se sei interessata clicca sul link sotto per fissare un colloquio.
Per favore, non rifiutare subito senza pensarci su. So che hai sempre preferito lavorare all’estero, ma, con il rischio che gli Stati Uniti chiudano di nuovo i confini e con l’attuale frammentazione all’interno dell’Unione Europea, forse è il caso di prendere in considerazione uno stile di vita un po’ più stabile.
I miei migliori saluti,
Sibyl De Winter
Ho sempre detto che la mia vita è cominciata davvero il giorno in cui varcai i cancelli del Saint Mary. L’insegna diceva:
UNIVERSITÀ DI THIRSK
ISTITUTO DI RICERCHE STORICHE
CAMPUS SAINT MARY
DIRETTORE: DOTTOR EDWARD G. BAIRSTOW
LAUREA DI PRIMO E SECONDO GRADO, DOTTORATO, ASSEGNISTI
DI RICERCA
DELLA ROYAL HISTORICAL SOCIETY
Suonai a un citofono e una voce disse: «Posso aiutarla?»
«Sì, mi chiamo Maxwell. Ho un appuntamento alle quattordici con il dottor Bairstow.»
«Segua il vialetto ed entri dalla porta principale. Non può sbagliare.»
Un po’ troppo ottimista, pensai. Una volta mi capitò di perdermi persino su una scala.
All’ingresso, firmai la presenza e fui gentilmente perquisita da una guardia in divisa, cosa piuttosto inusuale per un istituto di istruzione. Feci del mio meglio per apparire innocua: dovette funzionare, perché fui scortata nel Salone. Ad aspettarmi c’era la signora De Winter, che non era cambiata per niente dall’ultima volta che l’avevo vista, il giorno in cui mi aveva portato alla Thirsk e in cui ero sfuggita a quella diabolica invenzione che era la vita familiare.
Ci scambiammo un sorriso e una stretta di mano.
«Vuoi fare un giro prima del colloquio?»
«Lei lavora qui?»
«Non proprio, diciamo che collaboro al reclutamento del personale. Da questa parte, prego.»
Il posto era enorme. Il Salone centrale con le finestre alte e strette apparteneva al nucleo originario dell’edificio di epoca medievale. In fondo c’era una scala di quercia riccamente ornata con dieci gradini bassi che conducevano all’ampio pianerottolo dell’ammezzato. Di qui si passava a un ballatoio cui si poteva accedere da destra e da sinistra e che percorreva l’intero perimetro del salone.
Sul ballatoio si aprivano varie stanze che, a giudicare da quanto vidi dalle porte aperte, erano adibite ai costumi e agli allestimenti. Persone indaffarate andavano e venivano con le braccia cariche di vestiti e gli spilli in bocca. Appesi alle grucce o addosso ai manichini c’erano abiti in vari stadi di ultimazione. Le stanze erano luminose, soleggiate e piene di chiacchiere.
«Facciamo parecchi lavori per i film e per la televisione» spiegò la signora Enderby, responsabile dei Costumi. Era piccola e tonda, con un sorriso dolce. «A volte cercano solo informazioni su fogge e materiali, ma in altri casi realizziamo fisicamente i capi. Questo, ad esempio, è per un adattamento storico della vita di Carlo II al tempo della Restaurazione. Un sacco di seni e di sesso, ovviamente, ma ho sempre creduto che Carlo sia stato un sovrano molto sottovalutato. Questo abito è per Nell Gwynn nel suo periodo ‘arancione’, e quell’altro è per l’amante francese di Carlo II, Louise de Kérouaille.»
«È splendido» dissi a bassa voce, attenta a non toccare la stoffa. «I particolari sono eccellenti. Purtroppo è un po’ moderno per me.»
«La dottoressa Maxwell si occupa di storia antica» disse la signora De Winter. In tono di scuse, mi parve.
«Oh, santo cielo» sospirò la signora Enderby. «Be’, non è necessariamente una brutta notizia, presumo. Ci saranno drappeggi, toghe e tuniche, naturalmente, ma anche così…» Non terminò la frase. L’avevo chiaramente delusa.
Da lì passammo al professor Rapson, nella stanza accanto, capo del dipartimento Ricerca e Sviluppo. Rispecchiava a tal punto il classico professore stravagante che lì per lì pensai mi stesse prendendo in giro. Altissimo, magrissimo, capelli alla Einstein, nasone a becco che ricordava la prua di un cacciatorpediniere. E non aveva sopracciglia, che in effetti avrebbe dovuto essere un indizio. Sorrise con gentilezza e ci invitò a dare un’occhiata al suo regno: una scrivania ingombra, libri ovunque e, più avanti, una sorta di laboratorio.
«La dottoressa Maxwell non ha ancora fatto il colloquio» disse la signora De Winter in tono di avvertimento.
«Oh, oh, certo, sì, no, capisco» disse lui. «Be’, questo è ciò che tendo a considerare storia ‘pratica’, mia cara. Il segreto del fuoco greco? Ce ne stiamo occupando. Come si guida una biga romana? Te ne costruiamo una, così lo scopri da te. Che gittata ha un trabocco? A che distanza esatta puoi lanciare una mucca morta? Quanto ci vuole per estrarre il cervello di una persona dal naso? Qualunque domanda tu abbia, vieni da me e ti troveremo la risposta! È questo che facciamo!»
Nell’allargare le braccia intercettò un becher con un liquido torbido che avrebbe potuto benissimo essere un fluido per imbalsamazione, l’elisir di lunga vita o la cicuta di Socrate. Il contenitore cadde dal banco di lavoro e si frantumò sul pavimento. Tutti fecero un passo indietro. Il liquido gorgogliò, sibilò e sembrò corrodere il legno. Notai tante altre macchie umide simili.
«Oh, santo cielo! Jamie! Jamie! Jamie, ragazzo, fai una scappata al piano di sotto, ti spiace? Porta i miei rispetti al dottor Dowson e digli che sta passando di nuovo attraverso il suo soffitto!»
Un giovanotto annuì affabilmente, si alzò dal suo banco e si fece largo nel groviglio di modelli da completare, attrezzature misteriose, pile traballanti di libri e lavagne bianche imbrattate. Passandomi accanto mi sorrise. Sembravano tutti molto amichevoli. L’unica cosa un po’ strana era che la signora De Winter anteponesse a ogni presentazione l’avvertimento che non avevo ancora fatto il colloquio. Tanti sorrisi e strette di mano, ma in nessun reparto riuscii ad andare oltre la soglia.
Conobbi la signora Mack, responsabile delle cucine. Il refettorio, mi disse, era aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. Cercai di capire perché un istituto dedito allo studio della storia non dovesse avere orari stabiliti per i pasti, ma non ci riuscii. Non che fosse un problema, tutt’altro. Potevo benissimo mangiare ventiquattr’ore al giorno.
Il bar e la saletta adiacenti avevano più o meno le stesse dimensioni del refettorio, il che era interessante dal punto di vista delle priorità. Era tutto un po’ logoro e in cattivo stato, ma soprattutto al bar la scarsità del budget saltava all’occhio.
Più avanti lungo lo stesso corridoio, un negozietto vendeva libri, cioccolato, articoli da toeletta e altri articoli essenziali.
M’innamorai della Biblioteca, che insieme al Salone costituiva il cuore dell’edificio. I soffitti alti la facevano sembrare molto spaziosa e l’enorme camino la rendeva accogliente. C’erano sedie comode sparse un po’ ovunque e finestre alte da cui entrava il sole disposte tutte sulla stessa parete. Vi si trovavano non solo libri, ma tutti i più recenti sistemi elettronici di reperimento delle informazioni, aree di studio, tabelle dati, e oltre un passaggio ad arco intravidi anche un enorme archivio.
«Qualunque titolo cerchi, ce l’abbiamo da qualche parte» disse il dottor Dowson, il bibliotecario e archivista con una specie di sou’wester in testa. «Almeno finché quel vecchio pazzo di sopra non ci farà saltare tutti per aria. Sa che a volte dobbiamo indossare gli elmetti? Non faccio che ripetere a Edward di mettere lui e il suo team di svitati dall’altra parte dell’Hawking, se vogliamo sperare di sopravvivere!»
«La dottoressa Maxwell non ha ancora fatto il colloquio» lo interruppe la signora De Winter, e le chiacchiere dell’uomo si ridussero a un vago mormorio. In latino. Guardai il soffitto con preoccupazione. In effetti c’erano delle macchie, ma nulla che facesse pensare a una qualche corrosione; per fortuna, dato che probabilmente l’edificio era d’interesse architettonico e storico.
«Gliel’hanno detto che l’anno scorso i suoi ricercatori hanno tentato di riprodurre i cannoni russi della Carica dei 600, hanno sbagliato a calcolare la gittata e hanno demolito la Torre dell’orologio?» chiese.
«No» risposi, pur sospettando che si trattasse di una domanda retorica. «Mi spiace di essermelo perso.»
Fui condotta oltre con fermezza.
Sostammo al principio di un lungo corridoio che sembrava condurre a una parte separata e moderna del campus. «Cosa c’è laggiù?»
«Quello è l’hangar dove teniamo gli impianti tecnici e le attrezzature. Non c’è tempo di vederlo adesso, dobbiamo avviarci verso lo studio del dottor Bairstow.»
Stavo ancora pensando alla guerra di Crimea e al disastro della battaglia di Balaclava quando mi accorsi che qualcuno mi stava parlando. Era un uomo di media altezza, con i capelli scuri e un viso ordinario reso straordinario da un paio di occhi grigio-azzurri chiari e brillanti. Portava una tuta arancione.
«Scusi tanto» dissi. «Stavo pensando alla Crimea.»
«Capo, lei è la dottoressa Maxwell.»
«Non ho ancora fatto il colloquio» dissi, tanto per dimostrare che ero stata attenta.
Lui storse la bocca.
«Dottoressa Maxwell, questo è Leon Farrell, il direttore tecnico.»
Allungai la mano. «Piacere, signor Farrell.»
«Qui in genere mi chiamano Capo, dottoressa.» Allungò lentamente la mano e me la strinse. La sua era calda, asciutta e indurita dai calli. La mano di un uomo che lavora. «Benvenuta al Saint Mary.»
La signora De Winter batté un dito sull’orologio. «Il dottor Bairstow sta aspettando.»
Così, questo era il dottor Bairstow. Quando entrai era in piedi davanti alla finestra: alto, ossuto, con un’aureola di capelli grigi intorno alla testa che ricordava le piume alla base del collo di un avvoltoio. A un lato della scrivania, a una certa distanza, sedeva una donna in un elegante abito di sartoria con un’agenda elettronica in mano. Incuteva soggezione con la sua aria distinta, dignitosa e pronta a dare giudizi. Il dottor Bairstow si appoggiò pesantemente a un bastone e allungò una mano fredda quanto la mia.
«Dottoressa Maxwell, benvenuta. Grazie di essere qui.» Aveva una voce bassa e limpida, molto autorevole. Di certo non era un uomo che aveva bisogno di alzare la voce per attirare l’attenzione. I suoi occhi penetranti mi soppesarono, ma non lasciarono trasparire alcun indizio circa le sue conclusioni. Di solito non me la cavo bene con l’autorità, ma questa era decisamente un’occasione in cui dovevo essere cauta.
«Grazie per avermi invitata, dottor Bairstow.»
«Lei è la mia assistente, la signora Partridge. Ci sediamo?»
Ci accomodammo. La prima ora parlammo di me. Ebbi l’impressione che la mancanza di legami personali e il fatto di non avere parenti prossimi riconosciuti costituisse un punto a mio favore. Conosceva già per filo e per segno le mie qualifiche e per un po’ parlammo dei miei studi post-laurea di archeologia e antropologia, della mia esperienza lavorativa e dei miei viaggi. Era particolarmente interessato a come mi trovassi in altri paesi e a contatto con culture diverse dalla mia. Quanto mi riusciva facile imparare una nuova lingua e farmi capire? Mi sentivo mai isolata all’interno di una comunità? Come mi muovevo? Quanto ci mettevo a integrarmi?
«Perché ha scelto la storia, dottoressa Maxwell? Con i tanti interessanti sviluppi degli ultimi dieci anni nel campo dei programmi spaziali e il Progetto Marte agli stadi finali, cosa le ha fatto scegliere di guardare indietro invece che avanti?»
Tacqui, raccogliendo e riordinando i pensieri. Avevo nove anni. Era stato un brutto Natale. Ero seduta in fondo al mio armadio. Sentii qualcosa sotto il sedere. Era un libretto: Enrico V e la battaglia di Azincourt. Lo lessi e rilessi fin quasi a disfarlo. Non scoprii mai come si trovasse lì. Quel libro destò il mio amore per la storia. L’avevo ancora: era l’unica cosa che avevo conservato della mia infanzia. Lo studio della storia apriva porte di altri mondi e altre epoche ed era diventato la mia fuga e la mia passione. Ma non parlo mai del mio passato, per cui risposi con tre frasi brevi e impersonali. Dopo di che il dottor Bairstow mi presentò il Saint Mary. Lo descrisse come un’organizzazione estesa, vivace e anticonformista. Ero sempre più incuriosita. Non saprei indicare quando di preciso, ma durante il discorso cominciai ad avere l’impressione che mi stesse sfuggendo qualcosa. Era un grande campus. Avevano un Reparto sicurezza, pasti ventiquattr’ore al giorno, impianti, attrezzature e un Reparto tecnico. Si fermò un momento, mescolò alcune carte e mi chiese se avessi domande.
«Sì» dissi. «Cos’è l’Hawking?»
Il dottor Bairstow non rispose, ma si allontanò leggermente dalla scrivania spingendo la sedia e guardò la signora Partridge. Lei posò l’agenda elettronica e uscì dalla stanza. La guardai andare via, poi guardai lui. L’atmosfera era cambiata.
«Come fa a sapere dell’Hawking?» domandò lui.
«Be’» risposi, «non è di dominio pubblico, ovviamente, ma…» Lasciai la frase in sospeso. Lui mi fissò e il silenzio si prolungò. «È solo che mi sembra strano che l’hangar di un centro di ricerche storiche abbia il nome di un famoso fisico.»
Non rispose nemmeno adesso, ma non avevo intenzione di aggiungere altro. Non ho paura del silenzio. Non sento mai il bisogno di riempirlo come capita a molti. Ci scrutammo per un po’ e avrebbe anche potuto essere interessante, non fosse che la signora Partridge tornò con una cartella e la mise davanti al dottor Bairstow. Lui la aprì e sparpagliò i fogli che conteneva sulla scrivania.
«Dottoressa Maxwell, non so cosa le abbiano detto, ma forse potrebbe dirmi quello che sa.»
Aveva scoperto il mio gioco.
«Assolutamente nulla» ammisi. «L’ho sentito nominare e mi sono chiesta cosa fosse. Anche il personale del campus m’incuriosisce. Perché avete bisogno della Sicurezza e di tecnici? E perché tutti devono sapere che non ho ancora fatto ‘il colloquio’? Cosa c’è sotto?»
«Sono pronto a dirle tutto quello che vuole sapere, ma non potrò farlo se prima lei non firma queste carte. La informo che si tratta di documenti legalmente vincolanti. Il gergo legale potrà sembrare astruso, ma stia certa che, se mai riferirà una sola parola di quello che sto per dirle, trascorrerà i prossimi quindici anni come minimo in un luogo della cui esistenza nessuna organizzazione per i diritti civili è neppure al corrente. Si prenda pure un minuto per riflettere prima di procedere.»
Riflettere è una cosa che di solito lascio fare agli altri. «Ha una penna?»
La signora Partridge me ne porse cortesemente una, firmai e apposi le iniziali a un gran numero di documenti. Poi si riprese la penna, atto che compendiava il nostro rapporto.
«Adesso» disse lui «prenderemo un tè.»
A quel punto, da pomeriggio si era fatta sera. Il colloquio stava durando molto più di quanto richiesto per un semplice lavoro di ricerca. Ero impaziente. C’era qualcosa di eccitante in ballo.
Il dottor Bairstow si schiarì la gola. «Dal momento che non ha avuto l’istinto di darsela a gambe, ora farà l’‘altro’ giro.»
«E questo è l’‘altro’ colloquio?»
Lui sorrise e rimescolò il tè.
«Ha mai pensato quanto sarebbe meglio se, invece di contare sull’archeologia, su resoconti inaffidabili e, diciamocelo pure, supposizioni, potessimo effettivamente tornare a un evento storico ed esserne testimoni diretti? Se potessimo dire con certezza, ‘Sì, i principi nella torre erano vivi alla fine del regno di Riccardo. Lo so perché l’ho visto con i miei occhi’.»
«Sì» concordai. «Sarebbe meglio. Anche se mi vengono in mente alcuni casi in cui certezze simili non sarebbero desiderabili.»
Alzò lo sguardo di scatto.
«Tipo?»
«Be’, una certa stalla a Betlemme, per esempio. Immagini di spuntare lì con la Polaroid e la locandiera spalancasse la porta e dicesse, ‘Prego, siete i miei soli ospiti e c’è un sacco di posto alla locanda!’ Una cosa simile susciterebbe un vespaio.»
«Come minimo. Ma ha comunque compreso molto bene la situazione.»
«Quindi» dissi guardandolo con attenzione «forse è un bene che i viaggi nel tempo non esistano.»
Il dottor Bairstow inarcò leggermente un sopracciglio.
«O, per meglio dire, che non esistano viaggi nel tempo accessibili a tutti.»
«Esattamente. Anche se l’espressione ‘viaggio nel tempo’ fa molto fantascienza. Non è questo che facciamo. Qui al Saint Mary studiamo grandi eventi storici nel momento in cui si svolgono.»
Messa così aveva perfettamente senso.
«Mi dica, dottoressa Maxwell, se avesse tutta la storia a disposizione, dove andrebbe? Di cosa vorrebbe essere testimone?»
«La guerra di Troia» risposi quasi incespicando sulle parole. «O la resistenza spartana alle Termopili. Enrico ad Azincourt. Stonehenge. La costruzione delle piramidi. Oppure vedere Persepoli prima che bruci. Annibale che attraversa le Alpi con gli elefanti. Andrei a Ur a trovare Abramo, il padre di tutto.» Mi fermai a prendere fiato. «Potrei fare una lista.»
Lui accennò un sorriso. «Forse un giorno gliene chiederò una.»
Appoggiò la tazza. Col senno di poi, posso dire che procedeva con cautela nel colloquio, valutando le mie risposte, centellinando le informazioni, osservando le mie reazioni. Qualcosa dovetti azzeccare, perché disse: «Tanto per sapere, se le venisse offerta l’opportunità di osservare uno degli eccitanti eventi che ha citato, la coglierebbe?»
«Sì.»
«Sì e basta? Alcuni sentono la necessità di chiarimenti sulla sicurezza del viaggio di ritorno. Altri ridono. Altri ancora si mostrano increduli.»
«Io non sono incredula. Credo sia assolutamente possibile. Solo che non sapevo lo fosse già adesso.»
Lui sorrise ma non disse nulla, così tenni duro e continuai. «Che succede se non si riesce a tornare?»
Mi guardò con compassione. «In realtà questo è l’ultimo dei problemi.»
«Ah, sì?»
«La tecnologia esiste già da qualche tempo. Il problema maggiore oggi è la Storia stessa.»
Sì, questo chiariva tutto. Ma, come diceva Lisa Simpson, «meglio restare in silenzio e dare l’impressione di essere stupido che aprire bocca e togliere ogni dubbio». Così restai in silenzio.
«Pensi alla Storia come a un organismo vivente, con dei propri meccanismi di difesa. La Storia non permette a nulla e nessuno di alterare un evento già accaduto. Se Essa pensasse, finanche per un secondo, di correre questo rischio, eliminerebbe la minaccia senza esitazione, come si fa con un virus. Che nel nostro caso è lo storico.
«Ed è anche facile. Non ci vuole molto a far cadere un blocco di pietra da dieci tonnellate addosso a uno storico potenzialmente minaccioso che osserva la costruzione di Stonehenge. Dell’altro tè?»
«Sì, grazie» risposi, colpita dal suo sang-froid, ma decisa a non mostrarmi da meno.
«Quindi» disse riempiendomi la tazza. «Lasci che glielo chieda di nuovo. Supponiamo che le venga offerta l’opportunità di visitare la Londra del sedicesimo secolo e di assistere, che so, all’incoronazione di Elisabetta I… non ci sono solo sangue e campi di battaglia. Vorrebbe comunque andare?»
«Sì.»
«Le è pienamente chiaro che si tratterebbe soltanto di osservare e documentare e che qualunque tipo di interazione non è soltanto estremamente rischiosa, ma in genere assolutamente vietata?»
«Se mi fosse offerta un’opportunità simile, lo capirei perfettamente.»
«La prego di rispondere con sincerità, dottoressa Maxwell. Non vorrei che questa ammirevole calma fosse dovuta al fatto che dentro di sé, in fondo in fondo, lei stia pensando ch’io sia pazzo e che questa sia una conversazione da raccontare al pub stasera.»
«In realtà, dottor Bairstow, dentro di me, in fondo in fondo, sto godendo come un riccio.»
Lui rise.
Seduto in attesa nell’ufficio della signora Partridge c’era il tizio cupo e taciturno che avevo incontrato sulle scale, quello con gli occhi spettacolari.
«La affido al Capo» disse il dottor Bairstow, raccogliendo dei documenti e dei datacube. «L’aspetta una serata interessante, dottoressa Maxwell. Buon divertimento.»
Uscimmo dall’ufficio e ci dirigemmo verso il lungo corridoio che avevo notato in precedenza. Provai la stranissima sensazione di entrare in un altro mondo. Le finestre, poste a intervalli regolari sullo stesso lato, gettavano pozze di luce sul pavimento facendoci passare dalla luce all’ombra, dal caldo al fresco, da un mondo a un altro. In fondo al corridoio c’era una porta che si apriva digitando un codice.
Entrammo in un atrio spazioso con altre grandi porte di fronte.
«Porte anti-esplosione» specificò il Capo con indifferenza.
Certo, cosa credevo? Tutti i centri di ricerche storiche necessitano di porte anti-esplosione. Alla mia destra, una rampa di scale e un ascensore da ospedale portavano a un piano superiore. «Per l’Infermeria» spiegò. Sulla sinistra, un corridoio con alcune porte senza targa si perdeva nel buio.
«Da questa parte» disse. Mi domandai se proferisse mai più di due o tre parole di seguito.
Le grosse porte si aprirono su un enorme spazio rimbombante stile hangar. In fondo si vedevano due aree chiuse da vetrate.
«Quelli sono uffici. Uno per l’IT» disse indicando l’area a sinistra «e uno per noi tecnici.» Indicò l’area a destra. Da un lato c’era un carroponte sopraelevato con tre o quattro persone in tuta azzurra appoggiate alla rotaia. Sembravano in attesa.
«Storici» disse seguendo il mio sguardo. «Loro indossano tute azzurre. I tecnici le portano arancioni, gli informatici nere e le guardie di sicurezza verdi. La Numero Tre deve tornare a momenti. Questo è il comitato di accoglienza.»
«Che carini» commentai.
Lui aggrottò la fronte. «È un mestiere difficile e pericoloso. Non c’è una struttura di sostegno per quello che facciamo. Dobbiamo occuparci gli uni degli altri, ecco il perché del comitato di benvenuto. Per tranquillizzarli e aiutarli a riprendersi.»
«Riprendersi da cosa?»
«Da qualunque cosa sia accaduta all’equipaggio durante l’incarico.»
«Come si fa a sapere che è successo qualcosa?»
Lui sospirò. «Siamo storici. Succede sempre qualcosa.»
Disposti lungo i lati dell’hangar c’erano due file di basi rialzate. Enormi cavi spessi e neri ci giravano intorno e proseguivano attorcigliandosi fino a sparire in angoli bui. Alcune basi erano vuote, altre avevano delle piccole costruzioni appoggiate sopra. Erano leggermente diverse tra loro per forma e misura, ma sembravano tutte delle piccole e squallide casupole di pietra con il tetto piatto e senza finestre; il tipo di struttura adatta a qualunque ambiente, dalla città di Ur in Mesopotamia a un moderno paesaggio urbano. Con una scala di legno pericolante appoggiata alla parete, una ruota rotta accanto alla porta e un paio di polli che beccavano in giro, nessuno le avrebbe mai notate.
«E queste sono…» dissi, indicandole.
Lui sorrise per la prima volta. «Le nostre basi operative. Le chiamiamo capsule. Quando svolgono un incarico, i nostri storici vivono e lavorano qui dentro. Numero Uno e Numero Due» spiegò con un cenno della mano. «Di solito le usiamo come simulatori e per l’addestramento, perché sono piccole e spartane. La Tre è quella che sta per rientrare. La Cinque la stanno preparando per l’uscita. La Sei è fuori, e anche la Otto.»
«E la Quattro e la Sette dove sono?»
«Smarrite» rispose a bassa voce. Nel silenzio, quasi sentivo gli atomi di pulviscolo roteare nei fasci di luce del sole.
«Quando dice ‘smarrite’ intende che non sa dove sono e che per qualche motivo non sono più tornate?» «Una delle due cose. O entrambe. La Quattro è andata nella Gerusalemme del dodicesimo secolo per documentarsi sulle Crociate. Non si sono più sentiti e tutti i tentativi di soccorso sono falliti. La Sette è andata nell’antica Britannia, a Verulamium, la moderna St Albans, e non li abbiamo più trovati.»
«Ma li avete cercati?»
«Oh, sì, per settimane. Non abbandoniamo mai nessuno dei nostri. Ma non abbiamo mai trovato né loro né le capsule.»
«Quante persone avete perso?»
«In quei due incidenti, cinque storici in tutto. I loro nomi sono apposti sull’Albo d’onore nella cappella.» Notò il mio sguardo confuso. «È il nostro elenco dei caduti, di quelli che non tornano, o muoiono, o entrambe le cose. La nostra percentuale di fallimento è alta. Il dottor Bairstow non gliel’ha detto?»
«Lui…» Stavo per chiedere quanto fosse alta la suddetta percentuale, quando una luce sulla base contrassegnata dal numero tre cominciò a lampeggiare. Dal nulla spuntarono figure arancioni che trascinavano cavi ombelicali ed elettrici, pianali e gli strumenti del mestiere. E in silenzio, senza clamore, senza squilli di trombe, la capsula Tre si materializzò sulla sua base.
Non successe niente.
Guardai il Capo. «Ehm…»
«Noi non entriamo. Escono loro.»
«Perché?»
«Devono sottoporsi alla procedura di decontaminazione. Sai, peste, vaiolo, colera, quel genere di cose. Non entriamo finché non sono ripuliti.»
«E se sono feriti?»
In quel momento si aprì la porta e una voce gridò, «Infermieri!»
I tecnici arancioni si divisero come il mar Rosso facendo largo a due camici bianchi che arrivarono a passo svelto e sparirono nella capsula.
«Che succede? Chi c’è lì dentro? Dove sono stati?»
«Sono Lower e Baverstock, di ritorno dalla Cina del 1900, la rivolta dei Boxer. Pare abbiano bisogno di cure mediche, ma niente di grave.»
«Come lo sa?»
«Quando ne hai visti tornare tanti, sviluppi una specie di sesto senso. Se la caveranno.»
Guardammo la porta in silenzio fino a quando un uomo e una donna uscirono zoppicando con indosso abiti orientali. Lui aveva una medicazione su un occhio e lei un braccio fasciato. Guardarono entrambi in su verso il ponte e mandarono un saluto. Le tute azzurre risposero al saluto e urlarono degli insulti. La coppia se ne andò con gli infermieri. Le tute arancioni si accalcarono intorno alla capsula.
«Vuoi dare un’occhiata?»
«Sì, grazie.»
Da vicino, la capsula sembrava ancora più anonima e insignificante di quanto già sembrasse vista da lontano.
«Porta» disse il Capo, e quella che sembrava una sgangherata porta di legno si aprì senza alcun suono. Nell’enorme hangar, l’interno della capsula sembrava minuscolo e sacrificato.
«Il bagno e la doccia sono là» disse indicando un angolo separato. «Qui ci sono i comandi.» Un quadro con un’indecifrabile serie di luci e dati lampeggianti, quadranti e interruttori sotto un enorme schermo a parete. Le telecamere esterne mostravano solo l’hangar. Due sedili girevoli consumati e apparentemente scomodi erano fissati al pavimento davanti ai comandi.
«Il computer può essere utilizzato manualmente o attivato con la voce, se si vuole parlare con qualcuno. Alle pareti ci sono degli armadietti con tutto ciò che serve per l’incarico. I moduli per dormire si tirano fuori al bisogno. In questa capsula possono dormire fino a tre persone comodamente, quattro se occorre.»
Fasci di cavi percorrevano le pareti sparendo nel soffitto piastrellato.
In mezzo a questo guazzabuglio di attrezzature malandate ma indubbiamente ultratecnologiche, mi stupì vedere su uno scaffale un piccolo bollitore e due tazze, sotto una cassetta di pronto soccorso piuttosto voluminosa.
«Sì» disse lui rassegnato. «Dove c’è una tazza di tè ci sono sempre almeno due storici attaccati.»
Lo spazio angusto puzzava di persone anziane, cavoli, sostanze chimiche, circuiti elettrici e moquette umida, con un sottostante odore di gabinetto. Avrei scoperto che tutte le capsule avevano lo stesso odore e che gli storici sostenevano, scherzando, che i tecnici partissero dal profumo per poi costruirci intorno la capsula.
«Come funziona?»
Lui si limitò a guardarmi. Okay, domanda stupida.
«Adesso?»
«C’è qualcos’altro che desideri vedere?»
«Sì, tutto.»
Così feci «l’altro» giro. Andammo alla sicurezza, dove il personale vestito di verde controllava armi e apparecchiature, sbirciando schermi, bevendo tè, correndo avanti e indietro e urlandosi addosso.
«C’è un problema?» domandai.
«No, siamo chiassosi, temo. Spero non ti aspettassi un tempio del sapere.»
Conobbi il maggiore Guthrie. Alto, capelli biondo scuro, era impegnato a fare qualcosa, ma s’interruppe e mi fissò.
«Sai sparare? Hai mai usato un’arma? Sai andare a cavallo? Nuotare? Quanto sei in forma?»
«No. No. Sì. Sì. Per niente.»
Tacque un momento guardandomi dall’alto in basso. «Potresti uccidere un uomo?» Lo guardai dall’alto in basso. «Se mi vedessi costretta.»
Lui sorrise e allungò la mano. «Guthrie.»
«Maxwell.»
«Benvenuta.»
«Grazie.»
«Seguirò i tuoi progressi con grande interesse.»
Non mi sembrò una bella cosa.
La visita terminò con un giro all’esterno della proprietà, molto piacevole se non si faceva caso alle scie d’erba bruciata e ai cigni azzurri. Stavo per chiedere delucidazioni in merito quando si udì un piccolo botto dal secondo piano e le finestre sbatacchiarono.
«Aspetta» disse Farrell. «Questa settimana sono l’ufficiale di servizio e voglio vedere se scattano gli allarmi antincendio.»
Non scattarono.
«Buono, no?» dissi.
Sospirò. «No, significa solo che hanno tolto di nuovo le batterie.»
Questo era veramente il posto per me.
2.
Un po’ come i padroni finiscono per somigliare ai loro cani, al Saint Mary i corsisti finivano per somigliare all’istituto. Dopo qualche settimana, infatti, eravamo sciupati e sciatti esattamente come l’edificio che ci ospitava.
Il primo giorno ci presentammo soltanto in sette a fronte dei dieci previsti. Pare che la media di coloro che superavano il corso fosse di 3,5.
«Sarai la piccoletta, allora» mi disse un ragazzo alto, alludendo presumibilmente alla mia bassa statura. Lo ignorai. Lui cacciò le sue carte in una cartella senza accorgersi che gli stavano cadendo quasi tutte da sotto. Sul suo badge c’era scritto «Sussman». Era un tipo mediterraneo, capelli e occhi scuri, di quelli che gli bastava guardare fuori dalla finestra per abbronzarsi.
Accanto a lui c’era Grant, tarchiato, capelli biondo-rossicci, viso gradevole e quadrato, occhi azzurri e sguardo serioso. Riordinò con cura le carte e le ripose nella cartelletta. Era seduto con Nagley e la ascoltava assorto. Lei aveva un viso intelligente e muoveva in continuazione gli occhi e le mani. Sembrava tanto sensibile ed eccitabile quanto lui placido e poco impressionabile. Una squadra perfetta.
L’altra ragazza, Jordan, se ne stava leggermente in disparte, nervosa e indecisa. Dal linguaggio del corpo si sarebbe detta pronta a darsela a gambe, e infatti se ne andò dopo nemmeno una settimana. Avevo visto giusto. Non so cosa successe: un giorno c’era e quello dopo non c’era più. Ma era inutile chiedere perché, tanto non te lo dicevano mai. Non ricordo di aver neppure mai sentito la sua voce.
Gli altri due, Rutherford e Stevens, chiacchieravano tra loro mentre sistemavano le carte. Stevens aveva qualche anno in più di tutti noi ed era piccolo, cicciottello e pieno d’entusiasmo. Si guardava intorno eccitato, osservando tutto. Rutherford, al contrario, era un armadio, e somigliava più a un giocatore di rugby che a uno studioso di storia.
Il primo shock fu la perdita dei titoli accademici. Solo i capi di dipartimento mantenevano il proprio titolo. La cosa non mi dispiaceva, però. Ero convinta che la signorina Maxwell si sarebbe divertita molto di più della dottoressa Maxwell.
Ci mostrarono le nostre camere nel nuovo edificio del personale. La mia era piccola e squallida e condividevo il bagno con le altre due ragazze, Nagley e Jordan. Stese sul mio letto c’erano delle tute grigie, forse i capi di vestiario che donavano meno di tutti i tempi. La tasca sul ginocchio conteneva una bella agenda elettronica. Indumenti per il freddo, per la pioggia, magliette grigie e pantaloncini, calze e stivali completavano il tutto. Disfeci le mie poche cose e mi cambiai, poi mi guardai allo specchio: un sacco grigio eccitato con i capelli rossi.
Ci ritrovammo in Infermeria per sottoporci alla visita medica. Poiché la dottoressa Foster non si preoccupò di nascondere la propria antipatia per i pazienti, neppure io mi preoccupai di nascondere la mia per i medici. La guardai. Il camice bianco e lo stetoscopio non c’entravano niente con lei. Un completo di pelle nera e un frustino si sarebbero abbinati meglio alla sua espressione severa.
Le procedure mediche sembrarono interminabili. Avevo condotto una vita relativamente irreprensibile fino a quel momento, ma nonostante ciò fui vaccinata per e contro qualunque cosa, e intendo proprio tutto. Fummo anche invitati a donare regolarmente il sangue come investimento per il futuro.
Usciti dall’Infermeria tornammo nel Salone e ci sedemmo ad ascoltare il discorso di benvenuto del dottor Bairstow.
«Congratulazioni a tutti. Siete i prescelti tra i candidati intervistati, ma solo i migliori di voi completeranno l’addestramento. Altri non supereranno il corso. Vi aspettano tempi duri. Naturalmente potete ritirarvi quando volete. Non c’è alcun obbligo. In quel caso, però, sappiate che i documenti di riservatezza che avete firmato oggi non hanno scadenza ed è bene che le conseguenze del divulgare qualsiasi informazione di qualunque tipo a chiunque vi siano molto, molto chiare.»
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L’autrice
Jodi Taylor è ed è sempre stata una fanatica di Storia. Nata a Bristol e cresciuta a Gloucester (cose che entrambe le città negano risolutamente), ha trascorso molti anni con la testa altrove, con grande dispiacere della famiglia, dei professori e dei colleghi, finché ha deciso di concretizzare tutte le sue fantasie e ha finalmente preso in mano una penna. Non ha ancora idea di quel che farà da grande. Il suo romanzo d’esordio, La confraternita degli storici curiosi (Corbaccio, 2020), è un mix di storia, avventura, commedia, romance e tragedia.
- La confraternita degli storici curiosi
- Jodi Taylor
- Traduttore: Elisabetta De Medio
- Editore: Corbaccio
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Cloud: Sì Scopri di più
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 1,3 MB
- Pagine della versione a stampa: 384 p.
- EAN: 9788867007622
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