Il film cult con James Dean compie 70 anni e continua a parlare a più generazioni di ribelli.

LA GIOVENTÙ BRUCIATA HA 70 ANNI
Marcello Veneziani
Settant’anni fa nasceva Gioventù bruciata, il film che diede voce al disagio giovanile e creò un archetipo immortale: quello del ribelle senza causa. Diretto da Nicholas Ray e interpretato da un James Dean mitico e maledetto, il film divenne subito più di un’opera cinematografica: si trasformò in un simbolo generazionale, una vera e propria “bibbia” per i giovani inquieti, arrabbiati, alla ricerca di identità e libertà. Dietro la pellicola si nasconde una vicenda oscura e profetica: tutti e tre i protagonisti moriranno giovani, vittime di un destino che sembra scritto nelle sceneggiature della vita. Veneziani riflette su come quella gioventù “bruciata” abbia acceso un fuoco duraturo: dalle ribellioni rock degli anni Sessanta alle proteste nei campus americani, dal mito beat alla controcultura, un’eredità che ancora oggi influenza l’immaginario collettivo. Un’icona nata dal dolore, dalla fragilità e dalla voglia di cambiare il mondo, anche a costo di perdersi. (f.d.b.)
Settant’anni fa nacque il mito della gioventù bruciata che fu il modello a cui si ispirarono le generazioni ribelli degli anni Sessanta e settanta. In principio fu un film, Gioventù bruciata, con James Dean; film di culto e di formazione, diventato modo di dire, divisa generazionale, modello di ribellione e conflitto generazionale.
Quel film vide la luce nel 1955 e il suo protagonista perse la luce nello stesso anno, nei giorni di settembre. Un film che parlava di angeli infelici e maledetti, dalla vita spericolata e breve, e così fu davvero per i tre protagonisti che morirono tutti e tre, giovani, con morti strane e violente: Natalie Wood, Sal Mineo e appunto James Dean.
Il film era stato girato da Ray con l’ossessione di interpretare la realtà ed Elia Kazan che lo dirigeva, chiedeva agli attori di identificarsi con i personaggi. Lo fecero fino in fondo, a prezzo della vita. Caso tragico di film che sconfina nell’esistenza dei protagonisti. Quel film, non eccezionale dal punto di vista artistico e cinematografico, diventò la bibbia di una generazione, anzi di più generazioni. Quella coetanea, alimentata da Elvis Presley e da Marlon Brando, protagonista di Fronte del Porto e dei giovani bruciati che ne seguirono; poi venne la generazione beat e il rock negli anni Sessanta, a soffiare sul fuoco venne la guerra nel Vietnam e poi la rivolta nei campus e nelle università.
Ma col passare del tempo quel film ha assunto un altro sapore: ora che navighiamo tra famiglie sfasciate, coppie separate e figli allo sbando, quel film ne proponeva il ritratto con più di mezzo secolo d’anticipo. Quella gioventù sbandata e bruciata, in preda ad alcol, velocità, rock e droga, usciva da famiglie distrutte, da madri psicolabili e da padri infantili frustrati. Quel ritratto precorreva il mondo contemporaneo: naturalmente allora come ora, non tutti i giovani ebbero e hanno quella sorte: ma si tratta di un campione rappresentativo che porta all’eccesso una tendenza sociale e generazionale di fondo.
James Dean era bello e malinconico, con la faccia d’angelo e l’occhio inquieto, le labbra imbronciate che dicono senza parlare, jeans e maglione. Morì ragazzo con l’auto lanciata a folle velocità e così rimase il simbolo della trasgressione e della gioventù che non invecchia, dell’irrequietezza che si fa avventura, gioco estetico ed esistenziale, morte precoce e mito americano. La vita gli risparmiò la parabola di Marlon Brando, il suo corpo sfatto e obeso, la sua fuga in Polinesia per recuperare l’origine.

Live fast, die young: James Dean rispettò quel suo motto alla lettera, dalla velocità fino alla morte. E la sua canzone preferita, Nature boy diventò la colonna sonora dei suoi devoti. Dean è il simbolo dei figli di divorziati, lui che nutriva rancore verso i padri e soffriva la mancanza di una madre. Nella Valle dell’Eden interpretò il ruolo di figlio di puttana, non per modo di dire. Ma James Dean e il suo film rappresentano soprattutto un modello, il Ribelle.
Il titolo originale di Gioventù bruciata era infatti Ribelle senza una causa (Rebel without a cause). Un titolo che riassume bene il senso della ribellione negli anni seguenti: la ribellione come stile di vita senza scopo, il nichilismo e l’estetismo di fondo, il piacere assoluto dell’esperienza vitale e singolare.
I comunisti italiani stroncarono quel mito, non solo per antiamericanismo militante ma anche perché vedevano in lui tracce di superuomo, individualismo e decadenza. C’era un forte moralismo nei comunisti di una volta. Con toni da giornale conservatore la rivista comunista Nuova generazione condannava Dean e i beat in cui vedeva “un allucinante intrecciarsi di misticismo, evasione, jazz e marijuana. Il frutto ultimo e più esasperato di quello squallore e di quella paura d’affrontare la realtà, quel complesso infantile”. Sembra la critica ante litteram dei vecchi padri moralisti ai sessantottini e ai giovanilismi… “Vie nuove” di Pietro Longo stroncava Dean e invocava una tutela pedagogica su questi sbandati e sulla loro sindrome di Peter Pan. Qualche anno fa Stephen Gundle ricostruì la storia de “I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca”, con la critica del vecchio Pci moralista e conservatore ai ribelli e ai beat.
In effetti, il ribelle nasce da una costola anarchica e libertaria della cultura dannunziana e nietzscheana. Quattro anni prima del Ribelle era uscito il Trattato del ribelle (1)di Ernst Junger. E il Nichilista di Gottfried Benn, l’Autarca di Evola, l’Anarca dello stesso Junger, il Kurtz di Conrad e l’Avventuriero di Lawrence somigliano troppo ai film di Dean o ai libri di Kerouac, ai viaggi di Chatwin e ai testi di Ginsberg.Il ribelle è figlio di un romanticismo impazzito, debordato dalla letteratura nella filosofia attraverso tre modelli: l’Unico di Stirner, il Prometeo del giovane Marx e il Superuomo di Nietzsche. (2)
Il ribelle porta sull’orlo delle sue estreme conseguenze l’Occidente che non crede in nulla eccetto che nella sua potenza e velocità; per incontrarsi alla fine con un vago desiderio d’Oriente, di pause mistiche, spezie ed erbe. Al ribelle però manca l’ultima ribellione: quella contro la prigionia nel proprio egocentrismo e nel proprio narcisismo, la convinzione che l’unico dio sia d’Io.
Di quello patì la generazione di James Dean ma anche di quello patiscono i ragazzi d’oggi in preda al delirio di viversi addosso e di considerare che il mondo nasca e finisca con loro. Quel mito ci aiuta capire l’oggi e i suoi precedenti, i ragazzi sbandati e le famiglie spappolate. James Dean fu il capostipite dei ragazzi d’oggi, morto ragazzo e di quel film che ne celebrò la nascita e insieme la scomparsa. Col ‘68 la ribellione diventò politica e sociale, collettiva e aggressiva; invece siamo tornati all’individualismo trasgressivo e autodistruttivo, al trionfo del privato e del narcisismo; al disagio di vivere e all’era della fragilità. La solitudine riprese il sopravvento sul collettivismo.


Approfondimento del Blog
Nei primi anni del dopoguerra, mentre si andava delineando quella integrazione planetaria nel nome della tecnica che oggi è sotto gli occhi di tutti, Ernst Jünger elaborò questo testo, apparso nel 1951, oggi più affilato che mai. La figura del Ribelle jüngeriano corrisponde a quella dell’anarca, del singolo braccato da un ordine che esige innanzitutto un controllo capillare e al quale egli sfugge scegliendo di «passare al bosco» – dissociandosi, una volta per sempre, dalla società. Il Ribelle jüngeriano sente di non appartenere più a niente e «varca con le proprie forze il meridiano zero». Tutta l’eredità del nichilismo, del radicalismo romantico e della furia anti-moderna si concentra in questa figura, qui osservata come facendo ruotare un cristallo. Letto oggi, questo testo appare di una impressionante preveggenza, quasi un guanto di sfida gettato in nome di una libertà preziosa: «la libertà di dire no».

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