Agatha Christie non andò mai a scuola, eppure è diventata la più grande scrittrice di gialli di tutti i tempi.

Agatha Christie.

Nata il 15 settembre 1891 a Torquay (Gran Bretagna), figlia minore del matrimonio di Fred Miller (Miller è il suo vero cognome) e Clara Boehmer. Da bambina aveva un carattere timido e ritirato, e rifiutava le sue bambole per giocare con amici immaginari. Suo padre, che viveva affittando appartamenti, passava la giornata a giocare a carte e morì quando lei aveva 11 anni, lasciando la moglie e i figli in bancarotta Agatha crebbe dunque in una famiglia borghese e non avendo frequentato alcuna scuola, viene istruita dalla madre, Clara Boehmer, donna della buona società e nonché dalla nonna e dalle governanti di casa. Tornata da Parigi dopo aver tentato gli studi per diventare una cantante lirica, conosce Archibald Christie, colonnello della Royal Flying Corps, con cui si fidanza.

Nel 1920 le venne l’idea, lavorando in un ospedale, come assistente nel dispensario, a contatto con i veleni, per il suo primo romanzo giallo che vedeva come protagonista l’investigatore belga Hercule Poirot, “Poirot a Styles Court”. Attraverso le avventure di quest’ultimo e dell’arzilla vecchietta Miss Marple fece la storia del genere “giallo/poliziesco”, influenzando generazioni di scrittori. Si misurò anche con il “romanzo rosa” pubblicando sei opere sotto lo pseudonimo di Mary Westmacott. Ricordata per capolavori assoluti come Assassinio sull’Orient Express e “Dieci piccoli indiani”, è, dopo Shakespeare, la scrittrice inglese più tradotta di sempre e i suoi romanzi hanno ispirato numerose versioni cinematografiche.  

Ecco a voi Hercule Poirot. 

Hercule Poirot.

Doveva essere un ispettore per avere una buona conoscenza del crimine. Doveva essere anche meticoloso e molto ordinato, decisi, mentre mi affaccendavo a raccogliere una serie di oggetti che avevo seminato nella mia stanza. Un omino preciso, con la mania dell’ordine, della simmetria, e una netta propensione per le forme quadrate piuttosto che per quelle tonde. E poi molto intelligente, con il cervello pieno di piccole cellule di materia grigia… ah, che bella frase, non dovevo dimenticarla. Bisognava anche che avesse un nome importante, un nome che non sarebbe sfigurato nella famiglia Holmes. Già, perché loro quanto a nomi… Come si chiamava il fratello di Sherlock? Mycroft, nientemeno. E se l’avessi chiamato Hercules? Hercules mi parve un ottimo nome per un omino così. Trovargli un cognome era più difficile. Non so assolutamente perché scelsi Poirot, se fu una folgorazione o se lo lessi su qualche giornale. Comunque mi parve buono, anche se non si legava bene con Hercules. E se fosse stato Hercule? Hercule Poirot… perfetto, grazie a Dio, era fatta.

Agatha Christie.

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La disavventura di un nobile italiano. Titolo originale: The Adventure of the Italian Nobleman. Pubblicato per la prima volta su «The Sketch» il 24 ottobre 1923.Traduzione di Lydia Lax.

Trama

Poirot e Hastings hanno ricevuto la visita di un loro vicino, il dottor Hawker, e stanno tutti e tre piacevolmente discorrendo quando all’improvviso arriva la governante del medico, la signorina Rider, ad avvertirlo che un cliente, il conte Foscatini ha chiamato per chiedergli aiuto. L’investigatore e l’amico si uniscono al dottore e vanno con lui nell’appartamento del conte, a St John’s Wood. L’addetto agli ascensori afferma di non essere a conoscenza di niente di strano, visto che il cameriere del conte, Graves, se ne è andato un’ora prima senza parlare di nessun problema. L’appartamento è chiuso a chiave, ma il direttore dell’edificio apre la porta con un passepartout. Dentro, la tavola è preparata per tre persone e il pasto è stato consumato. Il conte è stato ucciso con un colpo alla testa sferrato con un statua di marmo. Poirot sembra interessato a quello che giace sopra la tavola, poi chiede agli addetti alle cucine che si trovano in cima all’edificio chi ha ordinato la cena e quali piatti sporchi erano stati fatti tornare indietro. L’investigatore dà molta rilevanza anche al fatto che i dessert sono stati mangiati poco; e che l’uomo, dopo aver chiesto aiuto, abbia rimesso a posto il ricevitore. La polizia arriva all’appartamento proprio quando lo fa anche il cameriere, Graves. L’uomo afferma che Foscatini ha ricevuto la visita di due uomini a cena la sera prima. Erano entrambi italiani; un uomo sui quaranta di nome Conte Ascanio ed un ragazzo di ventiquattro anni. Graves ha ascoltato parte della loro conversazione, sentendo anche delle minacce sussurrate. Il conte Foscatini aveva invitato i due a cena per la sera dopo e poi, inaspettatamente, ha dato a Graves la serata libera dopo essersi fatto servire del Porto. Ascanio viene ben presto arrestato ma Poirot rileva tre punti interessanti: il caffè era molto nero, il dessert non era stato quasi toccato e le tende non erano tirate. L’ambasciatore italiano dà un alibi ad Ascanio, il che fa pensare a qualche copertura diplomatica, e il conte stesso nega di conoscere Foscatini. Poirot riesce a parlare con Ascanio e lo costringe ad ammettere di avere conosciuto Foscatini, che era un ricattatore, e che era andato da lui la mattina per farsi rendere dei documenti importanti, dietro il rilascio di una grossa quantità di soldi (il ragazzo con lui era un membro dell’ambasciata). Dopo che Ascanio se ne è andato, l’investigatore comunica a Hastings l’identità dell’assassino: Graves. Il cameriere aveva origliato la conversazione e la conseguente transazione monetaria ed ha capito che Ascanio non poteva ammettere di conoscere Foscatini. L’uomo morto non aveva avuto ospiti a cena. Graves l’aveva ucciso quando erano rimasti da soli ed aveva mangiato la cena ma, troppo sazio, non è riuscito a finire il dolce. Il caffè era stato preparato per tre persone, ed è stato bevuto, ma i denti del conte Foscatini, brillanti, dimostrano che l’italiano non ha mai bevuto la bevanda. Inoltre, le tende non tirate fanno capire che Graves ha lasciato l’appartamento prima che cadesse la sera e non più tardi. Poirot espone questa teoria che Japp verifica; a quel punto il maggiordomo viene arrestato.

 

La disavventura di un nobile italiano

 

Poirot e io avevamo molti amici e conoscenti con i quali intrattenevamo rapporti informali. Tra questi bisogna annoverare il dottor Hawker, un nostro vicino di casa, medico di professione. Era abitudine dell’amabile dottore venirci a trovare ogni tanto la sera e fare due chiacchiere con Poirot, del cui genio era un ardente ammiratore. Il dottore, che era un tipo schietto e fiducioso al massimo, ammirava quelle qualità così lontane dalle proprie.

   Una sera, all’inizio di giugno, arrivò verso le otto e mezzo e si accomodò avviando una discussione sull’allegro argomento della prevalenza, nei crimini, dell’avvelenamento da arsenico. Circa un quarto d’ora dopo la porta del nostro salottino fu spalancata e una donna sconvolta irruppe nella stanza.

   «Oh, dottore, vi cercano! Una voce tremenda! Agghiacciante, davvero!»

   Nella nuova ospite riconobbi la governante del dottor Hawker, la signorina Rider. Il dottore era scapolo e abitava in una vecchia, tetra casa a qualche via di distanza dalla nostra. La signorina Rider, di solito una donna placida, era ora in uno stato che rasentava l’incoerenza.

   «Quale voce tremenda? Chi è? Che cos’è successo?»

   «Il telefono, dottore. Ho risposto e una voce ha detto: “Aiuto! Dottore… aiuto! Mi hanno ucciso!”. Poi la voce si è come allontanata e io ho chiesto: “Chi parla? Chi parla?”. In risposta ho udito solo un bisbiglio e mi è parso di capire: “Foscatine… Regent’s Court”.»

   Il dottore proruppe in un’esclamazione.

   «Il conte Foscatini! Ha un appartamento a Regent’s Court. Devo andarci subito. Cosa può essere successo?»

   «Un vostro paziente?» chiese Poirot.

   «L’ho curato qualche settimana fa per un leggero disturbo. È italiano, parla l’inglese alla perfezione. Bene, devo augurarvi buonanotte, monsieur Poirot… a meno che…» esitò.

   «Capisco quello che pensate» disse Poirot sorridendo. «Sarò felice di accompagnarvi. Hastings, correte giù a prendere un taxi.»

   Quando una persona ha particolarmente fretta i taxi non si trovano mai, ma finalmente riuscii a catturarne uno e di lì a poco correvamo in direzione di Regent’s Park. Regent’s Court era un isolato nuovo, poco lontano da St John’s Wood Road. Gli edifici erano stati costruiti da poco ed erano dotati dei più moderni congegni.

   Nell’atrio non c’era nessuno. Il dottore premette il campanello per chiamare il ragazzo dell’ascensore e quando arrivò interrogò bruscamente il giovane in uniforme.

   «Appartamento undici, conte Foscatini. Ho saputo che c’è stato un incidente.»

   Il giovane lo fissò attonito.

   «Non ne so niente. Il signor Graves, il cameriere del conte Foscatini, se n’è andato mezz’ora fa e non ha detto nulla.»

   «Il conte è solo nell’appartamento?»

   «No, signore, ha due signori a cena.»

   «Che tipi sono?» chiesi io con curiosità.

   Eravamo sull’ascensore e stavamo rapidamente salendo al secondo piano dove si trovava l’appartamento undici.

   «Non li ho visti, signore, ma mi hanno detto che sono stranieri.»

   Fece scorrere lo sportello metallico e uscimmo sul pianerottolo. Il numero undici era di fronte a noi. Il dottore suonò il campanello. Non vi fu risposta e dall’interno non proveniva alcun rumore. Il dottore tornò a suonare una, due volte: riuscivamo a sentire l’eco del campanello all’interno, ma non percepivamo il minimo segno di vita.

   «La faccenda si fa seria» borbottò il dottore, e si rivolse al giovane in uniforme.

   «C’è una chiave universale?»

   «Ce n’è una giù nell’ufficio del portiere.»

   «Allora andate a prenderla e, a questo punto, credo che fareste bene a chiamare la polizia.»

   Poirot approvò con un cenno del capo.

   L’uomo tornò di lì a poco e con lui c’era anche il direttore.

   «Volete dirmi, signori, che cosa significa tutto questo?»

   «Certo; ho ricevuto una telefonata del conte Foscatini, che affermava di essere stato aggredito e di essere morente. Vi renderete conto che non dobbiamo perdere tempo, se non è già troppo tardi.»

   Il direttore tirò fuori la chiave senza chiedere altro ed entrammo tutti nell’appartamento.

   Ci trovammo in un minuscolo vestibolo quadrato; sulla destra c’era una porta socchiusa e il direttore indicò con un cenno: «La sala da pranzo».

   Il dottor Hawker fece strada e noi lo seguimmo. Appena entrammo nella stanza, sussultai. Sul tavolo rotondo al centro c’erano i resti di un pranzo; tre sedie erano tirate indietro come se i loro occupanti si fossero appena alzati. Nell’angolo, a destra del camino, c’era una grande scrivania dietro la quale sedeva un uomo… o quello che era stato un uomo. La mano destra era ancora stretta sulla base del telefono ma lui era caduto in avanti, colpito da un tremendo colpo alla nuca. L’arma del delitto non era lontana. Una statua di marmo era stata appoggiata affrettatamente poco lontano e la base era macchiata di sangue.

   L’esame del dottore durò un minuto. «Morto stecchito. La morte dev’essere stata quasi istantanea, mi domando come sia riuscito a telefonare. Sarà meglio non toccarlo fino all’arrivo della polizia.»

   Su suggerimento dell’ispettore perquisimmo l’appartamento ma il risultato era scontato. Era improbabile che gli assassini fossero nascosti lì dato che avevano avuto tutto il tempo di andarsene.

   Tornammo in sala da pranzo. Poirot non ci aveva accompagnati nel nostro giro. Lo trovai intento a esaminare il tavolo al centro della stanza con espressione attenta. Lo raggiunsi. Il tavolo era di mogano. Al centro campeggiava un vaso con delle rose e sulla superficie lucida erano appoggiate piccole tovaglie di pizzo bianco. C’era un piatto con la frutta, ma i tre piatti da dessert non erano stati toccati. C’erano tre tazze da caffè con i fondi, due caffè neri e uno con il latte. I tre uomini avevano bevuto porto e la caraffa, mezza piena, era vicino al piatto con la frutta. Uno degli uomini aveva fumato un sigaro, gli altri due sigarette. Aperta sul tavolo c’era una scatola d’argento e tartaruga, che conteneva sigari e sigarette.

   Passai in rassegna tutti questi dati tra me, ma fui costretto ad ammettere che non facevano alcuna luce sulla situazione. Mi chiesi cosa cercasse Poirot e perché li esaminava con tanta attenzione. Poi, finalmente, glielo chiesi.

   «Mon ami,» rispose lui «vi sfugge l’aspetto essenziale. Sto cercando qualcosa che non vedo.»

   «E che cosa?»

   «Un errore… anche un piccolo errore da parte dell’assassino.»

   Raggiunse rapidamente il cucinino adiacente, diede un’occhiata e scosse il capo.

   «Monsieur,» disse rivolto al direttore «vi prego di spiegarmi che sistema usate per servire i pasti qui.»

   Il direttore si avvicinò a un piccolo sportello nella parete.

   «Questo è il passavivande» spiegò. «Sale fino alle cucine che si trovano in cima all’edificio. Si ordina attraverso questo telefono e le portate vengono mandate giù con il passavivande, una alla volta. Le stoviglie e i piatti sporchi vengono mandati di sopra allo stesso modo. Non ci si deve preoccupare per il servizio, come vedete, e nel contempo si evita la stancante necessità di pranzare sempre al ristorante.»

   Poirot annuì.

   «Dunque le stoviglie e i piatti usati questa sera sono in alto nelle cucine. Permettete che io vada di sopra?»

   «Oh, certamente, se lo desiderate! Vi accompagnerà di sopra Robert, il lift, e vi presenterà, ma temo che non troverete nulla di utile. Maneggiano centinaia di piatti e stoviglie quindi li troverete tutti ammucchiati.»

   Ma Poirot insistette e insieme salimmo a visitare le cucine e a interrogare la persona che aveva preso l’ordine dall’appartamento undici.

   «L’ordinazione è stata fatta da un menu à la carte, per tre persone» spiegò. «Minestra alla julienne, filetto di sogliola normanna, tournedos di manzo e torta di riso. A che ora? Verso le otto, direi. No, temo che ormai piatti e stoviglie siano stati lavati. Mi dispiace, pensavate alle impronte digitali, vero?»

   «Non proprio,» rispose Poirot con un sorriso enigmatico «mi interessa di più l’appetito del conte Foscatini. Ha assaggiato tutti i piatti?»

   «Sì, ma naturalmente non so dire quanto di ogni piatto lui abbia consumato. I piatti erano tutti sporchi ma vuoti, a eccezione di quello con la torta di riso. Di questa ne era rimasta una buona quantità.»

   «Ah!» esclamò Poirot, e parve soddisfatto dell’informazione.

   Mentre discendevamo di nuovo nell’appartamento osservò a voce bassa:

   «Abbiamo decisamente a che fare con un uomo metodico.»

   «Volete dire l’assassino o il conte Foscatini?»

   «Quest’ultimo era senz’altro un signore ordinato. Dopo aver implorato aiuto e annunciato la propria imminente dipartita, ha accuratamente riagganciato il ricevitore del telefono.»

   Fissai Poirot. Quelle sue parole e le sue ultime domande mi avevano dato il barlume di un’idea.

   «Sospettate il veleno?» bisbigliai. «Il colpo alla nuca era una finta?»

   Poirot si limitò a sorridere.

   Rientrati nell’appartamento trovammo l’ispettore di polizia accompagnato da due agenti. Parve risentito della nostra comparsa, ma Poirot lo placò facendogli il nome del nostro amico di Scotland Yard, l’ispettore Japp, e a quel punto, anche se non molto di buon grado, lui ci concesse di restare. Fu una fortuna che fossimo lì perché dopo cinque minuti un uomo agitato di mezza età si precipitò nella stanza, apparentemente in preda al dolore e allo sconvolgimento.

   Si trattava di Graves, il cameriere-maggiordomo del defunto conte Foscatini, e la storia che aveva da raccontarci era sensazionale.

   La mattina precedente due signori erano venuti per vedere il suo padrone. Erano italiani e il più anziano dei due, un uomo sulla quarantina, aveva detto di chiamarsi signor Ascanio. Il più giovane era sui venticinque anni ed era ben vestito.

   Il conte Foscatini era evidentemente preparato a ricevere quella visita perché aveva mandato subito Graves a fare una banale commissione. A questo punto Graves si interruppe ed esitò. Tuttavia finì per ammettere che, incuriositosi da quella visita, non aveva obbedito immediatamente, ma si era attardato nel tentativo di sentire quello che erano venuti a fare quei due visitatori.

   La conversazione si era svolta in un tono così basso che non era riuscito nel proprio intento, ma aveva intuito il senso della discussione abbastanza da poter appurare che stavano parlando di argomenti finanziari e che alla base c’era una minaccia. La discussione non era molto amichevole e alla fine il conte Foscatini aveva alzato un po’ la voce, cosicché Graves aveva potuto udire chiaramente le seguenti parole:

   «Ora non ho tempo, signori. Se volete cenare con me domani sera alle otto, riprenderemo questa discussione.»

   Nel timore di essere scoperto mentre origliava, Graves si era affrettato ad andare a fare la commissione che il padrone gli aveva ordinato. La sera dopo i due uomini erano arrivati puntualmente alle otto. Durante la cena avevano parlato di argomenti generali: la politica, il clima, il mondo del teatro. Quando Graves aveva messo la caraffa di porto sul tavolo e servito il caffè, il conte gli aveva detto che poteva prendersi una serata di libertà.

   «Era solito farlo quando aveva ospiti?» chiese l’ispettore.

   «No, signore. Questo mi ha fatto pensare che dovesse trattare con quei signori una faccenda piuttosto insolita.»

   Così finiva la storia di Graves. Era uscito verso le otto e trenta e aveva incontrato un amico con il quale era andato alla Metropolitan Music Hall, in Edgware Road.

   Nessuno aveva visto uscire i due uomini, ma l’ora del delitto era stata fissata abbastanza chiaramente alle otto e quarantasette. Un piccolo orologio sulla scrivania era stato buttato per terra dal braccio di Foscatini e si era fermato su quell’ora, il che concordava con l’ora della telefonata ricevuta dalla signorina Rider.

   Il medico legale aveva esaminato il cadavere, che ora era disteso sul divano. Per la prima volta vidi la faccia del conte: la pelle olivastra, il naso lungo, i folti baffi neri e le labbra rosse e piene, che scoprivano i denti di un bianco abbacinante. Nel complesso non era un volto piacevole.

   «Bene» disse l’ispettore richiudendo il blocco di appunti. «Il caso sembra abbastanza chiaro; l’unica difficoltà sarà mettere le mani su questo signor Ascanio. Chissà se c’è il suo indirizzo nell’agenda che il morto ha in tasca?»

   Come aveva detto Poirot, il defunto conte Foscatini era un uomo molto ordinato. In una calligrafia minuta e precisa si leggeva: “Paolo Ascanio, Groswenor Hotel”.

   L’ispettore si diede da fare al telefono, poi si voltò verso di noi con un sorriso.

   «Appena in tempo. Il nostro amico stava per prendere il treno in coincidenza con la nave per il continente. Bene, signori, qui non possiamo fare altro. È un brutto affare, però abbastanza chiaro. Una di quelle vendette italiane, probabilmente.»

   Ci congedò soddisfatto e noi scendemmo le scale. Il dottor Hawker era agitatissimo.

   «Sembra l’inizio di un romanzo, vero? Davvero eccitante. Se uno lo leggesse non ci crederebbe.»Poirot non disse nulla. Era molto sovrappensiero e per tutta la sera aveva a stento aperto bocca.

   «Che cosa dice il grande investigatore, eh?» disse il dottore dandogli una manata sulla schiena. «Questa volta non c’è nulla su cui fare lavorare le vostre cellule grigie.»

   «Credete?»

   «Che cosa ci potrebbe essere?»

   «Be’, per esempio c’è la finestra.»

   «La finestra? Ma era chiusa, nessuno sarebbe potuto entrare o uscire da lì. Ci ho fatto caso.»

   «E come mai ci avete fatto caso?»

   Il dottore parve perplesso e Poirot si affrettò a spiegare.

   «Perché le tende non erano tirate: un po’ strano. E poi c’è anche la storia del caffè. Un caffè molto nero.»

   «E con questo?»

   «Molto nero» ripeté Poirot. «Oltre a questo, vi ricordo che è stata mangiata pochissima torta di riso, e con questo che cosa abbiamo?»

   «Sono discorsi senza senso,» rise il dottore «mi state prendendo in giro.»

   «Non prendo mai in giro. Hastings sa che sono serissimo.»

   «Tuttavia non so a che cosa state mirando» gli confessai. «Non sospetterete del cameriere, vero? Potrebbe aver fatto parte della banda e aver messo qualcosa nel caffè. Suppongo che controlleranno il suo alibi.»

   «Indubbiamente, amico mio, ma è l’alibi del signor Ascanio che mi interessa.»

   «Pensate che abbia un alibi?»

   «È proprio questo che mi preoccupa, ma sono sicuro che presto verremo illuminati su questo punto.»

   Il «Daily Newsmonger» ci consentì di apprendere gli eventi successivi.

   Il signor Ascanio fu arrestato e accusato dell’omicidio del conte Foscatini. Negò di conoscere il conte e dichiarò di non essere mai stato nei pressi di Regent’s Court né la sera del delitto né il mattino precedente. L’uomo più giovane era scomparso del tutto. Il signor Ascanio era arrivato da solo dal continente al Groswenor Hotel due giorni prima del delitto. Ogni tentativo di rintracciare il secondo uomo era fallito.

   Tuttavia Ascanio non fu condannato perché l’ambasciatore italiano si presentò in persona a testimoniare alla polizia che Ascanio era stato con lui all’ambasciata dalle otto alle nove di quella sera. Il prigioniero era stato liberato. Naturalmente molta gente aveva pensato che si trattasse di un delitto politico e che fosse stato deliberatamente messo a tacere.

   Poirot si era interessato moltissimo a tutto questo, tuttavia rimasi piuttosto stupito quando una mattina, all’improvviso, mi comunicò che alle undici aspettava una visita e che il visitatore era il signor Ascanio in persona.

   «Desidera consultarvi?»

   «Du tout, Hastings, sono io che desidero consultarlo.»

   «Su che cosa?»

   «Sul delitto di Regent’s Court.»

   «Volete dimostrare che è stato lui?»

   «Non si può processare due volte un uomo per lo stesso omicidio, Hastings, sforzatevi di avere un po’ di buonsenso. Ah, ecco il nostro amico che suona il campanello.»

   Pochi minuti dopo il signor Ascanio fu fatto entrare: un ometto magro con un’espressione misteriosa e furtiva negli occhi. Rimase in piedi, lanciando occhiate sospettose prima all’uno e poi all’altro.

   «Monsieur Poirot?»

   Il mio piccolo amico si batté delicatamente il petto.

   «Accomodatevi, signore. Avete ricevuto il mio biglietto? Sono deciso ad arrivare in fondo a questo mistero. In piccola parte, voi potete aiutarmi. Cominciamo. Voi… in compagnia di un amico, avete fatto visita al defunto conte Foscatini il mattino di martedì nove…»

   L’italiano fece un gesto collerico.

   «Non ho fatto nulla del genere. Ho giurato in tribunale…»

   «Précisement, e ho idea che abbiate giurato il falso.»

 «Mi state minacciando? Bah! Non ho nulla da temere da voi, sono stato assolto.»

   «Esattamente. E dato che non sono un imbecille, non vi minaccio con la forca ma con la pubblicità. Pubblicità! Vedo che la parola non vi piace, e lo pensavo. Vedete, le mie ideuzze per me sono molto preziose. Suvvia, signore, la vostra unica possibilità è quella di essere schietto con me. Non chiedo di sapere quali fatti privati vi hanno portato in Inghilterra, ma so che siete venuto appositamente per vedere il conte Foscatini.»

  «Non era conte» grugnì l’italiano.

   «Ho già notato che il suo nome non compare sull’Almanacco del Gotha. Non preoccupatevi, il titolo di conte viene usato spesso nella professione del ricattatore.»

   «Tanto vale io sia sincero, suppongo. Sembra che voi la sappiate lunga.»

   «Ho usato le mie cellule grigie piuttosto vantaggiosamente. Dunque, signor Ascanio, avete fatto visita al defunto martedì mattina, vero?»

   «Sì, ma non ci sono più tornato la sera successiva, non ce n’era bisogno. Vi dirò tutto. Alcune informazioni riguardanti un personaggio altolocato italiano erano entrate in possesso di questo farabutto che ha chiesto una grossa cifra in cambio dei documenti. Sono venuto in Inghilterra per sistemare la faccenda, mi sono presentato da lui previo appuntamento quella mattina. Con me c’era un giovane segretario dell’ambasciata. Il conte è stato più ragionevole di quanto avessi sperato, anche se la somma era piuttosto notevole.»

   «Scusatemi, come è stata pagata?»

   «In banconote italiane relativamente di piccolo taglio. Gli ho dato il denaro lì per lì e lui mi ha restituito i documenti incriminanti. Non l’ho mai più rivisto.»

   «Perché quando vi hanno arrestato non avete detto queste cose?»

   «Nella mia delicata posizione sono stato costretto a negare qualunque collegamento con quell’individuo.»

   «E allora come spiegate gli eventi della sera?»

   «Posso solo pensare che qualcuno mi abbia deliberatamente impersonato. A quanto ho saputo nell’appartamento non è stato trovato denaro.»

   Poirot lo guardò e scosse la testa.

   «Strano» mormorò. «Tutti abbiamo le piccole cellule grigie e pochi sanno come usarle. Arrivederci, signor Ascanio; credo alla vostra storia, è proprio come avevo immaginato, ma dovevo esserne sicuro.»

   Dopo aver accompagnato il suo ospite alla porta, Poirot tornò alla sua poltrona e mi sorrise.

   «Sentiamo che cosa ne pensa monsieur le capitaine Hastings.»

   «Suppongo che Ascanio abbia ragione, qualcuno deve averlo impersonato.»

   «Voi non userete mai, mai il cervello che il buon Dio vi ha dato. Cercate di ricordare qualche parola che ho pronunciato quando abbiamo lasciato l’appartamento quella sera: ho accennato al fatto che le tende della finestra non erano state tirate. Siamo in giugno, alle otto c’è ancora luce. La luce comincia a calare verso le otto e mezzo. Ça vous dit quelque chose? Ho l’impressione che un giorno ci arriverete. Ora continuiamo. Come ho detto, il caffè era molto nero. I denti del conte Foscatini erano di un bianco meraviglioso. Il caffè macchia i denti. Da ciò deduciamo che il conte Foscatini non ha bevuto caffè, eppure in tutte e tre le tazze c’era del caffè. Perché mai qualcuno ci ha voluto far credere che il conte aveva bevuto il caffè quando non l’aveva fatto?»

   Scossi la testa, attonito.

   «Via, vi aiuterò. Quali prove abbiamo che Ascanio e il suo amico, o due individui che si facevano passare per loro, quella sera siano andati effettivamente nell’appartamento? Nessuno li ha visti entrare, nessuno li ha visti uscire. Abbiamo solo la testimonianza di un’unica persona e di un mucchio di oggetti inanimati.»

   «Che volete dire?»

   «Mi riferisco ai coltelli, alle forchette e ai piatti vuoti. Ah, è stata un’idea geniale! Graves è un ladro e un farabutto, ma è un uomo metodico! Sente una parte della conversazione della mattina, quanto basta per capire che Ascanio si trova in una posizione precaria e che gli sarà difficile difendersi. La sera successiva, verso le otto, dice al suo padrone che è desiderato al telefono. Foscatini si siede, tende la mano per prendere il ricevitore e alle sue spalle Graves lo colpisce con una statuetta di marmo. Poi corre al telefono interno e ordina la cena per tre! Quando arriva il cibo prepara la tavola, sporca piatti, forchette, coltelli eccetera. Ma deve liberarsi anche delle portate. Non è solo un uomo di cervello, ha anche uno stomaco grande e capace! Ma dopo aver mangiato tre tournedos, la torta di riso è troppo per lui. Fuma persino un sigaro e due sigarette per completare l’inganno. Oh, è stata una cosa davvero magnifica! Poi, dopo aver spostato le lancette dell’orologio sulle otto e quarantasette, lo spacca e lo ferma. Una sola cosa non fa… non tira le tende. Ma se ci fosse stata una vera cena le tende sarebbero state tirate non appena l’oscurità fosse calata. Poi si affretta a uscire dicendo al giovane dell’ascensore, nel passare, che il conte ha ospiti. Si affretta a raggiungere una cabina telefonica in modo che la chiamata avvenga il più vicino possibile alle otto e quarantasette e telefona al dottore simulando il grido del suo padrone moribondo. La sua idea ha tanto successo che nessuno si preoccupa di appurare se a quell’ora dall’appartamento è stata fatta una telefonata.»

   «Tranne Hercule Poirot» dissi in tono sarcastico.

   «Nemmeno Hercule Poirot» disse il mio amico con un sorriso. «Sto per informarmi ora. Prima dovevo dimostrarvi quale era il mio punto di vista, ma vedrete, sono certo di avere ragione. E poi Japp, al quale ho già fatto un vago accenno, potrà arrestare il rispettabile Graves. Mi chiedo quanto denaro abbia già speso.»

Poirot aveva ragione, ha sempre ragione, maledizione!

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