”Il diavolo si nasconde nei dettagli
LA GUERRA DELLE PAROLE. DIFFERENZA VERSUS DIVERSITÀ
Il diavolo si nasconde nei dettagli: alzi la mano chi conosce la differenza tra… differenza e diversità. Qualche sfumatura esiste, compresa da pochi linguisti pignoli. Il dizionario Zingarelli alla voce “differenza” indica come primo significato “diversità” e viceversa. Invece no. Nella guerra delle parole che il potere conduce contro di noi, vietandone alcune e obbligando all’uso di altre, differenza e diversità non sono più sinonimi. Nella nuvola rosa della neolingua il primo termine è cattivo, il secondo buono.
Sembra un gioco di parole e in parte lo è, per nulla neutrale e niente affatto innocente. Il politicamente corretto prima, la neolingua poi, hanno distorto senso e significato di parole, espressioni, modi di dire, per adattarle al modo di sentire, pensare, parlare, voluti dal potere. Ecco, dunque, che due termini come differenza e diversità divaricano i significati sino ad assumere opposte connotazioni. Gabriele D’Annunzio, immaginifico giocoliere del linguaggio, scriveva nella prima delle Laudi (Laus Vitae): “O diversità delle creature, sirena del mondo, io sono colui che t’ama”. Il Vate pescarese intendeva riferirsi al meraviglioso caleidoscopio delle differenze, al fascino della straordinaria varietà del creato e delle creature.
Non incorre nell’odierna polizia del pensiero perché ha usato la parola “diversità”. La “differenza” non è vista di buon occhio nel serraglio neolinguistico. Evoca infatti la disuguaglianza, uno dei divieti insormontabili della post modernità. Il teorema egualitario si fa postulato, ossia verità autoevidente, benché indimostrabile. Il mistero buffo è perché il tabù si arresti all’altezza del portafogli, accettando la più ingiusta delle differenze (o diversità…), quella dei mezzi economici. L’uguaglianza si trasforma in equivalenza, ossia in-differenza qualitativa, proibizione di emettere giudizi o avere pareri difformi su un numero crescente di temi sottratti al libero pensiero.
Essere a favore delle differenze tra esseri umani, civiltà, prendere atto dell’infinita varietà del mondo espone a un’accusa sanguinosa, il cosiddetto “differenzialismo”. Il termine è recente e la sua definizione partigiana è tratta, ahimè, dalla pagina web di una scuola piemontese. “Variante, oggi assai in uso, del razzismo. La posizione di chi ritiene necessario difendere e/o preservare le differenze culturali dai processi di massificazione ed omogeneizzazione tipici delle società occidentali e per questo pensa che le società non debbano in nessun modo essere multiculturali. Il che significa che le differenze e le alterità vanno difese ma, proprio per questo… ognuno a casa propria. In sede educativa e sociale il rischio di un velato razzismo differenzialista è reale e tende a concretizzarsi in una specie di apartheid dove le culture altre sono sì riconosciute ma “recintate” e conservate in appositi contenitori sociali (tipo riserve indiane) senza possibilità significative di interagire sia tra loro che con le culture autoctone in vista della costruzione di una società intesa come casa comune ove ad ognuno competono uguali diritti ed uguali doveri.”
Al netto del consueto moralismo astratto, la conclusione è semplice: se riconosci, accetti, difendi la “differenza” sei razzista in quanto neghi l’uguaglianza. Tutta un’altra cosa se lodi la “diversità”. Mentre la differenza richiama l’ineguaglianza, la diversità sarebbe il corollario postmoderno dell’uguaglianza, in quanto base di una società composta da infiniti segmenti, un patchwork illimitato di minoranze le cui specificità – o stranezze, bizzarrie, sino ad autentici disturbi – devono essere tutte accolte e rese soggetto di diritti. La “mia “diversità (personale, comportamentale, sessuale, psicologica) diventa il tratto fondamentale della mia personalità, l’etichetta che mi inserisce in una comunità di uguali per diversità.
La società sarebbe così la somma algebrica di ogni diversità, con la proibizione di stabilire una “normalità” o un tessuto sociale di principi e condotte condivise, eccetto, ovviamente, la stessa “diversità”. Secondo il sociologo franco canadese Mathieu Bock-Coté si tratta di un’autentica utopia diversitaria in cui l’eroe è l’Altro, il diverso in tutte le sue possibili accezioni. Il politicamente corretto è il codice obbligatorio di un culto organizzato intorno a dogmi che il catechismo della retorica e della propaganda trasformano in senso comune. Passiamo dal multiculturalismo al non-culturalismo che nega l’evidenza, imponendo l’equivalenza tra culture e civiltà. Non esiste la civiltà, esistono “le” civiltà, non la cultura, ma “le culture”.
Non è permesso alcun giudizio comparativo, ancor meno una graduatoria, giacché ogni cultura è un mondo a sé stante, di cui possono essere descritte solo le differenze, anzi le diversità. Un relativismo assoluto (gli ossimori sono una costante della contemporaneità), la cui estrema conseguenza è un soggettivismo altrettanto assoluto dove “io sono la mia diversità” che nessuno può discutere o negare. Di qui l’equivalenza tra desideri e diritti e la concezione dell’identità non come eredità naturale, storica che produce comunità e insieme differenza, bensì scelta fluida, autodeterminata.
Sembrano innocui giochi linguistici, invece sono concetti che influiscono profondamente sulla quotidianità, improntando la nostra visione del mondo. La “diversità” è tutelata dalle organizzazioni transnazionali, mentre la differenza è negata, screditata, relegata al rango di credenza sciocca, regressiva. Le diversità, nella forma della decostruzione/decomposizione delle comunità e della frammentazione della società in infiniti segmenti tendenzialmente ostili e autoreferenziali è diventata nell’ultimo mezzo secolo il valore preferito dell’establishment occidentale. Tanto fondamentale da non poter essere revocata in dubbio.
Le organizzazioni internazionali globaliste sono in prima linea nel promuovere la diversità. Per l’Unesco, “la diversità è l’essenza stessa della nostra identità”. Il significato vero è la celebrazione della pluralizzazione delle identità e delle differenze culturali in odio al principio nazionale, alla sovranità statuale, al diritto di esprimere giudizi di merito, al concetto stesso di popolo oltreché di normalità.
Le organizzazioni transnazionali presentano la diversità come moralmente superiore a ogni altro principio. Dagli anni Cinquanta sono state avviate operazioni sistematiche per screditare lo statuto etico di comunità e nazioni omogenee. Chi rifiuta l’agenda della diversità – individui, gruppi, comunità – è descritto come analfabeta psicologico, arretrato, timoroso degli altri, xenofobo. L’attaccamento alla propria identità, (la “differenza” negativa) iniziò a essere presentato come movente delle guerre e il patriottismo reso sinonimo di fascismo. Il primo documento “diversitario” fu La personalità autoritaria di Theodor Adorno e di altri membri della Scuola di Francoforte(1) radicati in America. La diversità veniva mostrata come antidoto positivo all’identificazione con la propria nazione o con il gruppo sociale di appartenenza.
Il testo ha giocato un ruolo decisivo nell’assegnare una connotazione negativa all’aspirazione a vivere in società coese con valori comuni. La conclusione fu che il “bisogno di omogeneità” rappresentava un grave difetto psicologico, sintomo della “personalità autoritaria”. Adorno tratteggiò un contrasto etico tra le persone attratte dalla diversità e quelle che la rifiutano. “Forse è soprattutto la volontà di includere, accettare e perfino amare le differenze e la diversità, in contrasto con la necessità di stabilire chiare linee di demarcazione e determinare superiorità e inferiorità, il criterio basilare di distinzione dei due modelli opposti. I membri di un gruppo esterno che rappresentano deviazioni dalle norme culturali del gruppo interno sono minacciosi per coloro che hanno bisogno di concepire le norme culturali come assolute per sentirsi al sicuro.” Divide et impera.
Il rifiuto della diversità era bollato come più pericoloso di un difetto caratteriale: un tratto dannoso e autoritario degli individui. Da quel momento “curare” dall’ “irrazionale” bisogno di omogeneità e spingere ad amare la diversità è diventato un progetto di ingegneria sociale. Per renderlo indiscutibile, i francofortesi asserivano che il contrasto morale tra diversità e omogeneità era fondato sulla scienza. In realtà era l’ostilità ideologica verso gli ideali di sovranità nazionale, patriottismo, tradizione- culturale, civile, religiosa- a trasformare l’omogeneità in qualcosa di tossico. Le oligarchie – diventate globaliste- compresero presto le opportunità offerte dalle teorie “diversitarie”.
Omogeneità e diversità non sono categorie morali, ma termini descrittivi. Il fatto che si preferisca o meno stare con soggetti diversi o simili a noi non ha alcuna connotazione etica. Il progetto di trasformare la diversità in un valore nasce dalla volontà di estirpare la solidarietà e l’identità interiorizzata che deriva dall’appartenenza ad una nazione o a una cultura comune.
La promozione della diversità è il mezzo privilegiato per promuovere il multiculturalismo, che determina la crescita della polarizzazione sociale. Le politiche sulla diversità hanno incoraggiato la fossilizzazione di identità agonistiche, spesso reciprocamente incompatibili, in concorrenza per “diritti” sempre nuovi e per ottenere riconoscimenti superiori alle identità rivali. Paradossalmente, la diversità ha promosso l’omogeneizzazione dell’identità all’interno dei diversi gruppi. La diversità è diventata un feticcio sino alla sua “naturalizzazione”, la tendenza dei membri di ciascun gruppo a definirsi in base a un’unica caratteristica, baricentro e scopo dell’esistenza. In questo modo, la diversità e la sua celebrazione sono diventate complici dell’intolleranza.
La stretta relazione tra intolleranza e diversità è stata evidenziata da Christopher Lasch negli anni Novanta. “Nella pratica, la diversità finisce per legittimare un nuovo dogmatismo, in cui le minoranze rivali si rifugiano dietro un insieme di credenze impermeabile alla discussione razionale. Può altresì portare alla segregazione fisica della popolazione in enclavi chiuse e omogenee, che hanno il loro equivalente nella balcanizzazione dell’opinione”.
L’impatto corrosivo delle politiche della diversità sulla solidarietà sociale non è l’unico problema associato al multiculturalismo. La sacralizzazione dell’identità ha minato anche la libertà di espressione. La promozione della diversità è a scapito dell’esercizio concreto della libertà. Numerose istituzioni hanno deciso che il valore della diversità non può essere discusso, un sentimento particolarmente diffuso nelle università. Molte di esse hanno stabilito che la rivendicazione diversitaria prevale sulla libertà di parola e sulla libertà accademica. Se qualcuno – individuo o gruppo – si oppone, deve essere legalmente messo a tacere.
Si diffonde l’idea che la libertà e la diversità siano valori contrastanti. La libertà di espressione costituisce un rischio “per il benessere di nuovi gruppi non tradizionali e minoritari” secondo il presidente della Wesleyan University americana. La convinzione che libertà di parola e diversità siano antagonisti è stata interiorizzata dall’élite culturale anglosassone e domina il comportamento. Si sostiene che la libertà debba essere “bilanciata” o “compensata” con la diversità. Per la California State University “il dibattito aperto e franco e la libertà di espressione collidono con il valore di una comunità diversificata e inclusiva”. Includere significa escludere: Orwell al potere.
L’appello a “bilanciare la libertà di espressione e la diversità” porta alla conclusione che la prima ceda il passo alla seconda. Per il rettore dell’Università del Nebraska “le nostre convinzioni sulla diversità e sull’inclusione non sono negoziabili”. La personalità autoritaria invertita è espressa nella carta dei valori di molte istituzioni cosiddette educative, che accolgono la diversità ma non la libertà di parola, assimilata alle “azioni di odio e mancanza di rispetto”, un’associazione di idee che fa rabbrividire.
L’assolutizzazione del principio-diversità è l’agenda delle élite occidentali, sostenuta in quanto fornisce loro la possibilità di prevalere su interessi concorrenti. Nel momento in cui emerge una crisi di legittimità, la possibilità di gestire la diversità diventa un formidabile strumento di potere. È più facile dominare una società composta da gruppi isolati in competizione tra loro che una società che condivide una tavola di valori o un’omogeneità culturale, (divide et impera) spirituale o etnica. Uno spazio pubblico frammentato e polarizzato aiuta il potere a riprodurre la propria egemonia.
Per questo hanno separato diversità e differenza, stravolgendo la lezione del dissidente sovietico Vassili Grossman(2): le unioni degli uomini, le loro ragioni, sono determinate da un solo grande scopo: conquistare il diritto a essere diversi (Vita e destino).
Roberto Pecchioli
Approfondimenti del Blog
(1)
«In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome della gloria di Stati e nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d’albero e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempiendo fosse e burroni, in quest’epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa» – Vasilij Grossman
«Ho appena terminato un grande romanzo a cui ho lavorato per quasi dieci anni…» scriveva nel 1960 Vasilij Grossman, scrittore noto in patria sin dagli anni Trenta (e fra i primi corrispondenti di guerra a entrare, al seguito dell’Armata Rossa, nell’inferno di Treblinka). Non sapeva, Grossman, che in quel momento il manoscritto della sua immensa epopea (che aveva la dichiarata ambizione di essere il Guerra e pace del Novecento) era già all’esame del Comitato centrale. Tant’è che nel febbraio del 1961 due agenti del KGB confischeranno non solo il manoscritto, ma anche le carte carbone e le minute, e perfino i nastri della macchina per scrivere: del «grande romanzo» non deve rimanere traccia. Gli occhiuti burocrati sovietici hanno intuito subito quanto fosse temibile per il regime un libro come Vita e destino: forse più ancora del Dottor Živago. Quello che può sembrare solo un vasto, appassionante affresco storico si rivela infatti, ben presto, per ciò che è: una bruciante riflessione sul male. Del male (attraverso le vicende di un gran numero di personaggi in un modo o nell’altro collegati fra loro, e in mezzo ai quali incontriamo vittime e carnefici, eroi e traditori, idealisti e leccapiedi – fino ai due massimi protagonisti storici, Hitler e Stalin) Vasilij Grossman svela con implacabile acutezza la natura, che è menzogna e cancellazione della verità mediante la mistificazione più abietta: quella di ammantarsi di bene, un bene astratto e universale nel cui nome si compie ogni atrocità e ogni bassezza, e che induce a piegare il capo davanti alle sue sublimi esigenze. «Libri come Vita e destino» ha scritto George Steiner «eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio».
«Il libro segue con ottocentesca, tolstojana generosità molteplici destini individuali spostandosi da Stalingrado (città doppia: simbolo di difesa e libertà contro la violenza nazista e insieme luogo-emblema dell’Urss staliniana; solo nella “casa di Grekov” si vive secondo onore e senza gerarchie) ai lager sovietici e ai mattatoi nazisti, da Mosca (le stanze del potere, le celle della Lubjanka) alla provincia russa. E raccontando la “crudele verità” della guerra, le storie intrecciate di eroi e traditori, automi di partito ed esseri pensanti, delatori, burocrati, intriganti, carnefici, martiri, personaggi fittizi e reali, inframmezzando la narrazione con numerosi dialoghi (di ascendenza, questi, dostoevskiana), Grossman continua a interrogarsi sull’essenza di sistemi che uccidono la realtà – di conseguenza anche gli uomini – falsificandola, sostituendola con l’Idea. Al posticcio e menzognero “bene” di Stato lo scrittore può opporre soltanto, per quanto ardua e apparentemente impossibile in tempi disumani, la bontà individuale, rivendicando – sommessamente, ma con tenacia – l’irripetibilità del singolo destino umano. Giacché “Ciò che è vivo non ha copie … E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne”». (Serena Vitale)
COME COMINCIA
La nebbia copriva la terra. Il bagliore dei fanali delle automobili rimbalzava sui fili dell’alta tensione che correvano lungo la strada.
Non aveva piovuto, ma all’alba il terreno era umido e, quando si accendeva il semaforo, sull’asfalto bagnato si spandeva un alone rossastro. Il respiro del lager si percepiva a chilometri di distanza – lì convergevano i fili della luce, sempre più fitti, la strada e la ferrovia. Era uno spazio riempito di linee rette, uno spazio di rettangoli e parallelogrammi che fendevano la terra, il cielo d’autunno, la nebbia.
Sirene lontane – un ululato lungo e sommesso.
La strada si strinse alla ferrovia e la colonna di camion carichi di sacchi di cemento proseguì per qualche tempo alla stessa velocità di un convoglio merci che sembrava non avere fine. Nei loro pastrani militari, gli autisti guardavano avanti senza girarsi né verso i vagoni che passavano, né verso le chiazze pallide dei volti.
Poi dalla nebbia emerse la recinzione del lager: più giri di filo spinato tesi tra piloni di cemento. Una dietro l’altra, le baracche formavano strade ampie e diritte. La ferocia disumana dell’enorme lager si esprimeva in quella regolarità perfetta.
La diversità è fulcro e tema ricorrente del pensiero e della persona di Nietzsche. Distruttore dei valori morali e sociali eterni e al contempo costruttore.
Nietzsche il folle così era spesso descritto, a lungo dibattuto sull’influenza che la sua malattia mentale ha avuto sul suo pensiero, e viceversa. Poi ci fu una rivalutazione della sua follia, essa veniva presentata come l’origine del genio e dell’unicità nietzschiana. Ma questi signori che spaccano, rompono, disgiungono e ricompongono le parole anche da loro la follia ha bussato nelle loro menti pur non raggiungendo il genio nietzschiano? (f.d.b.)