La caratteristica più evidente del tempo che ci è toccato in sorte è la bruttezza

Quentin Massys La Duchessa brutta (1513).

LA GRANDE BRUTTEZZA 

La caratteristica del tempo che ci è toccato in sorte è “la bruttezza”. Si vive in una “bolla di baccano” da cui la bellezza e il senso estetico sono espulsi: dovunque trionfa l’informe, l’eccessivo e l’esclusivamente funzionale


La caratteristica più evidente del tempo che ci è toccato in sorte è la bruttezza. È un‘epoca che ha destituito la bellezza e messo sul trono tutto ciò che è deforme, inusitato, sordido, brutto in senso estetico e morale. Non sappiamo se la bellezza salverà il mondo, come esclamò il principe Myshkin, l’Idiota di Dostoveskji, ma siamo certissimi che la bruttezza lo perderà. È tonificante ricordare che oltre duemilacinquecento anni fa i greci costruirono una civiltà i cui principi erano l’etica e l’estetica. Nel Simposio, Platone definisce una teoria della bellezza come cibo dell’anima. “Quando faccio discorsi filosofici o ascolto quelli altrui, ne godo enormemente.”

Anselm Feuerbach, Il simposio di Platone. (Wikipedia)
Prassitele (Atene, 400/395 a.C. – 326 a.C.) – Afrodite cnidia. Copia romana da un originale marmoreo del 360 a.C. circa. Città del Vaticano, Roma

La bellezza è un’idea da cui si deduce una forma, intesa come essenza dell’universo e porta d’accesso al trascendente. Basta girare per le strade delle nostre città per essere investiti, aggrediti dalla bruttezza: di gran parte degli edifici, dell’incuria, dell’atteggiamento e dell’abbigliamento, del vaniloquio e del turpiloquio, dell’eccesso ostentato, rilanciato in forme sempre più estreme. Si vive in una bolla di baccano da cui la bellezza, l’arte, il senso estetico sono espulsi: dovunque trionfa l’informe, l’eccessivo, l’esclusivamente funzionale. Aristotele, nella Metafisica, riconosce come principali elementi della bellezza l’ordine, la simmetria e la precisione, intesi come “principio causale di molte cose”. La sua estetica si afferma nella ricerca dell’essenza, la compiutezza e perfezione che chiama entelechia. Noi ci limitiamo a ricercare la spiegazione del bello nel gusto e nel sentimento individuale: un’estetica relativista.

Roger Scruton, il filosofo conservatore inglese, dedicò alla bellezza un libro di struggente fascino, dal titolo potente e sintetico, BeautyLa bellezza può consolare o turbare; può essere sacra o profana; può essere divertente, stimolante, ispiratrice, raggelante. Può influenzarci in infiniti modi, ma mai viene considerata con indifferenza: la bellezza esige di essere notata.”. Per Scruton la bellezza è un valore reale e universale, radicato nella nostra natura razionale: solo l’uomo giudica il bello e ne prova piacere. “Il senso della bellezza è un ingrediente indispensabile per la vita di ogni uomo, la materia prima necessaria per la costruzione di un mondo abitabile, dove sentirsi a casa.” È il valore della forma come causa e senso, significato della vita. Una solida risposta al relativismo postmoderno.

Konrad Lorenz, etologo, scienziato dei comportamenti, lamentava la totale cecità psichica di fronte alla bellezza in tutte le sue forme, che dilaga ovunque e costituisce una malattia mentale da non sottovalutare, che va di pari passo con l’insensibilità verso tutto ciò che è moralmente condannabile. Una chiave di lettura “etica” della bellezza che la dice lunga su tanti sconcertanti comportamenti di massa.

Papa Innocenzo X

Sino al secolo XIX la bellezza si associava alla verità e al bene, era un orizzonte a cui tendere, un modello e una speranza. Attribuiva senso a un’opera e a uno sguardo. Anche la rappresentazione di ciò che è “brutto”, sordido o orribile veniva trascesa e diventava dottrina della conoscenza sensibile, esperienza universale, simbolo. Pensiamo all’Uovo di Alfred Kubin (1901), a certi quadri di Goya, al ritratto di Diego Velàzquez del papa Innocenzo X, un uomo brutto, anziano, quasi prigioniero dell’abito del suo ufficio, ma potente, perfetta rappresentazione simbolica del potere e delle responsabilità.

Marcel Duchamp. L’opera originale fotografata da Alfred Stieglitz

Il secolo XX ha cambiato tutto. Il modernismo, nella sua ricerca ossessiva del nuovo e nel rigetto programmatico di ogni passato, trovò quello che intendeva per rinnovamento e “ri-creazione” nel rifiuto di ogni tradizione artistica. Era certo più facile applicare un paio di baffi alla Gioconda, esporre un orinatoio e chiamarlo opera d’arte (Marcel Duchamp, 1917), sino alla Merda d’artista di Piero Manzoni (1961), barattoli di latta con etichetta identificativa, gettare pennellate o schiacciare tubetti di colore come nell’espressionismo astratto (due termini che si negano). Scruton ci richiama ai fondamentali: se perdiamo la bellezza perdiamo il significato della vita, ma “chi cerca la bellezza nell’arte è davvero fuori dalla realtà moderna”.(P.I.)

Piero Manzoni con i suoi barattoli di “Merda d’umore”

Attraverso la bellezza emergiamo dallo stato di distrazione permanente nel quale siamo soliti abitare per trovare un significato, accarezzare ciò che è atemporale, rintracciare spazi interiori che fanno pulsare il nostro essere spirituale. Occhi aperti ed emozioni libere: il messaggio del fiore è il fiore, sussurra Scruton.

L’uomo si è espresso per mezzo dell’arte sin dalla sua apparizione sulla scena del mondo: lo dimostrano i graffiti delle grotte di Altamura, l’amore primigenio per l’armonia dei suoni che ha prodotto la musica, il linguaggio del corpo che si muove armonioso nella danza. Nietzsche arrivò a scrivere che avrebbe creduto solo in un Dio che danza. In tutte le ricerche archeologiche, sono stati rinvenuti monili e oggetti decorativi; ogni prodotto e strumento di uso comune veniva “trasceso”, realizzato in forma artistica, non esclusivamente strumentale, come rappresentazione del bello e dell’unico, il contrario della modernità, tempo della riproducibilità (Walter Benjamin).

Oggi consideriamo arte qualsiasi forma di creatività o di espressione, anche la più assurda o bizzarra. Le arti hanno abbandonato l’ambizione di universalizzare e formare. Le arti figurative hanno perduto anche la funzione di rappresentare la realtà e l’uomo, ancor prima di trasmettere un messaggio. In Grecia la bellezza e la bontà erano collegate: non ci poteva essere il bene senza il bello. Nell’Iliade, Omero raffigura un soldato greco brutto, storto, vile: è Tersite, colui che vuole tornare a casa, mancare alla promessa di coraggio e di virtù. La modernità lo ha rivalutato: per il marxista Concetto Marchesi, Tersite è il simbolo degli oppressi di ogni tempo; la sua stessa deformità diventa modello positivo.

L’architettura ha sempre cercato di esprimere il superamento del tempo, lavorando, per così dire, per l’eternità. Così le piramidi egizie, le sette meraviglie dell’antichità; perfino opere di ingegneria come gli acquedotti dovevano essere belli e sfidare i secoli. Adesso, conta solo la grandezza, l’enormità, l’utilità. Nessun edificio è più pensato e realizzato per una funzione specifica, per rappresentarla ed esercitare quindi un’attrazione simbolica; un palazzo di giustizia è uguale a un ospedale, un’università alla sede di una compagnia finanziaria.

Da Vienna, nella temperie di fine impero in cui si forgiò la nuova Europa, Adolf Loos tuonò contro l’ornamento, considerato un delitto, espose una teoria volta alla produzione di oggetti di forma semplice e funzionale, fondando il razionalismo e il gusto architettonico contemporaneo, un vero e proprio materialismo estetico. Quanta differenza con la Vienna scintillante di Fischer Von Ehrlach, il Bernini asburgico, l’architetto prodigioso che erige gli edifici simbolici per antonomasia dopo la grande paura dell’assedio turco, e detta, spiegandola attraverso le pietre, la missione dell’impero.  

Sulle piste di Oswald Spengler, si può dire che anche rispetto all’arte e alla categoria di bellezza, l’Europa e l’Occidente hanno cessato di essere “civiltà” viva e feconda per diventare civilizzazione, ossia ripetizione, maniera, deprivata di simboli e di quella che chiamava “forma”. Lo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr colse quella rottura e la definì “perdita del centro”. Se l’arte è per la storia delle comunità umane, “ciò che il sogno di un uomo è per lo psichiatra” (René Huyghe), come dare torto a Sedlmayr quando afferma “in un’epoca nella quale vasti campi dell’esistenza umana si sono demonizzati, come potrebbe proprio l’arte, il più sensibile dei sismografi alle scosse interiori, sfuggire alla demonizzazione?

La frattura non più ricomposta con il passato, con la continuità spirituale dell’espressione artistica è avvenuta per Sedlmayr “non dove è stato tolto l’oggetto, ma dove è stato tolto il significato.” Sino a Kandinsky, L’arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro.» [Vasilij Kandinskij, Punto, linea, superficie] n.d.b.) non il dominio della forma costituisce il compito dell’artista, ma l’adattamento della forma al contenuto, o, per dirla con Sedlmayr “della forma visibile al significato voluto”. È un’allusione a Tommaso d’Aquino, per il quale un’opera d’arte è tale se è creata con la ragione e risulta “bella”, ossia piacevole alla vista esteriore e allo sguardo dell’anima, che è percezione, conoscenza intellettuale, non solo appagamento sensibile. L’artista ha il compito di lavorare sulla materia e darle una forma; l’opera d’arte è bella se, oltre a suscitare il piacere dei sensi, permette di intravvedere l’origine stessa della bellezza, che per il grande domenicano è Dio.

Frans Pourbus il Giovane, Ritratto di Giovanni Battista Marino, c. 1621. Detroit, Detroit Institute of Arts (Wikipedia)

Quale di questi concetti si può rintracciare nell’arte – o sedicente tale – della contemporaneità, alla quale si attaglia piuttosto la definizione di Giambattista Marinoè del poeta il fin la meraviglia”, privata tuttavia dell’intento pedagogico ed estetico del barocco cui allude il poeta napoletano? Arte come semplice stupore, épater le bourgeois, sbalordire il borghese, pugno nello stomaco, o happening, evento che accade senza un inizio e una fine, dunque informe, immediato: un prodotto da consumare. Brutto è il bello e bello è il brutto, l’inversione delle streghe di Macbeth applicata all’arte.

Las Meninas Diego Velázquez (1656). Museo del Prado, Madrid. (Wikipedia)

Che differenza, ad esempio, con la nana di Velàzquez nelle Meninas, certo non “bella”, ma universalizzata, ricondotta a “forma”. L’espressionismo aveva manifestato il suo rancore contro la società istituzionalizzando la bruttezza esteriore dei suoi personaggi come specchio di aridità interiore, di un materialismo greve, ripugnante, ad esempio nei Pilastri della Società di George Grosz, ma ancora entro la cornice della rappresentazione dell’uomo. L’ l’impressionismo aveva già rinunciato al significato in nome dell’”impressione”, dell’attimo, ponendosi su un piano descrittivo, un gioco di luci, allusioni, rappresentazioni di paesaggi o luoghi in varie ore del giorno. Il Novecento ha espulso la natura e l’uomo dalla pittura e perfino dalla scultura. Ha spesso ridotto l’architettura – arte dell’ambiente urbano – a ingegneria, uso razionale degli spazi per i fini economici dei committenti.

Per i Greci, l’uomo è dominato da due impulsi, quello dionisiaco e quello apollineo. Il primo consiste nella consapevolezza di vivere una realtà caotica e precaria. Il secondo è l’aspirazione all’ordine, alla forma, al raziocinio, il cui spirito trova realizzazione nelle arti plastiche, ossia nella creazione di forme e figure limpide e definite. L’arte è la trasfigurazione del dionisiaco e dell’apollineo, che insieme esprimono il sublime. Per Benedetto Croce, caratteristica dell’arte è l’intuizione, che deve essere “compiutamente espressa”, corrispondere cioè ai canoni epistemologici ed estetici di ciascuna disciplina. Come considerare arte, dunque, la semplice creatività, l’espressione fine a se stessa, lo sfogo, l’irrazionale, se non con le categorie dell’inganno e della decadenza?

Lo stesso Sigmund Freud, “maestro del sospetto”, colui che credette di rinvenire il movente dell’agire umano negli impulsi più bassi, intuì che l’arte sfugge alle categorie interpretative comuni. Possiamo aver compreso tutto di Dante Alighieri, ma non saremo mai in grado di scrivere la Divina Commedia in quanto i processi di elaborazione di Dante sono diversi da quelli di chiunque altro. È il mistero dell’arte: intuizione, creazione, emozione, messa in forma e trasmissione a chi legge, guarda, ascolta. L’inventore della psicanalisi, tuttavia, non sfugge a un’interpretazione riduttiva: l’arte paragonata al gioco del bambino, l’elemento che permette di oggettivare le fantasie. 

La lezione di Freud incrocia il marxismo, le cui riflessioni sull’arte riguardarono soprattutto la cosiddetta avanguardia storica, espressionismo, futurismo, dadaismo, surrealismo e tutte le espressioni artistiche tese a spezzare i legami con la classicità e la tradizione. Ernst Bloch fu un autentico crociato di quelle che chiamava sclerotizzazioni dell’arte nelle forme figurative. Se l’opera d’arte è apprezzata “quanto più somiglia al modello, tanto vale andare a vedere l’originale”, ovvero, senza perdere tempo, si scatti una fotografia. Ma allora che cosa è arte, qual è il rapporto con la bellezza, quali i canoni estetici e addirittura, esiste un senso dell’arte e una definizione di bellezza? Dalla mancata risposta a queste domande deriva il tramonto dell’arte, l’indifferenza, la soggettivizzazione dell’estetica e il dilagare della confusione che genera bruttezza.

A parte gli echi di un platonismo di risulta (l’arte come copia della realtà, a sua volta copia dell’Idea che sta nell’Iperuranio), la tesi di Bloch pecca di intellettualismo: l’arte parla di noi, ma in maniera criptica, nascosta, necessita di interpretazione. Al contrario, l’arte vera fornisce una commozione immediata, determina un cortocircuito emotivo, esercita un fascino e un’influenza su ciascun uomo fino a cambiarlo. Pensiamo all’impressione profonda che si prova di fronte a certi dipinti, a vette della poesia, a musiche universali o a capolavori dell’architettura. In essi, vi è sempre un “centro”, una “forma”, una capacità di attrazione del cuore e dello spirito. Nulla di più estraneo al materialismo che attraversa la civilizzazione moderna e postmoderna.

Lo scrittore francese Marie-Henri Beyle, meglio conosciuto come Stendhal (Wikipedia)

La sindrome di Stendhal (n.d.b.)

La sindrome di Stendhal è un’affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiri, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza, specialmente se sono localizzate in spazi limitati.

Il nome di questa sindrome è attribuito allo scrittore francese Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyle (1783-1842), che ne fu personalmente colpito durante il suo Grand Tour effettuato nel 1817, e ne diede una prima descrizione che riportò nel suo libro Roma, Napoli e Firenze:

«Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere

Nel XIX secolo, l’ultimo a interpretare l’arte e la bellezza in senso spirituale fu John Ruskin, che vedeva nel tramonto dello stile gotico la decadenza spirituale della civiltà. La polemica di Ruskin attaccava la nascente civiltà industriale, che distruggeva l’originario rapporto creativo tra uomo e cultura. Fu il primo a comprendere che l’industria avrebbe destituito l’artigianato e reso marginale il ruolo dell’arte, oggettivazione di valori superiori. Accennavamo all’opera di Benjamin sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e quindi alla sua massificazione. Il tema verrà ripreso da Theodor W. Adorno, convinto che l’arte – quindi la bellezza che esprime – sia un campo ristretto a pochi esperti, una tesi assai triste. L’arte, per Adorno, è uno specchio incrinato che deforma la realtà nel momento in cui la manifesta: puro nichilismo.

Il rapporto della modernità con la bellezza risente del materialismo radicale e dell’incapacità di comprendere ciò che non può essere calcolato, quantificato, definito in termini numerici o scientifici. La bellezza è emozione e commozione, desiderio di trascendenza, intuizione lirica: nulla di più estraneo allo spirito del tempo. Nel regno della quantità, evoca la qualità e l’incommensurabilità. Ci siamo abituati alla bruttezza al punto di non percepirla più in quanto il suo contrario – la bellezza – non attiene al regno dei mezzi e al rapporto costi-benefici. Lo comprese il romanziere Theophile Gautier: “nulla di ciò che è bello è indispensabile alla vita. Di veramente bello c’è soltanto ciò che non può servire a nulla; tutto ciò che è utile è brutto.”

Per Gabriele D’Annunzio, “gli uomini educati al culto della Bellezza conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine.” Forse perché la bellezza è l’altra forma della verità, la Grande Assente.  

Roberto Pecchioli

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