”Può un matrimonio convenzionale e stereotipato risultare una gabbia soffocante? Se lo chiede Beatrice che vive in bilico tra un’opportuna rassegnazione e un ineluttabile desiderio. Consapevolmente distratta, troverà la sua personale soluzione
LA DISTRAZIONE
racconto
di
Elisabetta Bordieri
No, non aveva la testa fra le nuvole. Non era vero che si dimenticava sempre di qualsiasi dettaglio. Beatrice era distratta. Solo distratta. Distratta cronica. Disturbo da deficit di attenzione, per essere precisi. Lei però non parlava in continuazione e non rispondeva in modo irruento, non era irrequieta, non mostrava segni di agitazione o nervosismo, certo si annoiava spesso, procrastinava qualsiasi decisione e non concludeva. Sintomo di una malattia o un tratto caratteriale? Di sicuro non si poneva il problema Marco, il suo eterno fidanzato, sempre esasperato e pronto a rimproverarla. Così Beatrice, per non appesantire la sua anima già provata, aveva imparato a vivere in modalità difensiva e a disseminare negli anni fughe silenziose dalla realtà quotidiana. Lei così insicura, lui così risoluto. Lei che avvertiva sotto pelle il bello di dubitare. Lui senza il timore di essere dilaniato dalle certezze. Alla fine anche lui si era piegato al conformismo e le aveva chiesto di sposarla con tanto di formale dichiarazione e anello. Che amarezza. Per questo lei aveva tumulato il brillante in un cassetto e preso tempo. Poi i giorni erano passati e si era scordata della proposta di matrimonio. Dimenticanza o rimozione del pensiero? Le solite domande ma né Freud, né Jung le rispondevano, nemmeno in sogno.
Quella mattina, la routine di sempre accompagnò i gesti di Beatrice: sveglia senza orario, colazione frugale, pulizie varie, computer e lavoro. Poi il telefono.
– Pronto?
– Ciao Bea/passo più tardi a metà pomeriggio/ho alcuni giri da fare stamattina/sarò stanco stasera/per favore niente pizza o cinema/magari cucini tu una cosa/sempre che non te lo scordi/dormo da te/domani ho un appuntamento lì vicino/a dopo.
Una comunicazione di servizio, tutta d’un fiato, senza pause, né virgole, né punti. Tornò ai suoi compiti e alle mail pregresse da smaltire. La giornata scivolò via e il più tardi arrivò, troppo presto e prima del previsto. Beatrice si ritrovò Marco in casa. Aveva di nuovo usato le chiavi di cui aveva una copia che lei gli regalò parecchi anni prima, non tanto come segno di amore, che ancora doveva prendere forma, ma più che altro come gesto simbolico di libertà, visto che lui viveva ancora con i genitori. Gliele mise in mano una mattina di inizio anno al parco, quando ancora passeggiare aveva quel piacere mai scontato di sentire l’altro accanto a sé. Infreddolita gli recitò un aforisma che aveva letto ma che spacciò come parole sue senza vergognarsi nemmeno un po’: un’anima gemella è chi ha serrature ove entrano le tue chiavi e chiavi che aprono le tue serrature. Il gesto simbolico si rivelò una routine: Marco entrava e usciva come meglio credeva. Quante volte lei gli aveva detto di suonare e di non entrare senza preavviso, quella era sempre casa sua, accidenti.
Ma quel pomeriggio non ci fece nemmeno caso. Dopo il rituale bacio a fior di labbra, Marco si posizionò sul divano, telecomando e televisore acceso. Quindici minuti e il sonno disarmò il suo cervello. Le braccia ispide, sostenute in parte dal bracciolo, ciondolavano nervosamente; le gambe scomposte, poggiate sul piccolo tavolino di cristallo, scattavano a ogni ruggito affannoso; il viso inclinato di lato ostentava una bocca semi aperta da dove decantava un rivolo di bava viscido che colava giù dal mento fino a planare sul velluto dei cuscini; il respiro disarmonico, a tratti nervoso, batteva un tempo aritmico, soffiando insistenti schizzi di particelle che si libravano nell’aria; lo stomaco e la pancia gonfi sussultavano all’unisono in un unico ammasso. Quello era Marco. Quello era anche Marco. Che poteva fare? Doveva forse ribaltare il destino? Ma quale destino, quell’invenzione temporale che si crede determini gli eventi della vita? O magari lasciar correre e sopravvivere reclusa e distratta in una bolla di vetro già incrinata? Si fermò lì a guardarlo ancora un poco mentre le lacrime le alluvionavano il cuore. Poi partorì l’ultima stilla fino a sentire il dolore straziante di un’inopportuna felicità che da qualche parte la stava aspettando. Quel momento così arido le permise di fertilizzare i pensieri e blandire la sua delusione. La cena era pronta sul tavolo. Lasciò decantare i ricordi solo qualche secondo, poi prese due cose e uscì. Distrattamente. Come sempre. Da lì.
S’incamminò piano tra i vicoli di quella città costiera senza sapere dove. Le strade di sempre, anonime e poco indulgenti, non la confortarono. Il freddo pungente, mentre le sbranava la pelle e le sbriciolava le ossa, le ricordò che era inverno inoltrato e che indumenti più pesanti sarebbero bastati a non tacciarla come persona sbadata. Forse avevano ragione gli altri. Forse era davvero malata. Fregandosene, decise di peggiorare la situazione e si diresse al mare dove il vento magari avrebbe completato il lavoro, anche se morire di freddo non era una delle migliori dipartite nel panorama delle morti. Quando arrivò in spiaggia, il sole era già andato da un pezzo a morire dietro quelle nuvole sporche color mercurio mentre a occidente uno spicchio di luna andava velandosi come bendato da un alone trasparente. Attese che fosse buio pesto. Il buio era necessario per Beatrice. Lo sentiva addosso. Nel buio la distrazione si attenuava e i pensieri si alleggerivano. Nel buio anche il pensiero di Marco che russava si andava via via smorzando. Eppure lui, in qualche modo, era una sicurezza, una garanzia, un riparo. Avrebbe dovuto sposarlo. Sposarlo lo stesso, si disse. Quanto meno ricordarsi di dirgli sì, lo voglio. Se fosse sopravvissuta al gelo, che iniziava a farsi sentire sul serio, promise che se lo sarebbe ricordato. Si accovacciò sulla sabbia umida, tirò a sé le ginocchia e ci infilò dentro il muso in rassicurante posizione fetale. Poi, all’improvviso, eccolo.
– Bea! Sapevo di trovarti qui! Alzati e guardati, sei senza cappotto con questo freddo, tu sei matta, matta da ricovero! Altro che distratta! Devi curarti! Alzati!
– Ti sposo Marco, ho deciso.
– Cosa? E me lo dici così? E il mio anello? Il mio anello che non hai mai messo? Senti ne parliamo con calma, adesso vieni, ti riporto a casa che qui si ghiaccia, metti il mio giaccone e copriti che è tardi.
– Non è tardi, non è mai tardi. Sposami ora, qui.
– Beatrice, ma che vai dicendo? Ora qui cosa? Andiamo per favore.
– Marco, sposami.
– Per la miseria, come sei pesante, con te è sempre una fatica!
– Stasera Marco, stasera. O mi ami, o muori.
Marco continuava a risponderle e a sputare parole ma lei non lo ascoltava più, era già migrata in un suo altrove. Cosa ci facesse con quel coltello in mano e dove lo avesse preso, Beatrice non se lo ricordava. Sicuramente avrebbe voluto prendere il cellulare. Ma invece aveva preso un coltello, e ora era lì, in piedi, che lo puntava contro Marco. A volte vedi tu la distrazione.
– Bea… ma che fai… cos’è quel coso… mettilo via…
– Non sono matta e nemmeno distratta, sono solo fatta così. È difficile da accettare?
– No, certo che no… ora dammi quell’affare…
– Non è vero che il passato va mantenuto vivo per evitare di commettere gli stessi errori, non è vero.
– Che c’entra ora il passato, il passato di che…
– Il passato di chi, vorrai dire. Il mio. Il mio passato, quello fatto di te che da anni mi pressi con questo matrimonio.
– Sono mesi, non anni. Te lo propongo da mesi. Non puoi considerarlo un passato.
– Per me ha valore di un passato epocale.
– Ma mi hai detto di sposarti poco fa e poi parli di errori del passato, non ti capisco. Abbassa quel coltello. Faccio quello che vuoi, ti sposo, non ti sposo. Basta che ti calmi. Mi fai preoccupare.
– Io sono calma, e sì, preoccupati pure.
Pochi istanti. Non avrebbe mai creduto che sarebbe bastato così poco. Il silenzio calò improvviso oscurando la quiete della notte. Lasciò scivolare il coltello sulla sabbia. Il giaccone di Marco era caldo. Aveva ancora il suo profumo. Era ora di rientrare a casa. E si avviò.
Un giorno o forse due, il campanello della porta non tardò a suonare in una mattina anonima come tante. Ma non era Marco.
– Buongiorno, la signora Beatrice…
– Sì, sono io, anche senza cognome, prego.
– Siamo Ispettori di Polizia.
– Lo so chi siete, lo vedo.
– Sembra quasi che ci stesse aspettando.
– Veramente no.
– Siamo qui perché il Signor Marco…
– Marco sì, non serve il cognome nemmeno di lui.
– … è stato trovato cadavere.
– …
– Ne sa qualcosa?
-…
– Signora?
– …
– Le ripeto che…
– Ho sentito. Marco è morto.
– Esattamente. Non mi sembra troppo sorpresa.
– …
– Non sembra nemmeno affranta.
– …
– Da quanto tempo non ha notizie del suo fidanzato?
– Un paio di giorni.
– E l’ultima volta avete litigato, per caso?
– Una specie.
– Abbiamo trovato una scena del crimine compromessa e artefatta in modo empirico, diciamo pure improvvisato da mani maldestre. Qualcuno ha voluto farlo passare per un suicidio. Forse può aiutarci a capire.
– State sospettando di me?
– Chiunque possa averlo ucciso è un sospettato, poi se ci sono degli indizi può essere fermato, e se ci fossero delle prove potrebbe essere arrestato.
– Ora scusate sono confusa, vorrei restare sola.
– Sì, ma si tenga a disposizione, ci sono delle indagini in corso.
I poliziotti uscirono. Marco morto? Marco morto! Come era possibile? Cosa era successo? Non si sarebbe più sposata. Ma che pensieri assurdi e fuori luogo le venivano in mente proprio ora? Perché non si disperava? Perché non avvisava nessuno? Continuava a generare domande in ordine sparso. Come mai era stata così brusca e scostante con loro? Che le era saltato in mente di rispondere una specie… sono confusa…? Non avrebbero mai creduto alla versione dei fatti di una povera fidanzata disillusa e perennemente distratta. E presto avrebbero scoperto che quella sera lei era con lui. Si era messa nei guai da sola. Non aveva alibi. Poi quell’idea epifanica si delineò con un’inaspettata naturalezza. Ma sì che aveva un alibi! E aveva un nome. Per una volta tanto decise di non rimandare ma piuttosto di indirizzare una decisione. Prese il telefono, cercò il numero nella rubrica e cliccò su chiama. Appena sentì la comunicazione aprirsi, non fece nemmeno dire pronto, ma farfugliò tre parole scandendole: ti devo vedere.
Fissarono di vedersi quel pomeriggio stesso. Davide. Non lo vedeva e non lo sentiva da tantissimo tempo. Un grande amore. Brevissimo. Senza storia. Per questo era ancora grande. Certo, all’epoca lasciare Marco non era mai stato preso in considerazione, e Davide era stato solo uno di una serie di uomini che Beatrice non si era mai fatta mancare, un po’ per salvarsi dalla noia, un po’ per apportare qualche novità. Ma con lui era stato diverso. Davide, che aveva accettato il ruolo di amante senza mai contestare la sua relazione con Marco. Davide, che conosceva i tempi dell’assenza e la differenza tra aspettare e sparire. Davide, che colmava lo sconquasso del desiderio con sconfinati silenzi. Davide, che le insegnò ad assaporare la vita lentamente. Davide, che non le aveva mai chiesto di salire a casa sua e che non aveva mai conosciuto il suo divano. Davide, che non avrebbe sposato perché non glielo aveva mai nemmeno chiesto. E ora lo aveva ricercato con la scusa di chiedergli un aiuto.
Lo aveva conosciuto una sera di qualche anno prima a una festa comune di amici. Stava con una tipa riccia e occhialuta, piuttosto insulsa a suo dire, anche bassina e cicciotella. Non che la deridesse o la discriminasse per il suo aspetto fisico ma insomma, se voleva accalappiarsi quello che ancora non sapeva si chiamasse Davide doveva pur ricorrere a un pretesto per tentare di emergere, sperando che a lui piacessero quelle secche e allampanate come lei. Riuscì a strappargli solo il numero di telefono con una scusa che nemmeno ricordava e poi il resto venne da sé. La febbre della passione divorò le loro anime ogni giorno. Marco stava sbiadendo. Beatrice si impaurì. Così una mattina di inizio estate, quando in genere gli amori iniziano a sbocciare, lo lasciò con quattro parole messe in croce in mezzo alla strada. Avanzò giustificazioni unidirezionali senza possibilità di risposta, addusse mancanze di affetto e sensibilità, obiettivi non condivisi, desideri mai corrisposti, aggiunse che stare con lui era troppo rischioso e pericoloso e che lei meritava ben altro che un uomo così. Parole affastellate e senza senso. Lui, che avrebbe potuto contestarle che tutte quelle erano considerazioni sconclusionate e soprattutto inappropriate per un amante, per tutta risposta le si avvicinò all’orecchio sussurrandole ci sarà sempre un tempo per noi da vivere lento e, girandosi, se ne andò senza mai voltarsi indietro.
Gli aveva dato appuntamento in spiaggia. Quella spiaggia. Qui la distrazione non c’entrava nulla, era stata solo ingenuamente incauta e avventata, ma voleva tornare lì, magari qualche ricordo più profondo poteva riaffiorare e tornare utile per capire meglio. Giunse con notevole anticipo sotto una pioggia leggera che accolse senza lamentele e senza ombrello. Ripassò nella mente quei momenti. Rivisse la discussione con Marco. Risentì le sue parole. Rivide il coltello…
– Ciao Beatrice.
– Ciao Davide.
– Ne è passato di tempo. Eccoci qui, magari con qualche ruga in più.
– E qualche tormento in più.
– Ma quelli servono sai? Solo dopo il dolore il vuoto può tornare a chiudersi.
– A chiudersi?
– Un vuoto saturo non è più un vuoto, è pieno, chiuso.
– Vivi sempre arroccato a pensieri contorti. Senti, pioviggina. Ci ripariamo che anche tu sei senza ombrello, che sollievo.
– Sollievo?
– Anche tu sei distratto, intendo.
– Sai che la distrazione è un elemento fondante della stabilità?
– Questa me la devo ricordare da dire a chi so io.
– E poi a me piace assaporare la natura con lentezza, pioggia inclusa.
– La tua voglia di vivere sempre lentamente la ricordo bene.
– Un bisogno direi. La lentezza non è pigrizia o ritardo, apatia o torpore. È un impiego del tempo connesso alla sospensione dei ritmi frenetici, è un equilibrio senza ali disperso nel meccanismo della fragilità, è un fiume in piena visto al contrario, è l’inesprimibile nulla… era la mia mano nella tua, eravamo noi due.
– Contorti sì, decisamente.
– Chi, io e te?
– No, i tuoi pensieri.
– E tu invece lo sei?
– Cosa?
– Distratta.
– Ah, no. Sono malata. Dicono.
– Che malattia?
– Adhd: disturbo da deficit di attenzione caratterizzato da livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-impulsività. Così c’è scritto. Iperattiva io, ci pensi?
– Ma impulsiva sì, e forse anche un tantino disattenta. Ma scritto dove? In un referto?
– No, mi sono un po’ documentata e ho letto che si cura con degli psicostimolanti che tanto non prenderei, devo ancora andare da uno specialista.
– Presunta malattia, allora. E come ti va in genere, stai sempre con quello?
– Sì, quello.
– Perché mi hai ricercato allora e perché siamo qui, Beatrice? Che significava quel ti devo vedere senza una spiegazione?
– Sono nei guai.
– Se il guaio è stato una scelta, è perché evidentemente ti andava di farlo.
– Non ricominciare con le tue dissertazioni che poi non capirei, quindi ti fermo e… sì è vero, mi andava di farlo. Ma il punto è un altro. Non andava fatto. Ma siamo ancora sotto la pioggia, parliamone lì sotto, vieni.
Si rifugiarono sotto una piccola tettoia improvvisata di un deposito di attrezzature balneari. Beatrice si ritrovò appiccicata a lui. L’odore di Davide le si conficcò dentro le narici. Poteva annusare i suoi capelli scuri. Iniziò a raccontargli di Marco, della proposta di matrimonio. Davide era sempre più vicino. Poi gli fece un resoconto di quella sera senza tralasciare nessun particolare. I loro visi erano a un millimetro. Gli riferì della visita della polizia e del suo modo irresponsabile di interagire. Con le dita lui le scansò un ciuffo di capelli dagli occhi. Spiegò che non sapeva come uscire da quella situazione in cui si era cacciata. Le loro labbra stavano per sfiorarsi. Implorò il suo aiuto. Davide le mise delicatamente una mano sulla bocca e le mormorò a un orecchio un tempo lento per noi è tornato. Beatrice chiuse gli occhi sperando di poter riesumare l’emozione dei suoi baci sepolti da secoli. Poi quella voce ringhiosa. Li riaprì di scatto. Ma Davide non c’era più.
– Bea, ma mi ascolti o no? Oh! Sei qui o su un altro pianeta? Mi fai quasi ridere: o mi ami o muori? Ma che cosa vai blaterando? Senti io non ho più voglia di correre dietro alle tue paranoie, non so nemmeno se ho più tutta questa voglia di sposarti, da quando te l’ho chiesto sei cambiata, sei sempre più strana, sembri assente, non ci stai più con la testa, ti ho detto mille volte che devi andare da un medico almeno avresti una diagnosi. Magari è solo stress o magari hai una depressione latente, invece forse è qualcosa di più serio. Ma devi iniziare delle cure maledizione, non mi hai mai dato retta testarda come sei. Comunque, se vuoi restare qui, fa’ un po’ come ti pare. Me ne vado. E tieniti pure il mio giaccone.
Cosa ci facesse con quel coltello in mano e dove lo avesse preso, Beatrice non se lo ricordava. Sicuramente avrebbe voluto prendere il cellulare. Ma invece aveva preso un coltello, e ora era lì, in piedi, che lo puntava contro Marco. A volte vedi tu la distrazione…
Elisabetta Bordieri
Elisabetta Bordieri nasce a Roma ma vive in Toscana tra colline e aironi, dentro una cartolina. Scrive racconti, genere che predilige perché è dentro l’essenzialità che si cela il limite del superfluo. Legge brani di poesia e prosa con letture sceniche e interpretative. Partecipa a corsi di laboratorio teatrale. Si allena lungo gli argini del fiume. E ancora.
Giancarlo
13 Giugno 2024 a 18:14
Eppure manca una cosa….. La prossima volta che scrivi un racconto, preparami una poltrona, un gin tonic e poi presentami la scena, non me la voglio perdere per niente al mondo. Le parole, i gesti, la follia che attraversa la mente dei protagonisti, spesso nei tuoi racconti così palpabile addirittura così sottile e lucida che se guardo intorno posso riscontrarla nel genere umano, così spesso preso da mille caxxxate e da vite frenetiche, così piene di impegni e di cose da fare che ci si “dimentica ” del nostro centro. Brava come sempre….
Paola 69
18 Aprile 2024 a 23:31
La stanchezza di un rapporto trascinato senza entusiasmo lo si sente in tutto il racconto. Non c’è amore, non c’è passione, non c’è complicità. Ma il solo modo di liberarsi di questa relazione è l’uccisione di Marco? Veramente? Chissà…….
Elisabetta , come sempre, bravissima ❣️
Gianluca
18 Aprile 2024 a 9:31
Non ci si distrae certo, nel leggere questo testo: avvolgente, incalzante, anche nei momenti di vuoto della protagonista. Un dramma raccontato con estrema conoscenza delle situazioni, che ci coinvolge in una tematica per molti di noi (io sicuramente) sconosciuta. Brava Eli!
Elisabetta Bordieri
16 Aprile 2024 a 9:59
Il mio grazie a tutti coloro che sono passati e passeranno di qui, per il loro tempo e per le loro parole. E un grazie alla redazione di Inchiostronero per l’ospitalità.
Assiduo Lettore
15 Aprile 2024 a 9:27
Come di consueto, i tuoi racconti sono scritti in modo così magistrale che il lettore riesce a viverli sulla propria pelle.
La caduta a precipizio di un rapporto esausto, immerso in un’atmosfera spettrale nella quale i fantasmi del passato sono ospiti di diritto.
Ho esperienza diretta dell’ADHD. Sei riuscita a rappresentare quei momenti di assenza nei quali la mente prende strade inimmaginabili mentre il corpo, seppur presente, è solo un involucro vuoto.
Grande scrittura, grandi emozioni, grande Elisabetta!
Maurizio
12 Aprile 2024 a 21:54
“O mi ami o muori”: ennesima, ma originalissima declinazione dell’eterno legame tra Eros e Thanatos. Un legame che tuttavia può essere reciso, nel senso etimologico della parola “distrazione”, dal latino “separazione”. Di certo non ci si può distrarre un attimo dalla lettura di questa ennesima perla letteraria che ci ha regalato Elisabetta. Grazie per le emozioni, ancora una volta.
Ilaria
11 Aprile 2024 a 17:24
C’è un grano di pazzia nell’amore, così come c’è un grano di logica nella pazzia …..e non lo dico io…..bacio !
Marino Filippo Arrigon
11 Aprile 2024 a 15:21
Avvincente come sempre. Fantasia travolgente come un fiume in piena (ma non visto all’incontrario!)
Riconoscerei il tuo stile tra mille. C’è anche qualcos’altro… ma deve restare tra le righe…
Andrea
11 Aprile 2024 a 14:02
Bello, come sempre. Fantasia fervida e linguaggio ricco. E poi…il finale che non ti aspetti.
Brava
Baci
Alberto Maria Onori
11 Aprile 2024 a 13:53
Un racconto breve e intenso, condotto sul filo del surreale. Due personaggi reali, uno chissà, una città di mare in un inverno passato, un assassinio e una richiesta di aiuto.
L’atmosfera rarefatta in cui si rapprendono i personaggi fa da muto testimone a una uggiosa tragedia maturata fra perbenismo e abitudine.
Daniela
11 Aprile 2024 a 16:00
È l’atmosfera che è sempre avvincente e avvolge la storia nella suspense fin dall’inizio. E noi aspettiamo il prossimo racconto con altrettanta emozione.