È troppo ipocrita, pedagogica, edulcorata la storia a lietofine del terrorismo narrata in questi giorni…

LA FAVOLETTA SUL TERRORISMO NON FUNZIONA

È troppo ipocrita, pedagogica, edulcorata la storia a lietofine del terrorismo narrata in questi giorni, tra l’anniversario dell’uccisione di Moro e la giornata delle vittime degli anni di piombo. È la storia che l’Italia unita – popolo, partiti e istituzioni – seppe sconfiggere il terrorismo e uscire dal tunnel. È la favoletta che uniti si vince contro il Male, come oggi per il covid e ieri per il fascismo e che vide trionfare l’unità democratica, progressista e antifascista – anche se il terrorismo delle Br era anch’esso progressista e antifascista, oltre che comunista.

Si trascura la decisione di sacrificare Moro, ancora salvabile, perché la sua liberazione sarebbe stata più compromettente del suo martirio; si dimentica la posizione di Craxi che si dissociò dalla linea della fermezza; si falsa il ruolo degli Usa, dell’URSS, di altri soggetti medio-orientali e dei nostri servizi segreti deviati o guidati, e si riduce anche il terrorismo rosso a uno scopo “nero”, e reazionario.

Si dimentica poi che il terrorismo fu usato come un’arma per mantenere il potere, un fattore di destabilizzazione che serviva per suscitare voglia di stabilità. Montava l’opposizione al sistema e alla corruzione. E l’unico modo per impedire che divenisse rabbia di popolo, voto d’opposizione e di protesta, fu quella di usare la paura del terrorismo e della violenza come calmante per stabilizzare il sistema. Qualcuno all’epoca riassunse con uno slogan: meglio i ladri che gli assassini. Meglio i corrotti che i terroristi. Il terrorismo fu così usato come vaccino contro il virus della protesta e l’opposizione crescente.

A quella lettura istituzionale edulcorata, si aggiunge la postilla che i brigatisti colpirono Moro per colpire Berlinguer, che i due erano una cosa sola, avevano lo stesso progetto e volevano produrre quel che poi sarebbe stato l’Ulivo; ma i cattivi americani usarono le Br per impedire il compromesso storico, il Pci al potere con la Dc. Sentite odor di Veltroni (e di Prodi) in questa lettura protoulivista della santa alleanza Moro-Berlinguer; e forse un vago profumo di Quirinale per le prossime elezioni. Ma avvertite nell’uso della paura e nella somministrazione del vaccino antiterrore per impedire che l’Italia si ribellasse al potere, molte analogie con la stagione della pandemia che stiamo vivendo.

Intendiamoci, il terrorismo come il virus, non lo ha prodotto il potere o come allora si diceva, il sistema, è nato per cause specifiche: ma il potere poi usò e usa il virus e la profilassi per soffocare i conati di ribellione, per mantenere se stesso e stringere la gente intorno alle istituzioni. Ieri come oggi.

Ai lirici cantori dell’unione nuziale Moro-Berlinguer, che trova anche a destra seguaci seppur con giudizio opposto, vorrei ricordare che le finalità del compromesso non erano le stesse per Moro e per Berlinguer. Davanti alla crescita del Pci e al logoramento della Dc dopo più di trent’anni ininterrotti di potere, Moro tentava di logorare il Pci nell’abbraccio mortale col potere democristiano, garantendo alla Dc ancora lunga vita al governo. Il tentativo moroteo era quello di ripetere col Pci quello che si era fatto col Psi alcuni anni prima; devitalizzarlo, condurlo nell’area di potere, “corromperlo” e così restare al potere. Una strategia che taluni ritengono di uno statista e che io continuo a considerare quella di un lungimirante stratega di Partito, proteso alla conservazione della Dc al potere. Da parte sua Berlinguer non era l’uomo dell’abbraccio finale con la Dc ma perseguiva la strategia della conquista graduale del potere, usando l’alleanza come strumento per poter alla fine produrre in Italia un modello nostrano di società comunista. E comunista Berlinguer restò fino alla fine, pur usando l’arco costituzionale e l’antifascismo come mezzi e sentieri per legittimarsi al governo.

L’arte del compromesso era stata teorizzata non solo da Gramsci ma perfino da Lenin; e ancor più si faceva urgente davanti alla crescita della destra nei primi anni Settanta e alla sclerotizzazione del potere in Unione Sovietica. L’epoca di Breznev fu l’epoca del grigiore sovietico e del comunismo imbalsamato. Per Berlinguer il compromesso storico teorizzato dal cattocomunista Franco Rodano e sostenuto dal suo collaboratore Antonio Tatò era finalizzato al progetto di un’altra società, un altro quadro politico, e l’incontro auspicato tra le masse dei cattolici e quelle dei comunisti non doveva tradursi nella fusione tra la nomenklatura comunista e il notabilato democristiano, ma era la base popolare per instaurare poi un comunismo compatibile con l’Europa (eurocomunismo). Insomma Moro e Berlinguer non pensavano la stessa cosa: Moro non era un comunista, anche se rischiava di diventare il loro cavallo di Troia, e Berlinguer non era un democristiano, anche se rischiava di far perdere ai comunisti la volontà di cambiamento e di svolta radicale.

Non dimentichiamo poi che al compromesso politico tra Moro e Berlinguer, si incrociava il compromesso sempre più avanzato tra comunisti e capitale, sindacato e Confindustria; quello che all’epoca fu chiamato il patto dei produttori (termine usato pure da Mussolini quando abbandonò il gergo socialista di lavoratori e proletari). In quel progetto c’era la Fiat di Agnelli, il Pci, soprattutto nella sua ala migliorista (Amendola e Napolitano), c’era il repubblicano La Malfa come mosca cocchiera e c’erano gli assetti di potere anche mediatico che si andavano formando nell’incontro tra sinistra e capitale.

L’assassinio di Moro e la stagione del terrorismo si situano a cavallo tra due processi: quello intentato a mezzo stampa dagli intellettuali come Pasolini che processò la Dc e quello intentato poi a mezzo tribunale dai magistrati con Mani Pulite. Ma quella è un’altra storia.

 

 

Fonte: MV, La Verità 11 maggio 2021

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