Da dove nasce la fede? Una riflessione lucida e profonda sul rapporto tra credere, cultura, dubbio e silenzio.
LA FEDE COME RISPOSTA ALLA MORTE
Redazione Inchiostronero
In un mondo che sembra dimenticare Dio e temere la morte, la fede resta. Ma da dove viene, davvero? Un viaggio tra Bibbia, Storia, dolore e dubbio, per capire da dove nasce la fede — e perché continua a vivere anche dopo il silenzio.
Fede e cultura: credere nonostante tutto
Ci sono domande che non passano mai di moda.
Ci seguono nei giorni di festa, nei momenti di lutto, nelle notti in cui il sonno non arriva. Una di queste — forse la più antica di tutte — è questa: perché l’uomo crede?
È davvero solo paura della morte? È un bisogno antico di consolazione? O c’è qualcosa che va oltre, che resiste persino quando tutto il resto crolla?
Questo testo nasce da settimane di riflessione, da letture, dubbi, proteste interiori.
Nasce dal bisogno di confrontare la fede con la cultura, la spiritualità con la storia, la preghiera con l’esperienza del dolore e della giustizia negata.
Abbiamo creduto in un Dio (1)che mette alla prova, in Santi che intercedono senza corpo, in verità nate in mezzo alla sabbia e al sangue. Eppure crediamo ancora.
O almeno, continuiamo a chiederci se credere abbia ancora senso.
Capitolo 1 – La fede come risposta alla morte
Nei giorni in cui si celebrava la Pasqua, è tornato a farsi sentire — come ogni anno — quel pensiero sottile e ineludibile che accompagna la promessa di resurrezione: che ne è della morte?
Per alcuni, la fede cristiana è la risposta più potente mai concepita contro il silenzio della tomba: una vita oltre la vita, un ritorno dalla fine, la certezza che nulla è veramente perduto.
Ma la fede, in fondo, è davvero solo questo? Un rifugio contro la paura?
Gli antichi Greci avevano una visione molto diversa. Per loro, la morte era un limite inviolabile, inscritto nell’ordine stesso della natura. Nessuna tecnica, nessun dio dell’ingegno poteva spezzare quella necessità assoluta che reggeva il cosmo.
Lo dice con forza Prometeo, nel dramma di Eschilo, mentre parla incatenato sulla roccia per aver sfidato Zeus e donato agli uomini il fuoco della conoscenza:
«La tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi di natura».
E ancora: prima di quel dono, gli uomini «avevano occhi e non vedevano, udivano e non capivano… abitavano come formiche cieche».
Il sapere, l’ingegno, la civiltà: tutto questo nasce da una disobbedienza, ma non basta a superare la condizione mortale.
La tragedia greca è un canto dolente ma lucido all’inevitabile. Non c’è fede che salvi Edipo o Antigone, ma solo consapevolezza e dignità.
«Meglio non essere mai nati», scriveva Sofocle in un verso che ancora oggi inquieta e affascina.
Con l’arrivo della cultura giudaico-cristiana, lo scenario cambia radicalmente. La morte non è più l’ultima parola, ma l’anticamera di qualcosa di più grande. Con l’ingresso del Dio personale, la fine diventa passaggio, la tomba una soglia. Il dolore assume un senso, perché può condurre alla salvezza.
È qui che nasce — o si consolida — la fede come risposta emotiva, esistenziale, metafisica alla finitudine. Il pensiero di Pascal ne è un esempio emblematico:
«Se vinci, vinci tutto; se perdi, non perdi nulla».
Ma è davvero così semplice?
Forse no. Perché credere non è scommettere, è affidarsi.
La fede non rimuove la morte: la attraversa.
E la cultura — dai testi sacri alle grandi opere letterarie — ha sempre cercato di dar voce a questo movimento profondo, che oscilla tra paura e speranza, tra dubbio e abbandono.
📌 Nota a piè pagina per Eschilo Le citazioni da “Prometeo incatenato” di Eschilo fanno riferimento alla traduzione di Guido Paduano (BUR, 2003). Il dramma mette in scena la ribellione del titano Prometeo contro Zeus, dopo aver donato agli uomini il fuoco, simbolo della tecnica e della conoscenza. La sua riflessione sul limite della téchne di fronte all’anánkē (necessità) resta una delle più alte rappresentazioni della visione greca della condizione umana.
Capitolo 2 – La fede: luce e ombra nella storia
La fede è un fuoco. Può riscaldare, può bruciare. Può essere la fiamma che illumina un cammino, oppure l’incendio che devasta tutto ciò che incontra. Per millenni, la fede ha generato gesti di amore, opere di bellezza, comunità solidali. Ma ha anche alimentato crociate, roghi, stermini. È un paradosso che non possiamo ignorare.
«Non c’è nulla di più pericoloso della fede cieca», ammoniva Voltaire. Ma forse non è nemmeno la cecità il problema. Forse è proprio il potere che la fede può assumere quando si intreccia con il desiderio di dominio, con le strutture politiche, con l’ossessione della verità assoluta.
Il Medioevo cristiano ne è un esempio impressionante. Durante le Crociate, a partire dal 1095, il papato promise l’assoluzione plenaria e la salvezza eterna a tutti coloro che avessero preso la croce — e questo indipendentemente dai crimini che avessero commesso. Nella bolla “Deus vult”, Urbano II chiamò i cristiani a liberare il Santo Sepolcro, ma di fatto si aprì una stagione di massacri, saccheggi e violenze, spesso perpetrate contro popolazioni cristiane orientali e civili inermi.
«Chiunque parta con animo devoto, anche solo per la penitenza dei suoi peccati, avrà la remissione completa» – Concilio di Clermont, 1095
Quella promessa — uccidere “in nome di Dio” e ottenere in cambio la salvezza — è una delle più inquietanti deformazioni teologiche della fede. E fu reiterata nei secoli, persino nelle guerre interne al cristianesimo: le persecuzioni contro i catari, gli albigesi, gli eretici.
Con l’Inquisizione, la fede divenne giudice e carnefice insieme. I roghi erano preceduti da processi sommari in cui il dubbio era già una colpa, e la confessione una forma di sopravvivenza. Si arrivò a definire l’eresia come “cancrena dell’anima”, da estirpare per salvare l’intero corpo della Chiesa.
«Uccidere l’anima è peggio che uccidere il corpo» – Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae
Eppure, sarebbe ingiusto fermarsi a questo lato oscuro. La fede ha anche generato una potente energia creatrice: ha ispirato l’arte sacra, la musica, la poesia. Ha spinto uomini e donne a vivere vite interamente dedicate agli altri: dai monaci che trascrivevano testi antichi, alle suore che curano i malati nei luoghi più dimenticati della terra.
«Mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede», scrive la Lettera di Giacomo.
Ma la fede non è stata solo violenta verso gli altri.
A volte, è stata feroce anche verso sé stessa.
In nome del divino, l’essere umano ha inflitto al proprio corpo ogni genere di privazione, mutilazione, tortura — convinto che solo nel dolore ci fosse redenzione.
Che solo spezzandosi si potesse sentire Dio.
La storia lo racconta senza pudore, e già la mitologia ce ne aveva dato un assaggio.
Crono, il Titano, evirò suo padre Urano per strappargli il cielo e prendersi il potere. Era un atto cosmico, crudele, ma necessario: per fondare un nuovo ordine, occorreva distruggere il corpo del padre.
Non siamo molto lontani dal Dio della Bibbia che chiede ad Abramo il sacrificio del figlio.
Un figlio legato su un altare. Un coltello sollevato.
Un angelo arriva a fermare la mano, ma l’intenzione resta. E Dio la loda: «Ora so che tu temi Dio».
Non è l’amore, non è la comprensione: è il timore a rendere fedele.

Nel cristianesimo antico, questa logica si fa più sottile, ma non meno dura.
Origene, uno dei più grandi pensatori della Chiesa, si evirò da giovane per restare puro.
Scelse di mutilare sé stesso per amore di Dio. Non lo fecero in pochi. Innumerevoli uomini — eremiti, asceti, monaci — si frustavano, si legavano, digiunavano fino allo sfinimento.
Il corpo era visto come nemico, ostacolo, prova da superare.
E le donne?
Anche loro hanno vissuto questa lotta, spesso in silenzio, in clausura, in solitudine.
Caterina da Siena non mangiava quasi nulla. Teresa d’Avila viveva estasi che la lasciavano spossata. Chiara da Montefalco si flagellava con spine e ortiche.
Molte morivano giovani, consumate non solo dal desiderio di santità, ma da una fede che chiedeva la sofferenza come pegno d’amore.
La fede è una fiamma che può illuminare o bruciare.
E l’uomo, da secoli, è disposto a farsi cenere pur di toccare il divino.
E oggi?
Viviamo in un tempo in cui la fede è ancora una presenza che divide e unisce. Il Papa che si presenta al mondo con un poncho e uno sguardo stanco — il più odiato della storia cristiana, secondo alcuni — è anche il simbolo di un’istituzione che non riesce più a parlare con forza alle coscienze.
Davanti a tragedie come quella che ha colpito migliaia di bambini palestinesi, molte voci religiose sono rimaste in silenzio. O hanno balbettato parole vaghe, neutre, inoffensive.
È la fede che manca, o è il coraggio?
La fede non è mai neutra. È come una lente: mostra il mondo secondo ciò che siamo. Se è autentica, può essere un motore di giustizia. Se è corrotta, può diventare strumento di oppressione. Ma in entrambi i casi, agisce. Incide. Cambia la storia.
Capitolo 3 – Il dubbio: la fede nel tempo del silenzio
Ci sono notti in cui pregare sembra inutile. Non arriva nessuna risposta. Nessun segno. Nessuna voce dal cielo. Solo silenzio.
E non è il silenzio della pace. È quello che pesa. Che si siede sul petto e ti sveglia nel cuore della notte, senza motivo apparente. Un silenzio pieno di immagini che non ti sei cercato: bambini massacrati, ingiustizie che gridano, una sofferenza che si espande come una macchia d’inchiostro nell’anima.
In quelle notti, mi sono chiesto tante volte: ma chi ha fede, come fa?
Come si può conciliare il Dio dell’amore con l’odore di bruciato del mondo? Come fa un credente a dormire sapendo che il giorno appena passato è stato l’ennesimo in cui migliaia di innocenti hanno sofferto senza senso?
La fede dovrebbe rispondere. E invece spesso non dice nulla. Non consola, non spiega, non illumina.
Eppure… rimane.
Non come certezza, ma come eco. Come qualcosa che forse c’è, anche se non parla.
«Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Lo grida perfino Gesù. Anche Lui, almeno per un attimo, si sente solo.
Ci sono notti in cui il dubbio diventa fede. Una fede più ruvida, più nuda, che non ha più bisogno di miracoli, di premi o di cieli blu. Una fede che non pretende nulla. Che si siede accanto al dolore e resta.
Non ha parole, ma ha presenza. Non ha prove, ma ha resistenza.
Non so se è fede, questa.
Ma so che è qualcosa che non si spegne, anche quando tutto attorno sembra spento.
«Credo, aiutami nella mia incredulità», diceva un padre nel Vangelo, implorando una guarigione. Forse è tutto lì. Forse il cuore della fede non è sapere, ma continuare a cercare, anche senza ricevere.
Capitolo 4 – I Santi, il tempo e il paradosso della fede
La dottrina cristiana insegna che la resurrezione dei corpi avverrà alla fine dei tempi. Fino ad allora, l’anima è in attesa. In silenzio. In una dimensione che non ci è dato conoscere.
E allora: che senso ha invocare i Santi? Dove sono?
Se non sono ancora risorti, se non sono “in cielo” nel senso pieno, come possono ascoltare, intercedere, proteggere?
Sono domande che sfiorano l’eresia, o forse solo l’onestà. Perché la fede popolare — con le sue processioni, i voti, le medagliette — spesso vive in una mitologia parallela, più vicina al bisogno che alla teologia. I Santi sono “vicini”, sono “vivi”, sono “attivi” — ma come può essere, se siamo ancora nel tempo della storia, e non nella pienezza del Regno?
«Polvere sei e in polvere tornerai», dice la Genesi.
E allora: che cosa resta, dopo? Un’anima? Un’energia? Una memoria?
È qui che la fede si separa dalla cultura. Perché la cultura cerca coerenza, cerca prove, cerca logica. La fede, invece, non ha bisogno che le cose “tornino”. Le basta che parlino. Che smuovano qualcosa. Che tocchino il mistero.
Ma questo non significa che la fede sia cieca. Nella Bibbia, Dio stesso mette alla prova. Abramo è costretto a sollevare il coltello sul figlio. Giobbe perde tutto.
«Hai ancora fiducia, quando nulla ha più senso?» – sembra chiedere il Dio dell’Antico Testamento.
E se la fede è proprio questo: credere quando ogni cosa visibile grida il contrario?
Non è un atto irrazionale. È una scelta radicale, una scommessa dell’essere.
Forse i Santi non sono “luoghi” nello spazio, né “anime” disincarnate che fluttuano nell’etere. Forse sono presenze dentro di noi, modelli, tensioni, archetipi. Forse intercedono non perché ci ascoltano da un altrove, ma perché la loro memoria agisce in noi, ci solleva, ci orienta.
E forse è proprio qui che cultura e fede si toccano: nell’immaginazione. L’una cerca, l’altra crede. Ma entrambe danno forma al senso.
Capitolo 5 – Il Dio che mette alla prova: fede, violenza e ignoranza

C’è un’immagine di Dio che pochi hanno il coraggio di guardare dritta in faccia.
È il Dio che ordina ad Abramo di uccidere suo figlio. È il Dio che lascia Giobbe nudo tra i cocci, dopo avergli portato via ogni cosa. È il Dio che dice al suo popolo di sterminare interi villaggi, donne e bambini compresi, per “prendere possesso della terra promessa”.
Questo Dio è nella Bibbia. Ma quasi nessuno lo legge.
O meglio: lo si legge solo “filtrato”, ridotto a parabola o allegoria, smussato fino a diventare quasi innocuo. Ma la Bibbia ebraica — il Tanakh — è un testo spietato, violento, umano. È il racconto di tribù nomadi, pastori guerrieri, popoli che si combattono per la sopravvivenza e che usano Dio per giustificare le loro guerre, i loro sogni, le loro paure.
«Elohim», il nome usato per Dio, appare migliaia di volte con significati diversi. A volte è un Dio specifico, Yahweh. Altre volte è un plurale generico, gli dèi. La Bibbia non nasce come testo teologico sistematico, ma come stratificazione di racconti tribali, memorie di un popolo piccolo che cercava un posto nel mondo grande.
Ma allora: perché nessuno si scandalizza?
Perché il credente moderno non si chiede: “Ma Dio è cattivo?”
Forse per ignoranza. Perché la Bibbia non si legge: si eredita.
Forse per paura: perché mettere in dubbio Dio significa mettere in dubbio tutto.
O forse perché, in fondo, la fede non è adesione razionale a un testo, ma relazione. E come ogni relazione profonda, sopporta le contraddizioni.
Ma resta il fatto: l’ignoranza religiosa è una delle più tollerate nel nostro tempo. Si crede in un Dio che non si conosce. Si invoca un nome che ha attraversato secoli di sangue, cultura, manipolazione.
Eppure — ed è questo il paradosso — qualcuno riesce a credere lo stesso. Anche leggendo quei passi duri. Anche sapendo tutto. Perché forse non cerca un Dio perfetto, ma un Dio che stia nel caos dell’umano, che entri nel fango, che sia storia prima ancora che salvezza.
Conclusione – Fede o cultura?
Da dove nasce la fede?
Abbiamo attraversato la morte, la storia, il dolore, i paradossi. Abbiamo toccato il sangue e il silenzio, la speranza e la cieca obbedienza.
Eppure la domanda resta.
Forse, non è nemmeno questa la domanda giusta.
Forse, quella vera è un’altra.
È più forte la fede o la cultura?
È più profondo il bisogno di credere, o quello di capire?
Prometeo — il Titano(2) che donò agli uomini il fuoco, e con esso la tecnica, il sapere, il futuro — non ebbe dubbi: la natura è più forte.
«La tecnica è di gran lunga più debole della necessità», dice incatenato.
Ma se oggi sostituissimo quella necessità con la fede?
Se chiedessimo: tra la tecnica e la fede, tra la conoscenza e la speranza, chi tiene davvero il cuore dell’uomo?
La filosofia ci insegna a ragionare, a cercare, a dubitare.
La fede ci chiede di cedere, di affidarsi, di restare.
Sono due strade che spesso si oppongono, ma a volte si sfiorano, si riconoscono, si nutrono.
Non ho una risposta.
Solo un’immagine che torna: quella di un uomo che, nel buio, tende la mano.
Non sa se qualcuno lo prenderà. Ma la tende lo stesso.
Forse, è lì che nasce la fede.
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📚 Riferimenti di letture consigliati per il lettore
- Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov: il dolore innocente e la fede che non si spegne
- Paul Tillich, Il coraggio di essere
- Emil Cioran, L’inconveniente di essere nati: il nichilismo come fede capovolta
- Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù: una fede ragionata, inquieta
- Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta: «Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore»
- Vangelo di Giovanni, 20:29: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno»
❓Se ti sei posto almeno una volta questa domanda, allora questo testo ha già fatto il suo lavoro.

Approfondimenti del Blog

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Riferimenti e bibliografia essenziale
🔹 Capitolo 1 – La fede come risposta alla morte
- Eschilo, Prometeo incatenato, trad. Guido Paduano, BUR, 2003 – Sulla debolezza della tecnica di fronte alla necessità.
- Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224–1225 – “Meglio non essere mai nati”.
- Blaise Pascal, Pensieri, frammento 233 – La “scommessa” su Dio.
- Nuovo Testamento, 1 Corinzi 15,20-22 – La resurrezione dei morti in Cristo.
🔹 Capitolo 2 – La fede: luce, ombra e sacrificio
- Concilio di Clermont, 1095 – Predicazione della Prima Crociata: assoluzione totale promessa ai crociati.
- Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae – L’eresia come malattia dell’anima.
- Karen Armstrong, In nome di Dio, Rizzoli – Analisi storica e spirituale delle guerre religiose.
- Voltaire, Trattato sulla tolleranza – Critica dell’intolleranza e dell’uso politico della fede.
- Lettera di Giacomo, Nuovo Testamento – “La fede senza le opere è morta”.
Approfondimento – Il corpo come sacrificio, l’ascesi, la fede che si infligge
- Genesi 22 – Il sacrificio di Isacco come prova della fede.
- Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XX, 2 – Accenni all’autoevirazione di Origene.
- Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, VI, 8 – Sulla vita di Origene.
- Peter Brown, Il corpo e la società, Einaudi – Studio sull’ascesi e la disciplina cristiana del corpo.
- Michel Foucault, Storia della sessualità, vol. II – Il corpo come luogo del potere spirituale.
- Silvia Evangelisti, Nuns: A History of Convent Life – Spiritualità e pratiche ascetiche femminili.
- Caterina da Siena, Lettere – Testimonianze di digiuno e dolore come offerta.
- Teresa d’Avila, Libro della vita – Estasi e lotte interiori.
- Chiara da Montefalco, fonti agiografiche medievali – Pratiche di mortificazione e misticismo.
🔹 Capitolo 3 – Il dubbio e il silenzio
- Vangelo di Marco, 9:24 – “Credo, aiutami nella mia incredulità”.
- Vangelo di Matteo, 27:46 – Il grido di abbandono di Gesù.
- Elie Wiesel, La notte – La perdita della fede ad Auschwitz.
- Etty Hillesum, Diario 1941–1943 – Credere dentro l’orrore.
- Simone Weil, Attesa di Dio – La fede come accoglienza del silenzio divino.
- Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa – Teologia del silenzio e della responsabilità.
🔹 Capitolo 4 – Santi, tempo e paradosso
- Genesi 3,19 – “Polvere sei e in polvere tornerai”.
- Lettera ai Tessalonicesi, 4:13-18 – Resurrezione dei morti alla fine dei tempi.
- Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae – Intercessione dei Santi.
- Karl Rahner, Saggi di teologia – I Santi come “luoghi della speranza”.
- Paul Tillich, Il coraggio di essere – Fede come atto esistenziale.
🔹 Capitolo 5 – Il Dio che mette alla prova
- Genesi 22 – Il sacrificio di Isacco.
- Libro di Giobbe – La sofferenza del giusto e il silenzio di Dio.
- Esodo 12:12, 1 Re 11:33 – Elohim come divinità plurale.
- Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista – La religione come costruzione psico-storica.
- Yuval Noah Harari, Sapiens – Le religioni come sistemi di coesione.
- Erich Fromm, Voi sarete come dèi – Psicologia della religione e libertà spirituale.