Anche il nostro è un tempo di maschere

Illustrazione di copertina: James Steinberg

LA MASCHERA DI FERRO


È pessima regola parlare di se stessi, ma talvolta è necessario per svolgere certe riflessioni. Confessiamo: siamo tra i milioni di persone a cui l’epidemia ha assestato un duro colpo psicologico. Vivere da reclusi, sentirsi topi in trappola o criceti in gabbia ha scavato un fossato di tensione nella nostra vita. L’animo ribelle fa il resto, portandoci allo stremo. Qualcuno ricorderà La maschera di ferro, il film tratto dal romanzo Il Visconte di Bragelonne di Alexandre Dumas, una storia a cavallo tra realtà e fantasia. Un recluso alla Bastiglia, al tempo del Re Sole, era obbligato ad indossare sempre una maschera di ferro che ne celava il volto. Nessuno seppe mai il suo nome e perché gli fosse stata imposta.

Anche il nostro è un tempo di maschere. Innanzitutto, quelle cui siamo costretti come dubbia profilassi del Covid 19, ma ve ne sono altre che nascondono la verità nella narrazione sulla guerra, sugli atti del governo, sulla storia. La libertà ha lasciato il campo a obblighi, divieti, prescrizioni, verità ufficiali. Non è dato sapere quali armi stiamo fornendo a un paese belligerante e il parlamento non è più l’aula sorda e grigia di mussoliniana memoria, solo il ben pagato bivacco di mille connazionali che non contano nulla. Il presidente della Commissione Esteri del Senato è cacciato perché in disaccordo con la politica nei confronti dell’Ucraina. Non si contano le persone rimosse, sospese, allontanate da tribune giornalistiche, cattedre, eventi, platee televisive in quanto non perfettamente allineate alla versione ufficiale sul conflitto russo ucraino.

Se la libertà è soffocata, la democrazia appare come un lontano simulacro del passato. La maschera di ferro rende tutti uguali i volti, le voci, la narrazione di politici, operatori della comunicazione e della cultura. Si deve pensare tutti allo stesso modo: il trionfo del medesimo. Contemporaneamente, continua l’epidemia e un’altra maschera ostruisce le nostre facce. Siamo, in Europa, i più prudenti o i più timorosi? Abbiamo assistito in Tv alla cerimonia d’investitura del presidente Macron e i presenti  – la crema della società francese – erano a volto scoperto. Forse il mal francese è meno pericoloso del morbo italico.

Di certo, le disposizioni transalpine sono più chiare. In Italia abbiamo inaugurato, dal primo maggio, l’era delle raccomandazioni. No, non quelle per trovare lavoro o ottenere come favore ciò che sarebbe un diritto. La Gazzetta Ufficiale, infatti, nel sospendere (sino a nuovo ordine) l’esibizione del passaporto vaccinale, ha raccomandato – senza imporlo- l’uso della mascherina negli spazi chiusi, obbligatorio solo per ospedali e mezzi di trasporto. Strane norme quelle che raccomandano, ancora più singolare che entrino in Gazzetta Ufficiale.

La verità è che raccomandare significa gettare la palla nel campo altrui, allontanare da sé la responsabilità, soprattutto alimentare le divisioni, il clima di profonda sfiducia reciproca, una drammatica conseguenza dell’epidemia. Litigherò con il commerciante, con il vicino e con lo sconosciuto, ma non me la prenderò con il responsabile dell’inimicizia, il governo, i suoi consulenti a fattura e i suoi danti causa, le oligarchie globaliste.

Delle due l’una: o la mascherina serve davvero, e allora se ne deve mantenere l’uso, oppure non è efficace per evitare il contagio, è un placebo, un oggetto transizionale come la coperta di Linus per un’umanità bambina paralizzata dalle paure. Vi è una terza ipotesi: è un feticcio, il simbolo di due dei peggiori sentimenti umani, la paura e la sottomissione. I governi e i loro padroni hanno imparato con gioia la lezione che si aspettavano dall’epidemia. Dominare i popoli con la paura senza ricorrere alla violenza diretta, si può. La mascherina, nella doppia versione chirurgica e FFP2, è la rappresentazione del timore e della sottomissione. Da mesi non è prescritta all’aperto, eppure una percentuale altissima continua a indossarla, benché siano sempre più numerosi i pareri di chi ne contesta l’efficacia.

Solo paura o eccesso di prudenza? Temiamo di no. Le statistiche non segnalano alcuna diminuzione del contagio presso chi – come l’Italia-  ha generalizzato l’uso delle mascherine. Dunque, si è diffusa una fobia del virus, alimentata quotidianamente, alla quale si risponde con riti scaramantici di rassicurazione, l’igienizzazione delle mani, la lontananza dall’altro – il potenziale vettore del contagio – l’informazione compulsiva e terrorizzante. Le fobie sono irrazionali, definiscono un nemico – vero o immaginario – contro cui tutto vale, se ne infischiano della libertà e della razionalità. Da anni ogni deviazione dalla via prescritta dal potere è indicata come fobia, una malattia da curare con la psichiatria (asservita) e dosi massicce di farmaci, prodotti da aziende che, attraverso l’incrocio di pacchetti azionari, fanno parte del ristretto club dei colossi corporativi mondiali.

È assai gradita, oltre alla maschera, la sottomissione ai voleri, alle parole d’ordine, all’ideologia dell’iperclasse. Sottomissione è sinonimo di servitù volontaria, come intuì Etienne de la Boétie nel XVI secolo. Il pensatore amico di Montaigne rilevava che ogni tiranno detiene il potere fintanto che i sudditi glielo permettono.  La libertà è abbandonata, corrotta dall’abitudine, dal servilismo, dalla comodità che preferisce la servitù del cortigiano – e del gregge – alla dura condizione di uomo libero, che rifiuta di essere sottomesso e di obbedire.

Lo psicoterapeuta Adriano Segatori parla apertamente di lavaggio del cervello, un blocco (lockdown…) cognitivo che ha colonizzato la razionalità con una tecnica di pressante, pervasiva induzione di paura. L’isolamento coatto ha portato l’individualizzazione del lavoro e dell’istruzione. La disgregazione della vita sociale si è prodotta anche con l’invasione informatica della sfera personale, abbattendo ogni barriera tra pubblico e privato, lavoro e intimità familiare. “Lavoro, istruzione, sanità, fabbisogni personali sono governati da piattaforme tecnologiche invisibili. I rapporti interpersonali sono mediati dalla virtualità tecnologica. Questa nuova dimensione immateriale della natura sociale dell’uomo, non condurrà a trasformazioni antropologiche che comporteranno la liberazione non dell’uomo, ma dall’uomo?”

La terribile riflessione prosegue rammentando che la pandemia ha affermato un totalitarismo sanitario in cui eventi naturali come la nascita o l’invecchiamento sono equiparati a stati patologici soggetti a prevenzione sanitaria. Un’altra maschera di ferro. Desta turbamento il completo dominio delle coscienze realizzato dal primato assoluto della preservazione della vita corporea, gettando nell’oblio millenni di educazione spirituale dell’” animale incompleto”, come Nietzsche definiva l’uomo.

In più è avvenuto un formidabile salto logico nel linguaggio- ovvero nella percezione comune- per cui il portatore sano è diventato un malato asintomatico respinto perché possibile untore. La morte – grande rimossa della modernità occidentale- è tornata protagonista con l’insinuazione costante della paura in un bombardamento di messaggi inusitati per estensione, ripetizione, pervasività, violenza. L’esito è stato un condizionamento, una docilità di massa mai sperimentata da nessuna generazione. Un atto massiccio di acculturazione a tappe forzate – il processo mediante il quale un popolo assume la cultura di un altro popolo- e insieme di deculturazione che estirpa la natura umana.

Ciò a cui assistiamo è una vera e propria domesticazione dell’uomo per paura della morte e fine dello spirito. Ridotto a pura biologia, riconvertito a capo di bestiame di un gregge, l’uomo assume la condizione di animale domestico, ossia, scrive Ernst Jünger, di bestia da macello, un essere a disposizione di chi lo ha ridotto a ciò che è diventato. Non a caso viene convinto facilmente da ogni “narrazione”, purché possente, unanime, indiscussa. Lo vediamo con la guerra, ma anche con fenomeni di rottura antropologica come l’eutanasia: ci condizionano affinché accettiamo di morire igienicamente se la nostra vita non è degna di essere vissuta in base a parametri materiali (e concretissimi interessi) decisi dall’alto secondo un allucinante spirito dei tempi regressivo.

Applaudiamo l’idea di sopprimere i feti e perfino i neonati. Le grandi corporazioni americane- veicolo principale dell’asettica barbarie postmoderna –si offrono di pagare l’aborto alle dipendenti se esso verrà messo in discussione dalla Corte Suprema. Una società scissa da se stessa, un’umanità solitaria di atomi uguali che corre spedita, gaia, verso la fine credendo di difendere la vita, la libertà (riconvertita in desiderio più capriccio) perfino la democrazia. Una maschera di ferro le cui chiavi sono consegnate agli aguzzini. 

Il primo autore di romanzi distopici. Aleksandr Zinov’ev  (“Noi”) intuì che il trucco geniale è quello di fingere un’ideologia che proclama la fine delle ideologie. La maschera di ferro dell’uomo –cifra digitale, simbolo dell’Identico e dell’Unico – nasconde un impressionante meticciato, quello con la macchina, unito alla supremazia della tecnica-ovvero dei suoi padroni- sulla vita. Guai a chi cela in sé deserti, ammoniva Zarathustra, ma che cos’ è la contemporaneità se non un deserto di corpi e di anime?

Deserto uguale nichilismo, egoismo, narcisismo. Perdita di qualsiasi orizzonte di senso nell’ideologia unica, riduzione al presente nella psicologia di massa, lo sguardo rivolto a un Sé fatto di pura materia, convinzione che il presente sia il compimento della storia – paradossale suprematismo temporale – negazione di ogni valore che trascenda la dimensione individuale. Questa è la maschera che non sappiamo né vogliamo strappare.

Le conseguenze sono svariate: una è il male fatto a generazioni di bambini che non vedono più il volto di genitori, parenti, amichetti, insegnanti, perdendo la prima fonte di giudizio, il linguaggio dei visi, il sorriso o la smorfia. Scriveva Ida Magli che il gesto di sorridere, aprire la bocca mostrando i denti senza intenzioni negative, fu una delle decisioni più importanti dell’uomo primitivo. Avanza una regressione che spaventa. O forse no: la maggioranza manifesta non solo docilità, ma addirittura piacere nella riduzione a gregge. Il servo ama le sue catene; nessuna rivoluzione è in vista, nessuna presa di coscienza.

Un lungo lavoro impedisce di ragionare e comprendere ciò che generazioni più spiritualmente attrezzate avrebbero capito facilmente. La mascherina è un simbolo di sottomissione e di chiusura in sé più che un dispositivo di protezione sanitaria, così come il green pass è un fondamentale mattone della trasformazione dell’uomo a cifra, nonché dell’esproprio delle libertà più concrete. L’igienizzante, con il gesto rituale dell’abluzione delle mani, sostituisce la purificazione spirituale con la sanificazione corporea. La stretta di mano – simbolo di vicinanza – è abolita e i più ardimentosi osano un fugace tocco di gomito. Non siamo più uomini o donne, ma figurine intercambiabili, la cui unica diversità è nel colore, nella foggia, nella moda della mascherina. Tutto conduce l’umanità mascherata a un isolamento percepito come salvifico, simile alla vita degli hikikomori, le persone auto segregate in casa, iperconnesse, che sostituiscono la realtà con la virtualità. Quotidianamente, assistiamo a fenomeni sorprendenti: sospetto reciproco, lontananza, sfiducia. Ma si è comunità solo se si dà credito all’Altro, lo si riconosce, si solidarizza con lui. Perfino nelle società basate sul contratto, si deve praticare un certo grado di fiducia, certificata da norme scritte la cui inosservanza provoca sanzioni. Nel mondo in maschera di monadi nemiche la regola è il sospetto, cioè la lontananza, primo movente della diffidenza e dell’inimicizia. Si vive nell’angoscia della fine, il cui allontanamento ad ogni costo diventa il senso vano dell’esistenza. Passeggeri clandestini del Titanic, osserviamo con occhi asciutti il ballo in maschera.

Roberto Pecchioli

 

 

Illustrazione di copertina: James Steinberg

 

 

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