”Che forma ha l’amore? O meglio, perché l’amore dovrebbe averne soltanto una? Se non ne avesse nessuna? E se invece le avesse tutte? Ecco cosa si cela nel cuore pulsante de La forma dell’acqua.
La trama del romanzo.
Baltimora, 1962. Dopo aver perso l’uso della voce a causa di un incidente, la giovane Elisa conduce una vita spenta, senza ambizioni. Ma un giorno, all’interno del laboratorio in cui lavora come donna delle pulizie, entra per sbaglio in una stanza e fa una scoperta straordinaria: in una vasca piena d’acqua c’è una strana creatura. È sicuramente prigioniera e con ogni probabilità è lì perché oggetto di un esperimento. Ma cos’è? Anzi: chi è? All’insaputa di tutti, Elisa entra in contatto con quella creatura e tra i due si crea un legame sempre più forte. Un legame incomprensibile al mondo, che vede in lei una donna insignificante e nella creatura soltanto un mostro da studiare. Un legame che però ha i tratti e la forza del vero amore. La trama, come ha detto lo stesso del Toro, è «assurda e assurdamente semplice». Del Toro ha dichiarato di aver lavorato contemporaneamente sulla scrittura del film e del romanzo, sviluppando parallelamente la storia.
Una grandissima storia d’amore del tipo la Bella e la Bestia che si congiunge al Mostro della Laguna; una favola romantica e onirica, dai contorni noir e con piccole striature da spy story. Elisa ha due soli amici: il vicino di casa Giles, artista omosessuale avanti con gli anni e ormai deluso dalla vita professionale e amorosa, e la collega Zelda, chiacchierona e brontolona ma anche generosa e ultra protettiva nei confronti dell’amica.
C’è poi il Dottor Hoffstetler, che si oppone all’inutile crudeltà di Strickland e che sarà elemento fondamentale nella direzione che prenderanno gli eventi, pur nascondendo un segreto che ci riconduce immediatamente all’epoca in cui è ambientata la storia.
Elisa è davanti a una piscina. C’è un tremolio scuro e sottomarino, quasi come il riflesso scattoso della zampa di un cane che sogna, poi una gocciolina d’acqua si solleva a pochi centimetri dal centro della piscina, ricade e innesca una delicata serie di cerchi concentrici, e subito il mormorio del laboratorio è soffocato da clangiri metallici. L’acqua rivela una forma a X, quella di quattro catene lunghe cinque metri l’una, saldate ai quattro angoli delle piscina, che si tendono a pelo d’acqua facendola spumeggiare. Al capo opposto, ognuna di esse tiene legata una stessa figura che emerge dal fondo. L’acqua che si apre, i riflessi arcobaleno, quelle ombre come ali di pipistrello: Elisa non capisce cosa sta guardando. E poi ecco, i riflessi di occhi come monete d’oro, quelli che ha visto nella cisterna, la luna e il sole.
La creatura è immobile come una roccia sommersa, non c’è tempo per riflettere. Elisa fa cadere tre compresse nell’acqua. Si sciolgono spumeggiando, lei mescola il liquido con la mano, indirizzando il sale verso il viso e il collo della creatura. Poi non c’è più nulla da fare, ed è tremendo. Gli stringe la mano. Quella mano enorme, palmata, luccicante di squame arcobaleno, striata delicate spirali. Lei usa entrambe le mani per piegare le dita di lui, che finiscono in lunghi artigli, finché non riesce a stringere le articolazioni come un chirurgo comprimerebbe un cuore.
La storia d’amore tra Elisa e il suo mostro dai riflessi arcobaleno, descritta con delicatezza e vero stupore, in un crescendo che commuove un bel po’.
Come inizia.
PRIMORDI
1
Richard Strickland sta leggendo il rapporto del generale Hoyt. L’altitudine è di undicimila piedi. Il biturboelica incassa colpi duri come montanti di un pugile. L’ultima tappa del volo Orlando-Caracas-Bogotà-Pijuayal, un luogo dimenticato da Dio tra Perù, Colombia e Brasile. Il rapporto è stringato e inframezzato da parti cancellate con l’evidenziatore nero. In un claudicante tentativo di poetica militaresca, racconta la leggenda di un dio della giungla. I brasiliani lo chiamano Deus Brânquia. Hoyt ha chiesto a Strickland di accompagnare i cacciatori a contratto, aiutarli a catturare quell’affare, qualsiasi cosa sia, e portarlo in America.
Strickland non vede l’ora che sia finita. È l’ultima missione che svolge per il generale Hoyt. Ne è sicuro. Le cose che ha fatto in Corea sotto il suo comando lo hanno incatenato a lui per dodici anni. La loro relazione è una forma di ricatto, e Strickland vuole scrollarsela di dosso. Quella missione è la più importante di sempre, e se riesce avrà finalmente un gruzzolo sufficiente per presentargli le dimissioni. A quel punto potrà ritornarsene a casa, a Orlando, da Lainie e dai suoi ragazzi, Timmy e Tammy. Potrà essere il padre e il marito che il lavoro sporco di Hoyt non gli ha mai permesso di essere. Un uomo nuovo. Un uomo libero.
Abbassa di nuovo gli occhi sul rapporto. L’impostazione mentale è quella solita, brutale, dei militari. Quei poveri stronzi di sudamericani. Le cause della loro povertà non sono i loro metodi agricoli da subnormali, no, certo che no, è un dio branchia adirato per il modo in cui trattano la giungla. La pagina è macchiata per via di un gocciolio nell’abitacolo, così se la tampona sui pantaloni. Secondo le forze armate americane, a quanto c’è scritto, le caratteristiche del Deus Brânquia hanno importanti applicazioni militari. Il suo compito è quello di perorare gli «interessi degli Stati Uniti» e tenere l’equipaggio «motivato», per dirla con le parole di Hoyt. Strickland conosce per filo e per segno le teorie di Hoyt sulla «motivazione». Deve pensare a Lainie. O meglio ancora, visto ciò che potrebbe trovarsi a dover fare, non pensarci affatto.
Il turpiloquio del pilota portoghese è giustificato. L’atterraggio è un incubo. La pista di atterraggio è letteralmente intagliata in mezzo alla giungla più fitta. Strickland si allontana barcollando dal velivolo e si accorge subito che il caldo è palpabile, visibile. Sembra un livido che galleggia in aria. Un colombiano con indosso una maglietta dei Brooklyn Dodgers e pantaloncini hawaiani lo chiama con un gesto verso il suo furgone. Una bambina seduta dentro il rimorchio gli tira in testa una banana, ma Strickland è troppo nauseato per reagire. Il colombiano lo accompagna in città, ovvero tre, quattro isolati quadrangolari formati di carretti di frutta scricchiolanti con le ruote di legno e circondati da bambini scalzi con le pance gonfie. Strickland si aggira per i negozietti e compra a istinto: un accendino, un insetticida, sacchetti di plastica sigillabili, talco per i piedi. Il bancone su cui fa scivolare i pesos trasuda lacrime di umidità.Sull’aereo ha studiato una frase nella loro lingua: «Você viu Deus Brânquia?»
I commercianti ridacchiano e si toccano la gola con le mani. Strickland non ha nessun cazzo di idea del perché. Quella gente ha un odore pungente e metallico, come bestiame macellato di fresco. Si allontana lungo una strada bitumata che gli si squaglia sotto le scarpe e scorge un ratto smunto all’osso che si dibatte nel fango scuro. Sta morendo, e lentamente. Le sue ossa sbiancheranno e affonderanno nel catrame. Quella è la strada più bella che Strickland vedrà per un anno e mezzo.
2
La sveglia scuote il comodino. Senza nemmeno aprire gli occhi, Elisa cerca con la mano il bottone ghiacciato sulla parte superiore. Emerge or ora da un sogno profondo, soffice e tiepido; e lo rivuole indietro, anche solo per un minuto tentatore. Ma il sogno si dissipa nella veglia e non si fa rincorrere, è sempre così. C’era acqua, acqua scura… Questo lo ricorda. Tonnellate d’acqua che la schiacciavano, ma lei non affogava. Anzi, dentro quell’acqua respirava meglio di come respira ora, nella vita reale, da sveglia, in queste stanze piene di spifferi, con questo cibo da due soldi, e con la corrente che va e viene.
Il suono delle tube erompe dabbasso e una donna grida. Elisa sospira contro il cuscino. È venerdì, il primo giorno di proiezioni del nuovo film della programmazione settimanale dell’Arcade, il cinema aperto giorno e notte al piano di sotto, e questo significa nuovi dialoghi, nuovi effetti sonori e attacchi musicali che lei dovrà integrare nei suoi rituali del risveglio, se vuole evitare colpi apoplettici e continui infarti. Ora è il turno delle trombe; ora già non più, ora sono masse di uomini che urlano. Elisa apre gli occhi, prima sull’orologio, che indica le dieci e mezzo di sera, e poi sulle lame di luce del proiettore che filtrano tra le assi del pavimento, accendendo i gomitoli di polvere di sfumature technicolor.
Si siede e stringe le spalle per il freddo. Perché l’aria odora di cioccolato? Lo strano odore è accompagnato da un rumore fastidioso: un camion dei pompieri a nord-est di Patterson Park. Elisa cala i piedi sul pavimento freddo e osserva la luce del proiettore piroettare e sfavillare. Quantomeno questo nuovo film è più luminoso del precedente, una pellicola in bianco e nero intitolata Carnival of Souls, e i colori vividi che sgorgano dal pavimento tra i suoi piedi quasi le concedono di scivolare di nuovo nel limbo onirico: ora è ricca, ricchissima, e una schiera di venditori dai modi servili e compiacenti le sta proponendo una grande varietà di scarpe variopinte. Ma lei è decisamente incantevole, signorina. Con un paio di scarpe come questo conquisterà il mondo.
E invece è proprio il mondo ad avere conquistato lei. Non esiste quantità di ninnoli comprati per due spiccioli dagli svuotacantine e appesi ai muri in grado di nascondere il legno sgranocchiato dalle termiti o di distrarla dagli insetti che schizzano a nascondersi non appena accende la luce. Lei sceglie di non farci caso. È la sua unica speranza di arrivare fino a sera, al giorno seguente, alla vita che verrà. Si sposta nel cucinotto, imposta il timer, immerge tre uova in un pentolino d’acqua e va in bagno. Elisa fa solo il bagno nella vasca, mai la doccia. Si leva di dosso la camicia da notte mentre l’acqua scorre. Le sue colleghe di lavoro lasciano riviste femminili sui tavolini della mensa, e ormai sono innumerevoli gli articoli che hanno informato Elisa su quali specifici centimetri quadrati del suo corpo siano degni beneficiari delle sue ossessioni. Fianchi e seno, però, non possono nemmeno essere messi a paragone con le cicatrici cheloidee gonfie e rosee che ha su entrambi i lati del collo. Si piega in avanti finché la spalla nuda non tocca il vetro. Ogni cicatrice è lunga quasi otto centimetri e si snoda dalla giugulare alla laringe. Da lontano, la sirena si avvicina. Elisa vive a Baltimora, da trentatré anni, da quando è nata; quindi è perfettamente in grado di localizzare il rumore del camion dei pompieri, che al momento sta percorrendo la Broadway. Anche quelle cicatrici sul collo non sono forse una cartina stradale, una mappa? Posti in cui è stata e di cui è meglio scordarsi?
Affondare le orecchie sotto il pelo dell’acqua della vasca amplifica i rumori del cinema. Morire per Chemosh vuol dire vivere in eterno! grida una ragazza nel film. Elisa non ha idea se ha sentito bene.
Si fa scivolare una scheggia di sapone tra le mani, godendosi la sensazione di essere più umida dell’acqua, talmente scivolosa che può fendere i liquidi come un pesce. Le tracce di piacere del sogno appena concluso le si sdraiano addosso, pesanti come il corpo di un uomo. Il contraccolpo erotico è immediato e travolgente; Elisa fa scivolare le dita insaponate tra le cosce. In passato ha frequentato persone, ha fatto sesso, ha fatto tutte le esperienze che doveva fare. Ma ormai sono passati anni. Quando gli uomini incontrano una donna muta, si approfittano di lei. Mai, neppure una volta, gli uomini con cui era uscita avevano provato a comunicare davvero. Si erano limitati ad afferrare e a strappare come se lei, creatura senza voce come un animale, fosse davvero un animale. Questo qui invece è meglio. L’uomo del sogno, per immaginario che sia, è meglio.
Ecco però che il timer, quell’infernale rompiscatole, tin-tin-tintinna. Elisa balbetta, imbarazzata come se non fosse sola in casa, e si alza, con gli arti ancora lucenti e gocciolanti. Si avvolge nell’accappatoio e, tremando, ritorna con passo felpato in cucina, dove spegne il fornello e accoglie la notizia funesta: sono le 23.07. Come ha fatto a perdere tutto quel tempo?
Si strizza dentro un reggiseno preso a caso, si abbottona dentro una camicetta a caso e si alliscia una gonna a caso. Si era sentita rabbiosamente viva in sogno, ora invece è inerte come le uova che si stanno raffreddando nel piatto. C’è uno specchio anche lì, in camera da letto, ma lei sceglie di non guardarlo, nell’eventualità che il suo sospetto sia fondato e che lei sia diventata invisibile.
3
Non appena Strickland trova il battello, un quindici metri, nel luogo previsto, prende dalla tasca il suo nuovo accendino e riduce in cenere il rapporto di Hoyt, come da procedura standard. Adesso è evidenziato in nero tutto quanto, pensa, non solo le parti censurate. Come tutto ciò che lo circonda, anche la barca è un insulto ai suoi standard militari. È immondizia inchiodata ad altra immondizia. La ciminiera è rattoppata con lamine di stagno. Gli pneumatici sopra le murate sembrano sgonfi. Un lenzuolo tirato fra quattro pali fornisce l’unica ombra di tutta l’imbarcazione. Farà caldo, ma questo va bene. Aiuterà a bruciare i pensieri infestanti su Lainie, sulla loro casa fresca e pulita, sui sussurri delle palme della Florida. Gli farà bollire il cervello nel genere di furore che una missione del genere richiede.
Acqua marrone e putrida spruzza tra le doghe del molo. Alcuni membri dell’equipaggio sono bianchi, alcuni sono scuri, altri sono rosso mattone. Alcuni hanno il corpo pitturato e la pelle bucata da piercing. Tutti trascinano casse umide lungo un’asse che si piega sotto il peso con effetto drammatico. Strickland li segue e raggiunge lo scafo su cui è scritto il nome Josefina. Piccoli oblò suggeriscono la presenza di un ponte di comando a dir poco raffazzonato, grande abbastanza da ospitare unicamente il capitano. La sola parola capitano lo irrita a morte. Lì l’unico capitano è Hoyt, e Strickland è il suo vice. Non è dell’umore adatto ad affrontare qualche barcaiolo deficiente convinto di essere al comando. Rintraccia subito il capitano, un messicano occhialuto con la barba bianca, la camicia bianca, i pantaloni bianchi e un cappello di paglia bianco che sta firmando le liste di carico con gesti fin troppo plateali. L’uomo grida «Signor Strickland!», e lui si sente come trasportato dentro una di quelle scene dei Looney Tunes, quei cartoni animati che guarda il figlio: «Señor Striiiicland!» Mentre ancora stava sorvolando i cieli di Haiti, era riuscito a mandare a memoria il nome di quell’uomo: Raúl Romo Zavala Henríquez. Adattissimo, visto che comincia bene e subito sbraca nella pomposità.«Guarda! Escoces e puros cubanos, amico mio, tutti per te.» Henríquez gli allunga un sigaro, se ne accende uno a sua volta e riempie due bicchieri. Strickland è stato addestrato a non bere in servizio, ma concede a Henríquez il brindisi che tanto desidera. «A la aventura magnífica!» Bevono, e Strickland ammette tra sé che è una bella sensazione. Tutto pur di ignorare, almeno per un po’, l’ombra lunga del generale Hoyt e ciò che comporterebbe per il suo futuro se fallisse nel «motivare» Henríquez al punto giusto. Per la durata del brindisi, il calore delle sue budella arriva a sfidare quello della giungla. Henríquez è un uomo che ha evidentemente passato troppo tempo a fare anelli di fumo: sono tutti perfetti. «Fuma, bevi, divertiti! È il massimo del lusso che ti spetta per un bel po’ di tempo. È bene che non sei arrivato in ritardo, signor Strickland. Josefina è impaziente di partire. Lei è come l’Amazzonia, non aspetta nessuno.» A Strickland non piace il sottotesto. Mette giù il bicchiere e lo fissa. Henríquez ride e batte le mani. «Giusto, giusto. Uomini come noi, pionieri del Sertão, non tradiscono la propria eccitazione. Los brasileños hanno una parola nobile per noialtri: sertanista. Ha un bel suono, no? Non ti scalda il sangue nelle vene?» Henríquez racconta poi con frustrante dovizia di particolari il suo viaggio verso un avamposto dell’Instituto de Biología Marítima. Sostiene di aver visto – e toccato con le sue manos! – fossili calcarei che corrispondono alla descrizione del Deus Brânquia. Gli scienziati hanno datato i reperti e a quanto pare appartengono al periodo devoniano, che, lo sapevi señor Striiicland?, appartiene all’era paleozoica. Questo, declama Henríquez, è ciò che attira uomini come loro verso l’Amazzonia. È il luogo in cui la vita primordiale continua ancora a prosperare, in cui l’uomo può stracciare il calendario e toccare l’intoccabile.
Strickland si tiene la sua domanda per un’ora. «Ti è arrivato il contratto? L’hai letto?»
Henríquez spegne il suo sigaro e strizza lo sguardo fuori dell’oblò. Là fuori vede qualcosa di cui sorridere e fa un gesto pomposo. «Vedi quei tatuaggi in faccia? Quei piercing di legno nel naso? Questi non sono indiani augh come i vostri, non sono addomesticati. Questi sono indios bravos. Conoscono ogni chilometro di foresta amazzonica, da Negro-Branco a Xingu, ce l’hanno nel sangue. Sono originari di quattro tribù diverse. E io sono riuscito ad assicurarmi i loro servizi di guide! Signor Strickland, è impossibile che questa spedizione si smarrisca.»
Strickland ripete: «Hai ricevuto il contratto?»
Henríquez si sventola con la tesa del cappello. «I tuoi americani mi hanno mandato per posta il ciclostilato. Molto bene. La nostra expedição científica seguirà quelle lineette tremule finché sarà possibile. Da lì, mio caro, procederemo a piedi! Individueremo i vestigios, ovvero ciò che resta delle antiche tribù. Queste persone hanno sofferto le conseguenze dell’industrializzazione più di quanto si possa immaginare. La giungla ingoia le loro grida. Noi, però, veniamo in pace. Offriremo doni. Se il Deus Brânquia esiste, saranno loro a dirci dove trovarlo.»
Attenendosi al lessico del generale Hoyt, si può dire che il capitano è motivato, e questo Strickland non ha difficoltà a concederglielo. Ma ci sono anche segnali preoccupanti. Se Strickland ha imparato qualcosa sulle terre selvagge, è che ti lasciano segni dentro e fuori. E in luoghi del genere non ci si veste mai di bianco, a meno che non si sappia bene in cosa diavolo ci si sta imbarcando.
L’autore

Guillermo del Toro Gómez è nato a Guadalajara, il 9 ottobre 1964. Da giovane Del Toro studiò nell’Istituto de Ciencias, a Guadalajara, e fu allevato dalla nonna, molto cattolica. Ebbe il suo primo coinvolgimento con il mondo del cinema quando aveva circa 8 anni, fino a quando, nel 1986, produsse il suo primo film, all’età di 21 anni. Prima di ciò passò circa 10 anni come disegnatore di make up, e formò la sua compagnia, Necropia, nei primi anni ottanta. Inoltre fondò assieme ad altri il Guadalajara Mexican Film Festival. Successivamente formò la sua propria compagnia di produzione, la Tequila Gang. Nella sua carriera di regista, del Toro ha alternato il proprio lavoro tra opere in lingua spagnola incentrate su temi dark fantasy, come le pellicole gothic La spina del diavolo (2001) e Il labirinto del fauno (2006), per il quale è stato candidato per due Oscar come miglior film straniero e migliore sceneggiatura originale, e classici film d’azione americani, come il film supereroistico sui vampiri Blade II (2002), il soprannaturale Hellboy (2004), il suo seguito Hellboy: The Golden Army (2008) e il monster movie fantascientifico Pacific Rim (2013). Il film fantasy La forma dell’acqua – The Shape of Water (2017) ha ricevuto le lodi della critica e ha vinto il Leone d’oro alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, facendo inoltre ricevere a del Toro due Oscar nelle categorie miglior regista e miglior film, oltre a una candidatura per la migliore sceneggiatura original; del Toro ha ricevuto molti altri riconoscimenti per i suoi lavori da regista, vincendo nella suddetta categoria ai Golden Globe, ai BAFTA e ai Directors Guild of America Awards.
Fonte: Wikipedia.
Guillermo Del Toro e Daniel Kraus,
La forma dell’acqua. Traduzione: Flavio Ianelli e Silvia Minucelli. Editore: Tre60
pagg. 432