”Femminismo e violenza di genere: “la guerra dei sessi”. Follie neo femministe, follie neo liberiste. Il femminismo “antimaschile”. Maschio, ti devi vergognare! Come hanno confinato “La parola maschio” nel recinto del “male”
Parte seconda
Follie neo femministe, follie neo liberiste
Il femminismo del XXI secolo ha raggiunto punte di follia. Si è trasformato in ideologia avvitata su se stessa, una spirale i cui tratti sono il rancore contro l’uomo, l’adesione acritica al politicamente corretto, la vicinanza al mondo LGBT(6), l’oltrepassamento dell’aborto nelle derive della nuova genetica, il libertarismo più estremo. Innestato dagli anni 60 del secolo XX su filoni anarchici, neomarxisti, libertari e laicisti, il femminismo è un fenomeno caratterizzato dalla longue durèe(7). È altresì innervato dall’identica tensione verso l’effimero consumista della civiltà dell’intrattenimento di cui è espressione.
Negli ultimi venti anni, scavalcato il marxismo, si è fatto portatore della “violenza simbolica”, una forma di violenza esercitata non con mezzi fisici, ma con l’imposizione progressiva di idee, visioni, paradigmi culturali, strutture mentali. Pensiamo allo tesso lemma “femminismo”, cui è attribuito universale significato positivo. È pressoché obbligatorio per una donna essere femminista e per l’uomo approvare tale pensiero, ma è proibito essere maschilisti. Il termine è associato, insieme al suo omologo sessismo, a condotte volgari, autoritarie, misogine, assimilato alla violenza fisica. Il nuovo femminismo è escludente, in quanto nega il diritto a idee uguali e contrarie di parte maschile, anti solidale, in quanto prospetta una società basata su una guerra dei sessi continua.
Nessuna complementarità, dunque, tra uomo e donna, come in natura tra maschio e femmina, con i loro ruoli distinti e regolati da ritmi, funzioni e differenze biologiche. L’antagonismo fra uomo e donna sorge dalla ribellione alla natura da parte di una civilizzazione malata di onnipotenza, l’hybris contro le leggi inscritte nel creato. Tra i due sessi viene alimentato per scopi di ingegneria sociale il disagio, la frammentazione, la volontà di disordinare ciò che è ordinato per natura. La maternità, anziché essere esaltata come lo straordinario potere di donare ed accogliere la vita, è vista come un’iniqua punizione del destino a cui porre rimedio attraverso le pratiche abortive, lo sganciamento della sessualità dalla procreazione, l’adesione alla nuova genetica.
Perfetto esempio del transito della sinistra novecentesca verso le posizioni neoliberiste in economia, libertarie e libertine nella società civile, il neo femminismo rappresenta di fatto interessi e disvalori delle élites neoliberali: competizione sino alla guerra aggressiva tra i sessi/ generi, individualismo sfrenato, svalutazione del sacrificio, disprezzo per la maternità, banalizzazione della sessualità, elevazione dell’aborto a diritto umano, la relazione affettiva, sentimentale, sessuale con gli uomini considerata pericolosa in nome del rifiuto verso la società “eteropatriarcale”. Omosessualismo di fatto.
Il movimento #Metoo si è trasformato in tribunale speciale giacobino, dedito all’implacabile smascheramento di ogni comportamento maschile come violento e teso all’abuso sessuale. Il nuovo femminismo è funzionale agli interessi di dominio e manipolazione delle oligarchie neoliberali, la cui tecnica consolidata è divide et impera. Un’arma in più per mettere in concorrenza, costruire relazioni conflittuali tra gli individui-massa nel mondo del lavoro, nel consumo, nella vita quotidiana.
Creare rivalità, alimentare antagonismi significa deviare dalla lotta tra Servo e Signore(8) e spostare il confitto in una dimensione orizzontale, che mette in discussione tutto tranne l’essenziale, il potere del Signore neofeudale e neoliberale. Il femminismo esacerbato, uno dei filoni antiumani della decadenza europea e occidentale, è una splendida opportunità per chi comanda, una follia per tutti gli altri. Nell’eterno conflitto tra natura e cultura, una volta derisa la legge naturale proveniente da Dio, si travolge ogni costume, tradizione, istituto umano. In nome di un’uguaglianza dogmatica e astratta, che Tocqueville nel secolo XIX intuì come esito della modernità, si cancella ogni convivenza solidale in nome dell’utilità soggettivamente determinata.
La filosofa cattolica Cristina Siccardi afferma che il femminismo ha sottratto la donna alla donna. “Le femministe hanno creato aspettative nelle donne che vanno contro la natura di se stesse e degli uomini: una continua ed esacerbata competizione di ruoli; la ricerca inappagata di essere libere da ogni dovere di appartenenza ad un legame affettivo stabile; la scelta di decidere in proprio se uccidere o meno il proprio figlio in grembo; la determinazione di ritagliare sempre più ampi spazi per se stesse in uno spasmodico inseguimento della vita sociale sia per quanto riguarda gli impegni lavorativi che quelli ricreativi; il culto per il corpo e spese corrispettive; la scelta di liberarsi senza conseguenze del proprio coniuge o compagno, anche quando sono stati messi al mondo dei figli; fino ad arrivare, avendo eliminato l’identità dell’essere donna e dell’essere uomo, al plauso per le unioni omosessuali”. Siamo oltre le rivendicazioni, superate dal desiderio compulsivo di consumo, il principio di piacere (lustprinzip) esteso all’intera vita. Le donne, in ossequio all’uguaglianza scambiata per parità, raggiungono l’uomo in vizi e difetti.
Contemporaneamente, il femminismo alleato con il libertarismo progressista, agisce sul piano dei divieti giuridici e dell’attivazione di nuove fattispecie di reati. Pensiamo al femminicidio: “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.” Stucchevole linguaggio neo marxista del vocabolario Devoto-Oli. Il lemma è entrato nel diritto penale italiano, ma, come tutte le infezioni ideologico culturali è di matrice americana. La criminologa Diana E.H. Russell fu autrice insieme con Jill Radford, di Feminicide. The Politics of woman killing, Femminicidio, la politica di uccidere le donne. Un titolo capzioso che inventa un’inedita categoria criminologica di assassinio aggravato dal fatto di essere perpetrato contro la donna in quanto tale, meritevole di essere punito in peius rispetto ad altri omicidi. Nessun parallelismo con i “maschicidi”.
Al di là della sua essenza antiumana e del carattere aspramente rivendicativo, il nuovo femminismo è un epifenomeno della costruzione dell’homo
(e della foemina) consumens et instabilis, obiettivo finale del neoliberismo. Un esempio è il movimento child-free, donne che si sottraggono alla maternità. Focalizzate sulla carriera, sull’edonismo consumista, sulla cura di sé, autocentrate, esse considerano con orrore la possibilità di avere figli, considerati un impaccio, un impegno insostenibile, soprattutto in quanto relazioni definitive. “Per sempre” desta paura, fuga dalle responsabilità: è la società liquida, tutta intrattenimento, effimero, mordi e fuggi.
Non si può non scorgere nel neo femminismo la natura individualista neo-liberale, declinata nel consumo, nell’assenza di radici, nel nomadismo etico, sentimentale, esistenziale, nel nome di un’uguaglianza col paraocchi, frutto dell’innesto progressista sul tronco originario neomarxista. Ne fu consapevole Ivan Illich(9), l’unico pensatore che abbia osato contestare la grammatica femminista da posizioni non conservatrici. Scrisse in Genere e sesso(L.C.): “Il paradigma dell’homo oeconomicus non quadra con ciò che gli uomini e le donne sono in realtà. Essi non sono riducibili a meri esseri umani, a neutri economici di sesso maschile e femminile.”
La flessibilizzazione delle masse perseguita dalle oligarchie neoliberali si accompagna a un processo di femminilizzazione del lavoro. Furono le donne il primo esercito industriale di riserva: nell’era post industriale il processo accelera. Per questo, occorre imporre alla donna un senso della vita sganciato dal passato. Pensiamo al lavoro a tempo parziale, un aspetto del precariato e della mobilità imposta. Al posto di una vera emancipazione sociale, l’integralismo liberale realizza la femminilizzazione della società attraverso la mobilità precaria, estendendo a tutti la condizione delle lavoratrici del passato: meno garantite, sottopagate, ricattate.
La femminilizzazione non può che sfociare nella svirilizzazione della società, gradita alle oligarchie. Il nuovo spirito dei tempi corrisponde agli interessi e alle prescrizioni di chi determina la produzione. I peggiori comportamenti maschili sono estesi all’universo femminile purché funzionali alla macchina del consumo. La virilità è trasformata in disvalore in quanto potenzialmente antagonista e antiadattiva, disponibile all’azione diretta. Sulla spinta dei cascami del Sessantotto e al guinzaglio delle oligarchie fattesi antiborghesi, l’Occidente ha aderito a disvalori come fragilità e debolezza per espellere dal campo autorità e forza. La società è diventata flaccida, avversa al conflitto, incline al cedimento mascherato dal totem della tolleranza. Il femminismo del XXI secolo è una faccia di un prisma più complesso; indispensabile era distruggere la figura del Padre, surrogato terreno di Dio, per aprire le porte alla cultura del piagnisteo. Si è determinato un matriarcato psicologico caratterizzato dalla demonizzazione di ogni principio virile, bollato all’istante come sessista, eteropatriarcale, omofobo.
Il faustiano Homunculus post virile, post borghese e post proletario è costituzionalmente incapace di esprimere autorità, autorevolezza, forza oppositiva. Ciò chiarisce alcuni scopi del nuovo femminismo antimaschile: il presente è permissivo in tutto, fuorché nell’instancabile repressione di ogni vero dissenso, dunque devirilizzato, esattamente come le donne sono de-femminilizzate, entrambi atomi unisex. Il femminismo diventa una potente sovrastruttura del neo capitalismo. Mutata pelle come un serpente, da conservatore, “maschile”, esso si trasforma in flessibile, permissivo, accogliente, libertario, femminile, gauchiste, a misura di consumatori interscambiabili a partire dal genere.
La lancia femminista è puntata sugli ultimi residui dei vecchi valori popolari e borghesi, la famiglia, la figura del padre e quella equilibratrice della madre. Si fa individualista, rivendicativo, soggettivo, non più emancipativo. La sconfitta del padre non poteva che essere seguita dalla svalutazione della madre. Le due figure sono complementari, non possono essere scisse. Simul stabunt, simul cadent. Sono vissute insieme, cadono insieme, come la coppia stabile disponibile all’accoglienza della vita, alla solidarietà, all’educazione. Dopo aver separato la sessualità dalla procreazione, viene adesso proposto il modello cangiante, indistinto, omo e bisessuale. Le persone diventano “generi”, l’obiettivo è il piacere soggettivo, indipendente dalla persona altrui, oggetto da usare e ignorare.
Significativo è il successo di espressioni come “fare sesso” (make sex), che richiama l’aspetto materiale, esclusivamente fisico, ginnico della sessualità. Nel gioco a somma negativa del rapporto uomo-donna, il femminismo pretende la sua parte attraverso la demonizzazione. Genera una ulteriore cultura del risentimento, del processo alle intenzioni, dell’ostilità reciproca. Da una parte un uomo svirilizzato, debole e debosciato, dall’altro una donna de femminilizzata: due soggetti alienati da se stessi, lontani dalla natura, impauriti dall’incontro e dal confronto, egoisti, armati di bilancino e calcolatrice per soppesare il dare e l’avere nelle relazioni reciproche.
Questo ha prodotto la modernità terminale, in nome non della libertà, ma della liberazione, ossia dello strapparsi di dosso valori, principi, sentimenti, natura: due figure solitarie, incerte, in lotta perenne, i naufraghi della Zattera della Medusa(10). L’uomo senza virilità e la donna sua nemica childfree, transumani e transessuali, sono destinati ad annegare nel mare magnum di una libertà priva di scopi. Controparti di un conflitto permanente, non più coniugi, padri, madri, non più figli, non più persone. Schiavi degli istinti, hanno sconfitto il Super Io morale e comunitario per consegnarsi all’Es, il Caos, accattivante travestimento del Consumo, della Libertà, dell’Uguaglianza. Un’uguaglianza che somiglia al discorso del sergente Hartman in Full Metal Jacket(11): “Qui vige la vera uguaglianza, non conta un c… nessuno!”
Il femminismo antimaschile
Ritorno al reale(L.C.). Con il titolo di un libro di Gustave Thibon, il filosofo contadino cattolico amico e confidente di Simone Weil, così definiamo un’intervista concessa da
Camille Paglia, storica femminista americana, docente universitaria, autrice di uno dei libri più discussi del femminismo, Sexual Personae. Uscito nel 1990, segna l’ambizioso tentativo di fondere Freud con James Frazer, l’antropologo scozzese autore del Ramo d’oro, indagatore del pensiero magico, in un sulfureo compendio della sessualità nella cultura occidentale, un affresco di arte, sesso, filosofia e letteratura.
Paglia, icona del femminismo, è dichiaratamente atea e lesbica, di orientamento libertario, ma profondamente critica con il femminismo estremista. Una personalità controversa, ora impegnata sul versante della contestazione al politicamente corretto e al pensiero dominante. L’intervista è una ventata di aria fresca. Il nucleo delle sue convinzioni odierne si può riassumere in un concetto: il femminismo si è concentrato nella retorica antimaschile anziché sul significato della vita. Inoltre, l’eteropatriarcato non esiste proprio. Riecheggia qualche elemento del pensiero più recente di Nancy Fraser,(12) pervenuta ad un certo ripensamento ideologico, consapevole del ripiegamento modaiolo e neo capitalista del femminismo ultimo.
“Se una donna fa lo stesso lavoro di un uomo, la devono pagare allo stesso modo. Però adesso le femministe si appoggiano su non so quante statistiche per affermare che le donne in generale guadagnano meno degli uomini. Sono grafici manipolati, facilmente confutabili. Le donne sono solite scegliere lavori più flessibili, quindi meno pagati per potersi dedicare alle loro famiglie. Inoltre, preferiscono lavori più puliti, ordinati, sicuri. Quelli che sono sporchi o pericolosi li addossano agli uomini, che fanno una vita più disordinata, e naturalmente meglio remunerata.”
Il divario salariale sale con la nascita del primo figlio, ma Paglia rompe gli stereotipi correnti: “è evidente che le donne hanno diritto anche a scegliere percorsi diversi. E magari per molte donne il lavoro non è così importante.” Dinamite pura su decenni di pistolotti centrati sulla realizzazione personale che passerebbe necessariamente per le attività extrafamiliari. La Paglia prende atto che moltissime donne preferiscono lavori flessibili per poter passare più tempo con i loro figli e non lasciarli alle cure di estranei, valutando positivamente tale scelta, lei omosessuale estranea alla maternità.
Il femminismo non rappresenta un’ampia percentuale di donne. Per questo non ha trovato di meglio che concentrarsi nell’ideologia e retorica antimaschile, anziché impegnarsi nell’analisi obiettiva dei dati, della psicologia umana e sul significato della vita. Del pari, non si può far credere che la carriera sia l’obiettivo più importante. “Se permettiamo che il lavoro definisca la personalità, siamo dei malati. È ben più importante sviluppare una vita affettiva e familiare soddisfacente. Centrarsi solo sulla vita pubblica è da personalità disturbate, tanto è vero che in Occidente le generazioni più giovani si riempiono di antidepressivi: identificano la vita con il lavoro, e ogni insuccesso li fa sentire miserabili.”
La critica continua, rilevando come negli anni ’60 il femminismo tentasse di attrarre le donne adottando i modi e il linguaggio della classe lavoratrice. Nel decennio successivo si impose una corrente egemonizzata da donne borghesi “in carriera”, specie insegnanti e giornaliste. Quel tipo di femminista era persuasa di sapere ciò che era meglio per tutte, ma il vero obiettivo era la realizzazione professionale, le ambizioni ad ogni costo, e non si rendeva conto di allontanarsi dalle donne che pretendeva di rappresentare. Un femminismo dal forte tratto elitario, dominato da intellettuali tutte teoria e asserzioni astratte.
L’autocritica di Camille Paglia prosegue con l’ammissione che non si tiene conto delle idee delle donne di sentimenti conservatori. “Il dibattito sull’aborto ne è un chiaro esempio. Io sono per la libera scelta delle madri, Però rispetto i movimenti antiabortisti e mi pare atroce che il femminismo li escluda dalle manifestazioni. È ridicolo, come è stato nefasto che la seconda ondata femminista avesse una visione tanto negativa delle donne che rimanevano in casa per occuparsi dei figli”.
Il sistema delle quote, della cosiddetta azione affermativa o discriminazione positiva è attaccato con veemenza. Dalla fine degli anni ’70 in America, e poi in Europa, è stato un continuo proliferare di identitarismo delle minoranze: omosessuali, femministe, neri. L’istituzionalizzazione di mille micro identità, la frammentazione della società in segmenti ha finito per impoverire la cultura e ghettizzare la società, spezzata in mille permalosi apartheid. In più ha prodotto nuove burocrazie di professionisti della rivendicazione sociale.
Conforta che un’intellettuale borderline, atea, omosessuale e femminista esprima queste convinzioni. Purtroppo, ha vinto l’idea malsana delle gabbie e del giudizio inappellabile in nome del presente, sino alla censura e all’ ostracismo. Contestualizzare è operazione ammessa soltanto quando conviene al potere.
Il femminismo, secondo Paglia, freudiana, non è in grado di costruire una teoria del sesso. L’unico apporto è l’analisi politica, ma sesso non si può spiegare con la politica. Le femministe neoborghesi cercano una forma di religione. “Vogliono un dogma e lo hanno trovato nella difesa identitaria delle minoranze oppresse. Se pensi alla politica come alla salvezza, finisci per creare un altro inferno”.
La condizione umana, tuttavia, non si può spiegare a partire dal sesso. Il freudismo è una perniciosa religione secolare, come il femminismo radicale. Ha interpretato l’essere umano a partire dal basso e lo ha fatto discendere agli inferi, descrivendo la personalità in termini di pulsioni, desideri, Es, principio di piacere. Nell’ultimo quarto di secolo è prevalsa una concezione ancora più radicale, di aperta dissoluzione e disumanizzazione. Un pezzo di pensiero radicale, compresa la componente femminista, ha aggiunto il carico più pesante, la teoria del genere, il cui presupposto è che il sesso non sia un dato di natura, un fatto biologico che la civiltà si è incaricata di incanalare, ma una costruzione artificiale.
Spicca la natura postborghese e neoliberale di tutte le ideologie che hanno prima infettato e poi distrutto lo spirito europeo e occidentale, dalla psicanalisi al neoilluminismo francofortese, le teorie della liberazione sessuale di Wilhelm Reich e autentici folli come Georges Bataille sino a larga parte del pensiero femminista. La postmodernità sta facendo perdere alle donne dignità e status, poiché, sostiene la Paglia, “per gli uomini è fantastico, perché hanno un accesso al sesso inimmaginabile”. Non è vero, riteniamo anzi che sia un attacco alla personalità maschile, considerata solo sotto l’aspetto pulsionale. Inoltre, ignora l’enorme ruolo dei sentimenti. Il sesso, piaccia o meno agli adepti di Freud e Marcuse, ha una relazione profonda con l’amore, in assenza del quale diventa puro istinto.
È significativo che la Paglia prenda atto che “uomini e donne vedono il sesso in maniera differente. Questo è un altro errore del femminismo. Ha abbandonato la biologia e dice che non esistono distinzioni di sesso”. Il discrimine, il ritorno al reale è di capitale importanza dopo le devastazione della teoria del gender, che riduce tutto alla soggettività, alla scelta, negando il dato della differenza biologica. “Se si creano studi di genere, non si può che includervi la biologia, essenziale quando alcuni sostengono che il cosiddetto orientamento sessuale sia una mera costruzione sociale. È una menzogna che il genere sia una costruzione totalmente sociale; si tratta piuttosto di una intersezione tra cultura e natura. Per questo affermo che gli studi sul gender sono semplice propaganda e non una disciplina accademica.”
Interessante è l’analisi della crisi del sesso maschile, la stigmatizzazione del suo universo in vari modi, l’ultimo dei quali è la campagna di criminalizzazione attraverso il cosiddetto femminicidio. La crisi della mascolinità è lo smarrimento di ruolo morale, civile e sociale, il parricidio simbolico indicato da Freud come elemento di liberazione individuale, diventato rigetto delle tradizioni ricevute, dell’autorità e rimozione violenta della figura paterna. L’autocritica dovrebbe spingersi più a fondo. “Il dibattito si è centrato unicamente sui bisogni delle donne. Intanto, gli uomini vengono dipinti come violentatori, criminali e tutto ciò che è maschile è diffamato, screditato. Arrivano a dire che gli uomini sono donne incomplete! I ragazzi vedono tutto questo come qualcosa di terribile e mi dispiace molto per loro. Attraversiamo un periodo di caos”. Benvenuta tra noi, ma i cattivi maestri sono in cattedra da mezzo secolo.
Il danno fatto è immenso, l’eclissi del maschile, la scomparsa di qualunque elemento virile nel carattere degli uomini della società occidentale è cosa fatta. Un elemento deleterio è il senso di colpa instillato nei giovani maschi sin dall’età della formazione della personalità. Il nuovo femminismo, alleato con i cascami delle subculture ossessionate dall’uguaglianza sta istillando un vero e proprio odio di sé nei maschi, semina il dubbio che i loro istinti naturali, il loro specifico modo di vedere il mondo, siano negativi, pervasi da violenza e tendenza all’abuso. Ogni maschio, è l’allusione, è un potenziale violentatore.
L’arroganza verbale, i toni isterici, apocalittici di buona parte della cultura ufficiale, stanno portando a termine la destrutturazione e decostruzione dell’universo maschile. Il danno – esistenziale e antropologico – è compiuto. Intere generazioni di uomini incerti, deboli, privi di punti di riferimento, impauriti dalle reazioni di un archetipo di donna aggressiva, ma contemporaneamente pronta ad assumere il ruolo di vittima. La confusione porta acqua al mulino dell’omosessualità, maschile e femminile, triste via d’uscita al conflitto tra i sessi alimentato con tanta irresponsabilità.
Per millenni, uomini e donne ebbero pochi contatti. Gli uni andavano a caccia, si dedicavano alla raccolta e alla difesa del territorio, le altre restavano a casa, dedicandosi alla prole. Oggi si lavora insieme, ma le donne affermano di essere discriminate e molestate. Le femministe, intima la Paglia, dovrebbero astenersi dal diffondere la retorica antimaschile soprattutto perché stanno impedendo ai loro figli di diventare adulti. La colpa dei mali denunciati dalle femministe non è degli uomini, ma del sistema di relazioni sociali nel quale viviamo. Va dunque contestato alla radice, ricordando che il mondo contemporaneo vive di competizione esasperata, culto del denaro e del successo, ove l’arma sessuale è impugnata per ottenere vantaggi o distruggere l’avversario. Va ristudiato il concetto marxiano della donna come esercito industriale di riserva del primo capitalismo, l’elemento che ha permesso di abbattere il costo di produzione attraverso la concorrenza sul mercato del lavoro.
La marcia è continuata spedita, sino alla realtà attuale in cui l’educazione è saldamente in mani femminili, con la perdita – dopo i padri biologici – di altre figure di riferimento per i maschi in formazione. Le donne operaie non attribuiscono tanta importanza al lavoro: per esse è il modo di guadagnare denaro, la vera vita è in casa o durante le vacanze. Sono le classi medie e alte a pensare costantemente alla professione.
Dal paradigma dominante è accuratamente esclusa qualunque componente spirituale e religiosa, in assenza della quale non avrà mai senso proporre una vita nella quale ci sia posto per gli altri, la famiglia, i figli, la libera donazione di sé, del proprio tempo, la dedizione a qualcosa che ecceda il denaro, il successo personale, la gratificazione sessuale, unico movente delle nostre condotte secondo Freud.
Insieme a indubbie conquiste civili, il fiume impetuoso del femminismo ha trascinato con sé errori, autentici spropositi ed ha collaborato a non poche follie. Dopo la demonizzazione del maschio, violentatore e assassino in servizio permanente effettivo, indigna la falsità più grande, l’idea che la differenza sessuale sia un costrutto sociale sconosciuto in natura, tanto che la scelta del genere (distinto dal sesso poiché la neolingua prevede parole nuove per vecchi concetti) deve trasformarsi in diritto individuale. A Torino un asilo tratta i piccoli senza riferimento al sesso. Niente grembiulini di diverso colore, macchinine, soldatini o bambole, maschietti e femminucce. La dittatura disumana dell’identico avanza: il femminismo ha la sua parte di responsabilità.
Maschio, ti devi vergognare! (T.P.I.)
Uno spettro si aggira per l’Occidente: lo spettro del maschio. Tutte le potenze dell’Occidente si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe. Per riflettere sulla lotta
ingaggiata contro il sesso e l’universo maschile, parafrasiamo il celeberrimo incipit del Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels, che Umberto Eco, genuflesso in adorazione, considerò “un formidabile colpo di timpano, come la Quinta di Beethoven”. Oggi assistiamo sbigottiti a una crociata contro il maschio e il maschile, colpevole di ogni male del mondo, l’essere intrinsecamente malvagio, prevaricatore, violento, da rieducare con le buone o le cattive, da ri-costruire attraverso la vergogna e l’odio di sé.
L’essere umano di genere maschile, peggio se bianco eterosessuale, portatore dell’eteropatriarcato, stupratore seriale, è la feccia dell’umanità. Un orribile concentrato di frottole aizza contro la natura maschile e giustifica politiche discriminatorie che occultano un risvolto ideologico postcomunista, alleato con le cupole del potere neoliberista, il cui regno si fonda sulle divisioni indotte. Lo Zelig(13) progressista agisce secondo un consolidato copione: coarta la libertà di chi non la pensa secondo moda e idee dominanti, additandolo a nemico pubblico con la complicità dei mezzi di comunicazione e del sistema politico. È capitato con il dibattito sull’immigrazione illegale, sui cosiddetti “nuovi diritti”, aborto, procreazione assistita, eutanasia (il diritto di morire!), nozze omosessuali.
Il nemico della nouvelle vague femminista non è l’eteropatriarcato e neppure l’esecrato maschilismo. Nemica è la libertà in quanto tale. Il salto di qualità sta nel diffondere odio
contro l’essere umano di sesso maschile. Sono maschio, mi devo vergognare di me stesso, della mia natura, dei miei istinti, dei miei valori, dichiarati intrinsecamente negativi. In quanto uomo, sono un prodotto mal riuscito dell’evoluzione e della società; devo essere decostruito, smontato e riprogrammato in base al falso teorema di malvagità.
Il femminismo radicalizzato di questi anni è un ulteriore tentativo di contrapporre, mettere gli uni contro gli altri gli esseri umani, imprigionandoli in categorie con il pretesto di emanciparli. In tale operazione è alleato con le cupole economiche e finanziarie e i loro mazzieri culturali, il progressismo post marxista con maschera libertaria. L’obiettivo è sempre far perdere l’identità, indebolire il pensiero critico per sostituirlo con l’indifferenziato, l’Identico, l’Ermafrodito e Consumatore globale da condurre a guinzaglio in un immenso centro commerciale ove tutto è diversamente uguale.
Hanno la necessità di creare inimicizie e contrapposizioni per meglio dominarci; per José Ortega y Gasset la società di massa sfocia in spezzoni reciprocamente ostili. Il bianco contro l’uomo di colore, il nativo contro l’immigrato, l’eterosessuale contro l’omosessuale e, naturalmente, l’uomo (degradato a maschio, cerchiamo di cogliere la differenza) contro la donna. Obliterata l’unica ineguaglianza che interessa lorsignori: quella del denaro.
In questa operazione abilmente preparata, condotta con ampio dispiego di mezzi, si parte invariabilmente da assunti del tutto condivisibili, giacché nessuna persona sensata approva la violenza sessuale, lo stupro e la molestia. Conseguita senza difficoltà l’unanimità nella condanna di quegli atti, peraltro già colpiti dai codici penali, il passo successivo è allargarne la portata, esagerare o manipolare le statistiche, chiamare violenza o molestia comportamenti di ogni tipo. Su basi taroccate, quasi ogni donna può considerarsi una vittima. Terzo scalino, ottenere, sull’onda dell’emozione e dell’indignazione provocata ad arte, provvedimenti legislativi e divieti, imporre credenze false, tipo la natura di predatore insaziabile attribuita al maschio della specie umana.
L’obiettivo collaterale, accuratamente occultato, è distruggere definitivamente l’istituzione familiare, poiché il teorema a cui è proibito opporsi, è che la stragrande maggioranza della violenza si produca in ambito familiare. Allo scopo, si è provveduto ad estendere le norme a tutte le coppie, anche non conviventi, e alle ex coppie. L’eteropatriarca oppressore è servito, ma non basta ancora. È in corso un progetto di ingegneria sociale e giuridica destinato a manomettere uno dei cardini dello Stato di diritto, ovvero l’uguaglianza di fronte alla legge. La costituzione italiana la proclama all’articolo 3, vietando discriminazioni “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni economiche e sociali”.
La violenza detta “di genere”, ovvero commessa da un uomo contro una donna, è già diventata un’aggravante. Nulla di male che si inaspriscano le pene per violenti, stupratori, prevaricatori, ottima cosa la riprovazione sociale, ma a patto che le fattispecie siano precisamente definite, non si facciano distinzioni tra vittima e vittima e neppure tra colpevoli, in base a un costrutto ideologico indimostrato, la tendenza dell’essere umano maschio alla violenza contro la donna.
In Italia non siamo ancora pervenuti alle follie di qualche legislazione straniera, ma è aperta la strada. In Spagna vige una legge che ha stabilito l’incredibile principio che ogni aggressione di un uomo nei confronti di una donna con relazione di coppia, anche passata, sia considerata “violenza di genere”, soggetta a pene più gravi. È sancita la disuguaglianza per motivi di sesso, la responsabilità oggettiva. Una sentenza ha condannato a sei mesi un uomo per una lite con la fidanzata con reciproca aggressione. A parità di danni, alla ragazza è stata inflitta una pena dimezzata. La follia giuridica è evidente, ed aspettiamo le decisioni dei tribunali dinanzi a episodi di violenza tra coppie omosessuali maschili, teoricamente punibili in modo diverso da quelle femminili. Ulteriore dilemma se si tratterà di transessuali o di soggetti che si sentono uomo o donna senza averne le caratteristiche fisiologiche.
Ogni legge ha un testo, ma anche un contesto; le idee del femminismo “di genere” diventano norma, punendo le persone per quel che sono (maschi) e non per quello che hanno fatto. È il nomos contraffatto delle ex società liberali, che stanno deviando dallo stato di diritto per entrare nel territorio dell’imposizione ideologica. Ne abbiamo già sperimentato i veleni con le norme antidiscriminazione, che hanno introdotto il reato di pensiero in società che avevano fatto della libertà di coscienza un emblema. Non è ammessa discussione: l’oppositore è un deviante da eliminare, le sue idee indegne, spregevoli. Espulso. Democrazia in quanto comandano loro.
Da uomo, riconosco me stesso e le persone che ho incontrato nella vita nel cupo ritratto neofemminista? Assolutamente no. Nel cammino, abbiamo visto manipolatori ma anche manipolatrici, persone interessate a utilizzare la propria posizione a ogni fine, anche sessuale, ma il bieco quadro antimaschile è falso. La ragione profonda di certi comportamenti sta nel disprezzo per la persona umana, l’indifferenza verso l’altro diffusa dalle ideologie individualiste e materialiste, l’esibizione del sesso a fini di commercio. La riduzione della persona a individuo, poi a soggetto, infine a materiale umano, non può che determinare una concezione dell’essere umano come oggetto e strumento. Di potere, di dominazione, di piacere, di sadismo.
Contro il maschio la guerra è in corso da molto tempo: i ragazzi non possono più fare giochi “pesanti”, come è istintivo e normale, sono banditi i modelli basati sull’onore personale e la voglia di affrontare pericoli, la lotta, il desiderio di proteggere con ogni mezzo, essere custodi, il senso della responsabilità, la volontà di scoperta, superare prove e assumere responsabilità. Il maschietto non cresce effeminato, ma dimezzato, afflitto da sensi di colpa, insicuro, timoroso di essere cattivo. Non lo è: è solo un giovane in attesa di diventare uomo. Uno sporco lavoro lo svolge la pubblicità, madre e maestra dell’Umanità Nuova. Non contenta di proporre, cioè imporre per iterazione ossessiva l’omarino mammo, lavapiatti, esperto di detersivi per l’ammollo, l’ultima botta arriva da Gillette, multinazionale degli articoli da barba.
In una campagna pubblicitaria, il vecchio slogan “il meglio per gli uomini” è accompagnato da filmati di molestie a donne e bullismo su bambini. L’invito di Gillette è sconcertante: l’uomo deve radere non la barba, ma la “mascolinità tossica”. È questo il meglio a cui può aspirare un uomo? si chiede la voce fuori campo. Un’ analoga campagna coinvolse il marchio, Axe, i deodoranti “del maschio alfa”, che invitò gli uomini a mettere in questione lo loro mascolinità con domande del tipo: può un uomo vestirsi di rosa? può non amare lo sport o amare i gatti?
Premessa la difficoltà di comprendere la relazione tra maschilismo e gatti, è interessante la giustificazione di un creativo pubblicitario: “il femminismo non è una moda passeggera, è un movimento che conosce un picco molto alto e quello che stiamo facendo serve ad accompagnarlo. Cambia lo status quo e la pubblicità ne è un riflesso.” Lodevole sincerità, il cui significato è che i persuasori occulti non sono più tali, si sono tolti la maschera e lavorano con l’approvazione dei committenti, i piani alti del potere industriale e mediatico.
Ci hanno espropriato anche delle parole per ribellarci. Lo spiegò un filosofo cattolico, Emanuele Samek Lodovici(14) “Se vogliamo strappare a una persona il mondo, basta strapparle le parole con cui capisce quel mondo. Le parole saranno sempre più impoverite di significato e crederà che il mondo corrisponda alla povertà di significato delle sue parole”. La parola maschio è una di quelle che ci hanno strappato per confinarla nel recinto del Male, della Violenza, rovesciandone il significato in nome di un “nuovo” i cui contorni sono il regresso, la menzogna totalitaria, l’indottrinamento a verità capovolte. Volontà d’impotenza.
Note:
- (6) LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender), cui è ora aggiunta la I di Intersessuali, è l’acronimo che definisce le associazioni e l’universo non eterosessuale.
- (7) Longue durée, lunga durata è un’espressione di Pierre Bourdieu e della scuola Annales per indicare i fenomeni sociali che diventano storici.
- (8) La dialettica Servo/Signore è una figura della Fenomenologia dello Spirito di G.W.F. Hegel, un concetto filosofico che ha largamente influenzato Marx e il pensiero successivo.
- (9) Ivan Illich (1926-2002) Scrittore, sociologo, sacerdote cattolico e pensatore austriaco di origine croata, figura singolare della cultura contemporanea. Genere e sesso; Nemesi medica; La convivialità
- (10) La zattera della medusa è un quadro del 1819 di Théodore Gèricault, riproducente il naufragio della fregata francese Medusa al largo della Mauritania.
- (11) Full Metal Jacket è un fil americano del 1987, ispirato alla guerra del Vietnam in chiave antimilitarista
- (12) Nancy Fraser (1947- ) Teorica femminista americana. Femminismo per il 99%. Un Manifesto.
- (13) Zelig. Termine ebraico, attribuito a chi ha una personalità multipla ed assimila le caratteristiche dell’ambiente in cui di volta in volta si trova.
- (14) Emanuele Samek Ludovici (1942-1981) filosofo italiano di impronta metafisica, cattolico.
Libri Citati
- Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza
- Ivan Illich
- Traduttore: E. Capriolo
- Curatore: Fabio Milana
- Editore: Neri Pozza
- Collana: La quarta prosa
- Anno edizione: 2013
- In commercio dal: 31 ottobre 2013
- Pagine: 266 p., Brossura
- EAN: 9788854507081 Acquista. € 17,10
Descrizione
Forse soltanto oggi l’opera di Ivan Illich conosce quella che Benjamin chiamava “l’ora della leggibilità”. Illich non è solo il geniale iconoclasta che sottopone a una critica implacabile le istituzioni della modernità. Se la filosofia implica necessariamente una interrogazione dell’umanità e della non-umanità dell’uomo, allora la sua ricerca, che investe le sorti del genere umano in un momento decisivo della sua storia, è genuinamente filosofica e il suo nome va iscritto accanto a quelli dei grandi pensatori del Novecento, da Heidegger a Foucault, da Hannah Arendt a Gunther Anders. E in questa nuova prospettiva che si deve guardare a”Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza” che Neri Pozza ripropone in una versione ampliata e corretta, tenendo conto di tutte le edizioni pubblicate durante la vita di Illich. Quando il libro uscì nel 1984, la critica dell’uguaglianza fra i sessi e la rivendicazione del “genere” contro il sesso erano decisamente precoci e diedero luogo a polemiche e fraintendimenti. Come Illich scrive nell’importante prefazione alla seconda edizione tedesca (finora inedita in italiano), la perdita del genere e la sua trasformazione in sessualità – che costituisce uno dei temi centrali del libro – sono trattate qui non nella forma di una “critica aggressiva” della modernità, ma in quella di una riflessione intorno ai mutamenti nei modi della percezione del corpo e delle sue relazioni col mondo.
- Ritorno al reale
- Gustave Thibon
- Editore: Effedieffe
- Anno edizione: 1998
- In commercio dal: 1 gennaio 1998
- Pagine: Brossura
- EAN: 9788885223141 Acquista € 15,49
Descrizione
Con una riedizione delle due opere più famose di Thibon, Diagnosi e Ritorno al reale, ritorna un testo che è allo stesso tempo una pietra miliare, una pietra di paragone e una pietra di inciampo per il mondo e l’uomo moderni. Thibon, che non ama la definizione di “autodidatta”, ha avuto per maestri i libri, anche se apprese il latino, il greco, il tedesco, lo spagnolo leggendo Seneca, Platone, Holderlin e Cervantes, mentre lavorava nei campi. Il testo rappresenta un salutare antidoto all’irrealismo della nostra società, dove la relativizzazione dell’esistenza si è ormai sostituita a quella visione reale e naturale della vita di cui forse i nostri padri ricordano con nostalgia i brandelli. La scoperta del filosofo-contadino ha segnato per molti una svolta decisiva. Il pensiero di Thibon, come del resto ogni grande pensiero cristiano, riguadagna quella dimensione creaturale dell’esistenza – il riconoscersi creatura e il contemplare la creazione – che riconnette a Dio mediante l’innamoramento al reale.
Immagine: Susanna e i vecchioni. Artemisia Gentileschi (1610)
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