”Fin dalla sua comparsa sulla Terra l’uomo ha cercato di non essere solo. Per Aristotele è un animale sociale e politico, destinato alla relazione. Il libro biblico avvertiva: guai a chi è solo perché se cade non ha chi lo sollevi
Il mestiere di vivere diventa ogni giorno più complicato. Ci vorrebbero la penna e la sensibilità di un Cesare Pavese per descrivere il mondo inumano in cui siamo precipitati. Un percorso lungo, accidentato, con accelerazioni e frenate. Natura non facit saltus, ma la cultura, la folle civilizzazione dell’homo sapiens il salto lo ha fatto, eccome. La corsa è più veloce, al tempo del virus: ora impera il “distanziamento sociale”, la pratica virtuosa di allontanarci dagli altri esseri umani. Talvolta, ragionando sulle continue, infinite novità del progresso obbligatorio, pensiamo di essere apocalittici, di guardare alle cose attraverso lenti deformate, con un pessimismo infondato o pregiudiziale. In fin dei conti, l’uomo è un animale incompleto, ma straordinariamente capace di adattamento.(ndr1)
Ne ha viste di peggiori. Probabilmente è così, ma se mettiamo a confronto l’esperienza di una vita ormai lunga, non riusciamo a sottrarci all’impressione della decadenza, del degrado, di una involuzione ammantata di retorica tecnologica, ottimismo da Baci Perugina e, soprattutto, celata dietro una disumanizzazione ogni giorno più chiara, almeno ai nostri occhi. Distanziamento sociale, dicevamo. E se fosse il sintagma politicamente corretto, eufemistico, per imporre nuove solitudini, prodromi di una post umanità tecnicizzata, isolata, una foresta feroce in cui davvero l’uomo è lupo all’altro uomo, tanto più che nemmeno più lo conosce e riconosce?
Fin dalla sua comparsa sul pianeta Terra, l’uomo ha cercato di non essere solo. Per Aristotele, è un animale sociale e politico, destinato alla relazione. Cesare Pavese, nel diario tormentoso Il Mestiere di vivere(L.C.), scriveva: “tutto il problema della vita è dunque questo, come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri”. Vecchiume: il XXI secolo prescrive il contrario, allontanarsi dagli altri, con il perfetto alibi del contagio, per non comunicare se non con uno schermo e attraverso di esso. Solitudine, incomunicabilità, ma senza profondità o riflessione, tanto meno riservatezza, silenzio: le pareti, i muri, restano, ma diventano di plexiglas. Ci affidiamo alla chimica, al vetro sintetico, il polimetilmetacrilato destinato non più a modellare accessori, ma a diventare il divisorio della distanziata futura umanità. A partire, dicono, dalle spiagge.(T.P.I.)
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’eb1a63′ bcolor=’3′]Al tempo del coronavirus? Il presente è già distopia, almeno per chi si ostina a credere all’antiquata umanità![/stextbox]
Ci adatteremo, senza dubbio: la megamacchina è troppo potente per ascoltare le obiezioni passatiste. Soli, divisi da innumerevoli paratie – quella di plexiglas è solo l’ultima – ma trasparenti, nudi, a disposizione del Potere. Il totalitarismo della trasparenza abolisce il confine tra pubblico e privato, e rende impossibile sfuggire al Panopticon digitale, frontiera definitiva del controllo sociale. Distanti, resi atomi che ruotano attorno agli schermi e alle tastiere, i nuovi media universali di comunicazione, siamo più soli che mai, in un mondo sempre più arcano, incomprensibile, con il quale possiamo interagire esclusivamente attraverso codici, password e il magico clic dell’invio. Segni senza significato, dove il mondo e le cose si assottigliano sino a divenire pura superficie. Un universo ridotto a schermo, touchscreen, del tutto privo di profondità e sempre meno illuminato dalla presenza dell’Altro. C’è un tempo per tutto, rivela l’Ecclesiaste. Il nostro è quello del distanziamento e della solitudine. Il libro biblico avvertiva: “guai a chi è solo, perché se cade non ha chi lo sollevi” (Eccl. IV, 10).
Residui del trapassato: l’aiuto esiste, è l’assistente digitale online. Alexa, Cortana, Siri, già popolano i nostri computer e apparati digitali, si insinuano, a volte di nascosto, a volte apertamente nei ritmi della nostra vita quotidiana. Sono il nuovo “prossimo” della transumanità distanziata. Senza di essi – ma forse dovremmo usare il pronome personale “loro” – non potremo accedere a beni, servizi, informazioni. Il presente è già distopia, almeno per chi si ostina a credere all’antiquata umanità. In chiesa, abbiamo visto cartelli che invitano non solo alla distanza tra i fedeli (fratelli, ma non troppo…), ma addirittura ingiungono di non inginocchiarsi.
L’Altissimo non merita tanto, la tecnologia probabilmente sì. Al tempo del coronavirus, sono chiuse le biglietterie delle stazioni ferroviarie: il fai da te è un obbligo.
Arrangiati, se non sei capace di fare tutto online, pagare con carta di credito, o utilizzare l’apposita macchinetta, previa igienizzazione delle mani e utilizzo di
guanti monouso. Lo stesso in banca: bancomat a parte, puoi farti il bonifico da te. Nessun rapporto umano, nessuna relazione interpersonale: sono sufficienti le dita, le immancabili card e la capacità di comunicare come vuole l’apparato tecnico, il nuovo “prossimo tuo”. Il percorso è obbligato, domande e risposte stanno nelle istruzioni. Tutto online, per un’umanità distanziata, ma connessa h.24. Che meraviglia: tu lavori al posto loro e paghi, i soliti gestiscono da remoto i tuoi dati, il tuo denaro, ti profilano, sorvegliano e sanno tutto di te. Incidentalmente, si possono disfare di un gran numero di figure professionali divenute inutili. L’esperimento avanza nella scuola: basta maestri, pedagoghi e professori, la paideia si realizza davanti allo schermo.
Menù con le domande frequenti (FAQ), istruzioni, immagini, audio e video. Si può, si deve “interagire”, verbo passepartout postmoderno; è d’obbligo essere multimediali. Il telelavoro si diffonde a macchia d’olio. Comodo, per molte attività, fare tutto da casa. Ma la distanziata post umanità privata di contatti interpersonali, senza colleghi, non vive più immersa nel mondo, i suoi interessi non sono più quelli degli altri, crolla la dimensione comunitaria, si dissolve quella collettiva. Solitudine anche nel lavoro; ha qualcosa da obiettare il sindacato, non teme un nuovo drammatico salto nei rapporti di forza tra un numero infinito di atomi, di Io minimi e chi possiede le piattaforme, chi impartisce ordini da remoto, chi può vedere e controllare tutto, minuto per minuto, oltre il plexiglas e al di là dello schermo? Nel lavoro, nello studio, nella vita, lo scambio, la relazione, è tutto, anche quando diventa conflitto.
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Lo sapeva Eraclito. “Pòlemos(ndr2) è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.” In quale schieramento ci troviamo, o Eraclito vale soltanto per il celeberrimo Panta rei, mediocre giustificazione del progresso lineare, anziché presa d’atto della drammatica caducità del tutto? L’umanità distanziata, perennemente connessa, terminale di se stessa, con gli occhi fissi sullo schermo e le dita che corrono sulla tastiera o sull’icona, è ancora sapiens, o si è ridotta ad animale ammaestrato? Interagire, a breve, con robot, come già facciamo con apparati senza vita ma dall’immenso potere, ci cambierà in modo sostanziale, ci renderà una specie diversa. Saremo migliori, più felici, più saggi? L’esperienza di questi anni, l’accelerazione degli ultimi mesi sembra escluderlo.
Ma, bisogna tacere e andare “avanti”, come i fanti il 24 maggio. L’animale politico diventa lupo solitario, più acido, più complessato, più litigioso e triste, impaurito, sospettoso. Chissà se andrà meglio con il cyberuomo(L.C.) che si ibriderà con la macchina. E “io”, sarò ancora mio, parte di un apparato tecnico, inevitabilmente comandato a distanza? Domande, inutili, probabilmente da scacciare, poiché l’uomo ha bisogno di essere superficiale, nutrirsi di facili certezze, allontanare ciò che inquieta per vivere con un minimo di serenità. La dignità umana è sin troppo ferita per chiederci se c’è ancora posto per l’anziano, il malato, il debole, il povero, quello che “non ce la fa “.
Nelle biblioteche virtuali, libri virtuali, seppelliti tra milioni di files; nella vita virtuale, pochi contatti resteranno reali. Dematerializzare, è la parola d’ordine. Forse salveremo qualche lembo della foresta amazzonica, ma l’uomo che stanno plasmando come creta, per sopravvivere dovrà rinunciare al pensiero critico, a porsi domande. Per reggere, dovrà essere trattato con droghe chimiche, il soma proposto da Aldous Huxley nel Mondo Nuovo. Quale maschera dovrà indossare per sopportare la vista del suo prossimo e il suo stesso volto? Davanti all’apparato tecnico, parlerà a monosillabi con l’assistente virtuale, forse finirà per amare un robot in forma umana. Ci sembra che se ne parli troppo poco, per timore o più probabilmente per prescrizione dall’alto. Distanziati, non sappiamo se sia emerso qualche segno di allarme per la prescrizione enfatica del distacco sociale. Temiamo che pochi s’inquietino per tale limitazione della libertà naturale, al di là della prudenza nella fase di allarme.
La distanza, tuttavia, è per l’uomo una categoria antropologica di una profondità costitutiva, essenziale. L’allarme che lanciamo riguarda il sospetto che la prescrizione del distacco sia parte di un processo di lungo periodo, il cui obiettivo è nelle promesse del transumanesimo. L’uomo è un essere che parla, comunica, ma è anche “faber”, costruttore. Fabbrichiamo le parole, così come comunichiamo con gli oggetti significativi di cui è composta la vita. La realizzazione graduale, l’invenzione paziente della capacità di comunicazione e di cooperazione, grazie alla produzione e all’uso delle cose e delle parole, ha significato una profonda metamorfosi nel concetto di distanza.
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Lentamente, grazie alla creazione e l’uso di cose e parole, abbiamo costruito il nostro potenziale cooperativo e comunicativo. Impegnati nell’opera comune di sviluppare e utilizzare un mondo articolato di oggetti e merci, abbiamo dovuto tener conto della presenza e della prossimità degli altri. Per contare su di loro, anche quando non erano direttamente accanto a noi, poiché ciò che stavamo realizzando aveva senso solo in riferimento agli assenti. Dovevamo tener conto dell’Altro, perché il nostro fare si articolava nel suo. La fiducia, fondamento della speranza che gli altri sarebbero stati parte del nostro agire, incoraggiava a sua volta il compimento responsabile delle nostre azioni.
Coinvolti in strutture di interazione che trascendevano l’opera individuale presa separatamente, potevamo essere distanti sino a perderci di vista, ma contavamo gli uni sugli altri, che ci apparivano attraverso le cose in cui eravamo impegnati e le parole con cui le designavamo. Una mediazione inevitabile in qualunque incontro umano. Poi giunse il momento in cui il processo costitutivo di quella forma di cooperazione si proiettò dagli antenati ai discendenti, colmando il divario temporale tra vivi e morti. Da tempo, tuttavia, l’attività di produzione di serie, industriale, con totale divisione dei compiti, ha troncato quella distanza intima, quel canale fatto di considerazione degli assenti che dava senso ai nostri atti.
La mercificazione e l’industria moderna, ampliando le distanze, frammentando le operazioni e isolandoci in nome di un programma astratto di produzione di valori di scambio, ha interrotto un’antica, profonda integrazione comunitaria. Una nuova “cecità morale”(L.C.) (Z. Bauman) è sorta dalla distanza che fa perdere di vista l’assente, rompe il nostro impegno e distrugge la speranza. Gli operai di una fabbrica di armi ricevono con gioia una nuova commessa, poiché garantirà lavoro, e intanto si rammaricano sinceramente per i morti di una guerra lontana. Celebriamo la caduta del prezzo delle materie prime, ma deploriamo la carestia e la fame prodotta da qualche parte nel mondo. Chi manovra le bombe davanti a uno schermo si congratula come in un videogioco per il successo del gesto meccanico che è morte e distruzione per l’Altro, distante, sconosciuto.
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Temiamo che la distanza sociale si estenda in modalità di vita e lavoro che isolano e rendono egoisti, indifferenti, forme in cui il reale viene nascosto, rinchiuso, sostituito dalla sua rappresentazione virtuale. Il lavoro sarà risolto in prestazioni di unità incomunicabili, chiuse, la cui articolazione e coordinamento a distanza non riconoscerà altro orizzonte sociale che lo schermo. Una relazione malata, assai diversa dalla parola viva e dalle cose reali, che ci avvicina solo in forma di fantasmi. Riaffiora un pensiero di Gunther Anders(1) ne L’uomo è antiquato. “Quando il lontano si avvicina troppo, il vicino si allontana e sparisce. Quando il fantasma si fa reale, il reale si trasforma in fantasma.”
Ignoriamo ancora le conseguenze del veloce trasbordo verso il distacco. Quando potremo contemplarne gli effetti, nel nostro posto di lavoro, nell’atto del consumo, nelle relazioni personali, disarticolati, quasi disincarnati, forse smetteremo di sentirci reciprocamente presenti. A distanza, in lontananza. Rari nantes in gurgite vasto, rari nuotatori nel vasto gorgo: la drammatica condizione dei compagni di Enea dopo il naufragio provocato dalla dea Giunone. Nel mare in tempesta, soli, distanti, dispersi tra le onde e il fasciame di navi affondate.
Note:
(1) Günther Anders, pseudonimo di Günther Stern (Breslavia, 12 luglio 1902 – Vienna, 17 dicembre 1992), è stato un filosofo e scrittore tedesco. Figlio dell’illustre psicologo Wilhelm Stern, ricevette una solida formazione umanistica. Assimilato come ebreo tedesco, studiò sotto Martin Heidegger e Edmund Husserl, completando con quest’ultimo la sua tesi in filosofia nel 1923. Nel 1929 tentò di ottenere l’abilitazione alla docenza presso l’Università di Francoforte sul Meno, presso Paul Tillich, ma fallì, anche per le pressioni esercitate su quest’ultimo da parte di Adorno, il quale non aveva gradito le tesi di Anders sulle “situazioni musicali”. Lo pseudonimo Anders nacque da un invito del suo editore di Berlino di cambiare il suo cognome, Stern, in quanto era assai comune tra gli scrittori in Germania e gli suggerì “qualcosa di diverso” (etwas anders in tedesco). Anders prese alla lettera il suggerimento e si chiamò “diverso”. Sposò nel 1929 la filosofa Hannah Arendt, da cui avrebbe divorziato nel 1937 perché il pessimismo di Anders era “difficile da sopportare”, come lei confessò in seguito. L’avvento del nazismo in Germania, nel 1933, lo costrinse presto all’esilio, dapprima a Parigi, poi negli Stati Uniti d’America, a New York e a Los Angeles, dove si dedicò a svariati lavori manuali per mantenersi; di lì assistette alla crisi in Europa e alla catastrofe della Seconda guerra mondiale, ma anche alla progressiva militarizzazione che, dopo il conflitto, diede il via alla guerra fredda, costruita sull’equilibrio del terrore atomico.
Fonte
Libri Citati
- Il mestiere di vivere. Diario (1935-1950)
- Cesare Pavese
- Editore: Einaudi
- Collana: Einaudi tascabili. Scrittori
- Anno edizione: 2014
- Formato: Tascabile
- In commercio dal: 22 aprile 2014
- Pagine: 574 p.
- EAN: 9788806221423 [btn btnlink=”https://www.ibs.it/mestiere-di-vivere-diario-1935-libro-cesare-pavese/e/9788806221423″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 15,20[/btn]
Descrizione
Iniziato il 6 ottobre 1935 durante i giorni del confino politico, “Il mestiere di vivere” accompagna Cesare Pavese fino al 18 agosto 1950, nove giorni prima della sua morte, e diventa a poco a poco il luogo cui affidare i pensieri sul proprio mondo di scrittore e di uomo e, soprattutto, le confessioni ultime su quei drammi intimi che laceravano la sua esistenza. Amaro, disperato, violento, ironico, raramente sereno, Pavese consegna al lettore una meditazione sulla vita, sui sogni, sui ricordi e sull’arte condotta con rigore intellettuale e morale; e allo stesso tempo, pagina dopo pagina, testimonia con lucidità l’evoluzione di un personale mestiere di vivere. In appendice “Frammenti della mia vita trascorsa”, “Pensieri cassati”, “In sogno”. Completano il volume un ampio apparato di note, la cronologia della vita e delle opere, la bibliografia ragionata e l’antologia della critica.
- Cyberuomo.
- Dall’intelligenza artificiale all’ibrido uomo-macchina.
- L’alba del transumanesimo e il tramonto dell’umanità
- Enrica Perucchietti
- Editore: Arianna Editrice
- Collana: Un’altra storia
- Anno edizione: 2019
- In commercio dal: 3 aprile 2019
- Pagine: 256 p., Brossura
- EAN: 9788865881989 [btn btnlink=”https://www.ibs.it/cyberuomo-dall-intelligenza-artificiale-all-libro-enrica-perucchietti/e/9788865881989″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 15,68[/btn]
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Intelligenza artificiale, chip sottocutanei, clonazione, tecnosesso, trasferimento della mente, supersoldati. Intelligenza artificiale, chip sottocutanei, clonazione, tecnosesso, trasferimento della mente, supersoldati. Tutto ciò sembrerebbe fantascienza, eppure si tratta delle più moderne innovazioni nel campo della scienza e della tecnologia. Lo scopo? Potenziare la natura umana, ibridare l’uomo con le macchine e creare un individuo geneticamente modificato totalmente artificiale e privo di legami con il mondo naturale. Ma qual è il vero scopo di queste ricerche? Cosa comporta, per l’uomo, questa rivoluzione antropologica? La tecnologia è diventata uno strumento per traghettare l’umanità verso un orizzonte distopico? Conoscere le ricerche e gli obiettivi nel campo del post-umano può aiutarci a fermare questa deriva prima che siano le macchine a ribellarsi ai propri inventori. Siamo sull’orlo di una rivoluzione antropologica che intende snaturare l’Uomo della propria umanità, per renderlo sempre simile a una “macchina” e al contempo più manipolabile e controllabile. Dal darwinismo sociale al transumanesimo, la scienza è diventata uno strumento per traghettare l’umanità verso un orizzonte distopico. È in gioco la nostra sopravvivenza: conoscere le ricerche e gli obiettivi nel campo del post-umano può aiutarci a fermare questa deriva prima che siano le macchine a ribellarsi ai propri inventori, come nei peggiori incubi. I CONTENUTI EXTRA DEL LIBRO: VIDEO DI APPROFONDIMENTO CON L’AUTRICE Perché un saggio sul transumanesimo Come Hollywood ci sta abituando alle ricerche nel campo del post-umano I microchip sono realtà e vanno di moda Gemelline cinesi con DNA modificato come i superumani di Hawking DOCUMENTI PDF Stiamo vivendo in una simulazione computerizzata? Il cibo del futuro: insetti e carne artificiale La ricerca della longevità: dall’alchimia al mind uploading …E TANTO ALTRO!
- Cecità morale. La perdita di sensibilità nella modernità liquida
- Zygmunt Bauman,Leonidas Donskis
- Traduttore: Marco Cupellaro
- Editore: Laterza
- Collana: I Robinson. Letture
- Anno edizione: 2019
- In commercio dal: 2 maggio 2019
- Pagine: 271 p., Brossura
- EAN: 9788858116982. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/cecita-morale-perdita-di-sensibilita-libro-zygmunt-bauman-leonidas-donskis/e/9788858116982″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 17,10[/btn]
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Quando il dolore morale perde la salutare funzione di avvertimento, di allarme e di spinta ad aiutare il nostro simile, inizia il tempo della cecità morale. La cultura consumistica trasforma qualsiasi negozio o agenzia di servizi in una farmacia dove rifornirsi di tranquillanti e analgesici per attenuare o placare dolori che in questo caso non sono fisici ma morali. Man mano che la negligenza morale si estende e si intensifica, aumenta a dismisura la domanda di antidolorifici e il ricorso a tranquillanti morali diventa assuefazione. Il risultato è che l’insensibilità morale artificialmente indotta tende a diventare compulsiva, una sorta di ‘seconda natura’. Il dolore morale viene soffocato prima che diventi davvero fastidioso e preoccupante, e la trama dei legami umani, intessuta di morale, si fa sempre più fragile e delicata, fino a lacerarsi. I cittadini vengono addestrati a cercare sui mercati, nel consumo, la salvezza dai propri guai, la soluzione ai propri problemi, e la politica si trova (anzi è pungolata, spinta, in ultima analisi costretta) a interpellare i propri governati
- L’ uomo è antiquato. Vol. 1: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale.
- Günther Anders
- Traduttore: L. Dallapiccola
- Editore: Bollati Boringhieri
- Collana: Universale Bollati Boringhieri
- Anno edizione: 2007
- In commercio dal: 31 ottobre 2007
- Pagine: 322 p., Brossura
- EAN: 9788833918266 [btn btnlink=”https://www.ibs.it/uomo-antiquato-vol-1-considerazioni-libro-gunther-anders/e/9788833918266″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 20,90[/btn]
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In questo libro del 1956, Günther Anders muove dalla diagnosi della “vergogna prometeica”, cioè dalla diagnosi della subalternità dell’uomo, novello Prometeo, al mondo delle macchine da lui stesso create, per affrontare il tremendo paradosso cui la bomba atomica ha posto di fronte l’umanità, costringendola fra angoscia e soggezione. La vergogna prometeica è legata anche a un senso di “dislivello”, di non sincronicità, tra l’uomo e i suoi prodotti meccanici che, sempre più nuovi ed efficienti, lo oltrepassano, facendo sì che egli si senta “antiquato”. Oltre che perfetta la macchina è ripetibile, standardizzata, riproducibile in esemplari sempre identici; quindi possiede una specie di eternità che all’individuo umano è negata. Di qui, una rivalità, una impari gara dell’uomo, una inversione dei mezzi con i fini, di cui Anders analizza con grande anticipazione tutta la portata. In particolare, là dove tratta delle tecniche di persuasione, soprattutto televisive e radiofoniche, che ci assediano con immagini-fantasma, irreali, di fronte alle quali l’individuo diventa passivo, maniaco, incapace di pensare e comportarsi liberamente.
(ndr1) L’uomo non ha istinti, e ciò lo distingue dagli animali. Mentre l’animale quando nasce sa già cosa deve fare, l’essere umano lo deve apprendere. Questo ha due conseguenze: la prima è che l’umano diventa autosufficiente solo con estremo ritardo se comparato agli altri animali, la seconda è che spetta alla società completare l’opera di crescita dell’individuo, fornendogli le conoscenze che innate non ha. Detto altrimenti, ogni uomo ha bisogno dell’educazione, processo che vien posto in essere sia dalla famiglia sia dalla società. Non avendo istinti l’uomo apprende dalla propria cultura come deve reagire di fronte alle varie situazioni, cultura che si acquisisce in quanto essere sociale. La propria famiglia, il suo cerchio di amicizie, influenzeranno il suo agire e lo faranno soprattutto le istituzioni. Che cos’è un istinto? “È la rigida risposta ad uno stimolo“. Ogni animale reagisce d’istinto ad ogni fatto, al contrario dell’uomo che reagisce in modo differente in base agli insegnamenti ricevuti. È l’aggettivo “rigido” che fa la differenza tra l’uomo e l’animale; ogni animale reagisce sempre nello stesso modo di fronte allo stimolo, al contrario dell’uomo che grazie all’apprendimento può variare questa risposta. Neppure l’istinto sessuale è tanto istintivo nell’uomo, altrimenti non si comprenderebbe che necessità vi è nell’usare i tacchi a spillo per attivarlo in certi individui quando in altre aree del pianeta, o nei secoli precedenti, anche senza la presenza di questo accessorio l’eccitazione si concretizzava egregiamente. Lo stesso Sigmund Freud ci dirà che l’uomo può anche spostare l’energia sessuale utilizzandola, anziché per concludere un atto fisico, per produrre ad esempio un’opera d’arte. Freud chiamerà sublimazione questo processo che agli animali è precluso.
(ndr2) Polemos, nella mitologia greca, era il demone della guerra – e probabilmente della guerra civile. Caino e Abele, Crono e Zeus, Ettore e Achille, non si dice nulla di nuovo ripetendo con Eraclito che «polemos è padre di tutte le cose». Il combattimento (all’ultimo sangue) è alle radici della civiltà che chiamiamo occidentale, la guerra è l’attività che ha dato linfa e vita al mondo greco, poi latino, poi cristiano. Prima e dopo di lui, infatti, si è con poche eccezioni preferito cercare giustificazioni alla guerra, piuttosto che lavorare sulla e per la pace. Oggi che sembra inaccettabile non desiderare la pace, è più che mai utile una riflessione sulla naturalità del combattere e quindi sulla fatica della costruzione di una pace, un pace magari «perpetua», come quella per cui Kant indicava la via nell’opuscolo del 1797. Lungimirante, il filosofo di Köningsberg non si era proposto di studiare la guerra e le contese, quanto piuttosto di descrivere i passi necessari al raggiungimento e al mantenimento di uno stato di pace diffusa, secondo le più alte ragioni dell’utopia illuminista.
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