Fermate il mondo, voglio scendere

Illustrazione di Igor Morski

LA MERAVIGLIOSA UTILITÀ DELL’INUTILE


Fermate il mondo, voglio scendere. Lo pensiamo in tanti, anelando pezzi di vita, ritagli di tempo, luoghi sicuri in cui sfuggire una realtà ogni giorno più disumana. Ferisce la dittatura dell’utile, del calcolo in denaro, un’esistenza in cui tutto è mezzo e nulla è fine. Ogni gesto, ogni aspetto della vita deve “servire”, ossia avere un esito calcolabile. Tutto il resto è un costo, un intollerabile sfregio all’altare dell’utile.

Invece no: la felicità è in ciò che è fatto gratuitamente, senza secondi fini: la gioia di ciò che non serve, la meravigliosa utilità dell’inutile, di ciò che è fatto per amore ed è perciò “al di là del bene e del male “(F. Nietzsche). Lo sperimentò Niccolò Machiavelli allorché – allontanato dagli affari di Stato per motivi politici – dovette ritirarsi in campagna. Dove, come scrisse in una lettera all’amico ambasciatore Francesco Vettori, finiva per “ingaglioffirsi” in occupazioni volgari sino a quando, venuta la sera, tornava a casa ed entrava nel suo piccolo studio.

«Venuta la sera mi ritorno a casa, ed entro nel mio scrittoio; ed in sull’uscio mi spoglio quella veste contadina, piena di fango, e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove da loro ricevuto amorevolmente mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandare della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattr’ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. Nicolò Machiavelli nel suo studio 

Per il segretario fiorentino la conoscenza era il pane di cui vivere. Per tutti è un modo per ritrovare il senso della vita e sperimentare ciò che davvero vale, senza cartellino del prezzo e codice a barre. L’esistenza non è una sequenza di momenti, atti, gesti “utili”, né siamo al mondo semplicemente per perseguire l’interesse inteso nei termini di beni materiali accumulati e successo personale. Tanto più in un tempo in cui la violenza della legge umana – dei peggiori tra gli uomini – stabilisce che il “migliore interesse” di una bambina malata, la povera Indy – è essere uccisa dalle mancate cure. Quella vita era inutile, un costo, uno scarto che “non serve”. Tutto il nostro progresso è finito in un orribile buco nero di disumanità in nome dell’utile, l’interesse deciso da un potere maligno.

Serve ritornare al cuore, il muscolo che fa vivere e cadenza le emozioni. Rifugiarsi nel cuore è dare ascolto alla parte migliore di noi stessi. Machiavelli trovava nella cultura, nella meditazione, nelle infinite domande suscitate dalla misteriosa sintonia tra cuore e cervello, anima e ragione, la ragione per la quale vivere. Uguale è l’esortazione che Dante fa pronunciare a Ulisse ai compagni nel periglioso viaggio verso l’ignoto: fatti non foste a viver come bruti, ma a seguir virtute e canoscenza. Nessuno pratica più la virtù, e la conoscenza si è trasformata in angusto specialismo, l’angolino di sapere utile alla “vita activa”. Stiamo diventando bruti centrati sul piacere, l’interesse e l’utile. Inutile è tutto ciò che non può essere messo a reddito o scambiato sul mercato.

Shylock e Jessica dalla commedia Il mercante di Venezia di William Shakespeare.

Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse, ammonisce Adam Smith. E sia, l’uomo è anche ciò che mangia. Anche. Altrimenti non sarebbe diverso dall’animale. La cultura di cui Smith fu l’araldo lavora per ridurci a bestie: a questo porta la dittatura dell’utile, dell’immediato e del piacere. Viviamo nel regno dell’usura che pretende sacrifici umani: Indy uccisa da un’algida sentenza di un giudice imparruccato, la violenza spietata delle guerre, la morte offerta come soluzione con disgustosa inversione, giacché l’interesse del forte è il sacrificio è del debole, il regno di Shylock che pretende a garanzia il corpo stesso del debitore. “La penale sia una libbra esatta/della vostra carne bianca, da tagliare/ E prendere in quella parte del vostro corpo/ che più mi piacerà”.  La sordida disumanità di un mondo che tutto riduce a merce, partita doppia, dare e avere, incurante dell’essere.

A che servono la letteratura o l’arte? Del tutto inutile è la filosofia, che pone domande a cui spesso non trova risposte. Meglio il macellaio di Adam Smith, che conosce il prezzo della carne, non fa sconti ed è utile alla società. Nulla è più inutile della bellezza. La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no, osservò il mistico Angelo Silesio. All’uomo contemporaneo della rosa interessa solo il prezzo, valutato in relazione all’uso che se ne può fare, conquistare una donna, scusarsi per un torto. Valore d’uso: nullo. Valore di scambio, modesto, giacché la rosa non può essere barattata o posta a pegno, delicata e fragile com’è. Però è perfetta, profumata, riempie i sensi di gioia ed eleva il cuore allo sguardo. La rosa è necessaria perché rende felici e perché è bella.

Bisonti raffigurati nel soffitto della grotta di Altamira

Filosofia spicciola di animi perdenti? Povera e nuda vai, Filosofia, dice la turba al vil guadagno intesa (Petrarca). Il ruolo della filosofia- amore per il sapere, arte di porre domande, indagine sui perché- è rivelare agli uomini l’utilità dell’inutile e la bellezza dei saperi liberi da finalità utilitaristiche.  Gli uomini primitivi, dalla vita durissima, un giorno impararono a usare le dita come pennelli. Qualcuno tra loro dipinse i graffiti nelle grotte di Altamira. Furono i primi artisti, i primi uomini a fare qualcosa di inutile: quelle immagini che rappresentavano il mondo circostante non servivano a nulla, anzi distoglievano dalle mille necessità di un’esistenza precaria, carica di insidie. Si sentirono felici- pienamente umani- nonostante quei segni sulla roccia non fossero nel loro “migliore interesse”.

L’uomo inventava cose utili, a partire dal dominio del fuoco e dalla ruota, imparava a sottomettere la natura, ma accanto a ciò che era vantaggioso, utilizzabile, voleva qualcosa di più. Ossia, levava lo sguardo verso l’alto, l’oltre. Monili da indossare, oggetti decorativi, abiti; perfino gli utensili, oltreché adempiere specifiche funzioni, dovevano essere di aspetto gradevole; l’uomo inventava la bellezza e se ne innamorava, ricreandola nelle opere. Riconosceva di non essere un bruto o una bestia, a differenza di molti contemporanei, circondati dal brutto e ad esso indifferenti. Le prime forme di arte trascendevano funzioni del corpo: il canto- l’uso della voce- la poesia, capacità di creare bellezza attraverso le parole, la danza, l’armonia del movimento. Nietzsche scrisse che avrebbe potuto credere solo in un Dio che danza.

Non siamo certi quanto il principe Myshkin che la bellezza salvi il mondo; sicuramente la bruttezza lo rovina, sfigurandolo. Ma la bellezza – come la filosofia, come la poesia- non serve a nulla. Carmina non dant panem, recita il motto, eppure Gesù rispose al diavolo tentatore che non di solo pane vive l’uomo. Mediocri consolazioni, rivincite morali di chi non possiede beni materiali? Avere è lo scopo dell’esistenza. Chi non ha è uno sconfitto. Ma felicità e possesso non camminano insieme: l’economista Richard Easterlin dimostrò che i popoli ricchi non sono i più felici. La società dei consumi è programmaticamente nemica della felicità: crea bisogni indotti che si rivelano, una volta soddisfatti, vacui, non appaganti, costringendo ad alzare la posta, pena l’insoddisfazione, porta dell’infelicità.

Inutile, apparentemente, è giocare. Occupazione infantile, priva di scopo. Tuttavia, accanto all’homo faber, l’artefice che trasforma il mondo, simbolo dell’utile, sonnecchia a ogni età l’homo ludens, colui che gioca, ovvero vive fuori dalla tirannia utilitaria. Johann Huizinga dimostrò che la dimensione ludica è connaturata all’uomo, il quale ha bisogno del divertimento, del riso, parti integranti dello sviluppo, del mantenimento della civiltà, dell’equilibrio della vita. Il gioco non è utile, non serve, nasce ed è vissuto prima della costruzione identitaria e della comprensione della realtà. La cultura stessa ha origine in forma ludica: ogni cosa è dapprima “giocata”. Nei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo. (J. Huizinga, Homo ludens). Giocare è atto libero, estraneo alla vita ordinaria; avviene entro un “cerchio magico” con tempi e spazi peculiari; crea ordine e non ha interesse materiale. Il gioco ci fa “abbandonare ad un altro mondo” oltrepassando i limiti della mera funzione biologica; è un elemento istintuale, ma senza finalità di sussistenza o sopravvivenza. Si colloca nella sfera spirituale. “Mi pare che l’Homo Ludens indichi una funzione almeno tanto essenziale come quella del fare e che meriti un posto accanto all’homo faber (Huizinga).

Duello rusticano Francisco Goya (1820 – 1821) Olio su muro trasportato su tela. Dimensioni 123×266 cm. Museo del Prado, Madrid. (Wikipedia p.d.)

Pure, l’homo calculans ha tratto dal gioco una teoria che studia modelli matematici di interazione tra agenti razionali. La teoria dei giochi interessa le scienze sociali, la logica e l’informatica, si applica ad una vasta gamma di relazioni comportamentali, diventa scienza delle decisioni logiche negli esseri umani e nei calcolatori. Strano destino del gioco, inutile, imperdibile felicità in ogni tempo dell’esistenza. Gli uomini, ahimè, non possono fare a meno di combattersi, per qualcosa o per nulla. Lo testimonia un’opera d’arte, il Duello rusticano di Francisco Goya, in cui due poveracci si scontrano in un paesaggio spettrale con violenza primordiale. Una lotta feroce – essa sì inutile – che terminerà con la morte di uno dei due, prigionieri di un sentimento di distruzione e supremazia.

L’arte, come la cultura, sa esprimere il meglio e descrivere il peggio dell’esperienza umana. Pensiamo alla mistica elevazione della pittura di Beato Angelico o all’affresco delle più basse pulsioni umane del romanzo L’Isola del Tesoro di Robert Stevenson, riscattate dal giovane marinaio Jim che, rinvenuta l’immensa ricchezza, si limita a catalogare monete, gioielli, pezzi d’oro e d’argento come documenti storici, realizzazioni artistiche, affascinato dai volti dei sovrani raffigurati e dalla singolare varietà delle incisioni. La bellezza abbagliante dell’inutile nei simboli della ricchezza. Nell’Utopia(1) di Tommaso Moro gli abitanti dell’isola che non c’è- utopia, nessun luogo- impiegano i metalli preziosi per i vasi da notte e gli usi più vili. Nulla che possa mai avverarsi, nel regno della quantità.

Non per caso nell’ultimo mezzo secolo abbiamo assistito alla marginalizzazione di tutte le discipline dette “umanistiche”, le scienze dello spirito (la res cogitans cartesiana) a vantaggio delle conoscenze tecniche e scientifiche, a loro volta svuotate di valore conoscitivo per essere poste immediatamente al servizio dell’utile. È per questa soffocante subordinazione strumentale che la felice utilità dell’inutile viene screditata, derisa, rinchiusa nella riserva indiana. Senza la bellezza, l’arte, la gratuità, il disinteresse, viviamo nell’aridità dello spirito e nel deserto dell’anima. In Cent’anni di solitudine, il romanzo di Gabriel Garcìa Màrquez, il colonnello Buendìa, dopo guerre e malefatte, “scopre con quarant’anni di ritardo i privilegi della semplicità”. Chiuso nel suo laboratorio, fabbrica pesciolini d’oro in cambio di monete d’oro, rifuse per fabbricare nuovi pesciolini. Un duro lavoro perfettamente inutile dal punto di vista pratico, ma è da quella gioia estranea al profitto che nascono l’arte, la letteratura, i gesti gratuiti e talvolta eroici, la generosità, la felicità ineffabile dell’inutile. Lo spirito, infine: ciò che non serve, agli occhi del mercante e del contabile.

Roberto PECCHIOLI

 

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Descrizione

Originariamente scritto in latino nel 1516, questo libro rappresenta a buon titolo il prototipo moderno della letteratura utopistica e visionaria. Suddiviso in due parti, il libro è incentrato sul dialogo di More con Raffaele Itlodeo (“il chiacchierone”). Questi, gran viaggiatore, esordisce con la descrizione a tinte vive dell’Inghilterra dell’epoca. Il fenomeno delle recinzioni, dell’espropriazione delle terre comuni a opera della nobiltà terriera, aveva condotto sul lastrico vaste componenti della società inglese, soprattutto i contadini. Da lì l’aumento vertiginoso della criminalità, dei reati e dei furti. Ma è nella seconda parte dell'”Utopia” che Itlodeo espone la sua ricetta per ovviare al malgoverno appena descritto: la repubblica di Utopia, una società in cui è abolita la proprietà privata e dove l’uso dei beni è concesso solo in base ai propri bisogni. Abolendo la proprietà privata viene annullata così la ragione prima del furto, dando vita pertanto a una società molto meno violenta. È altresì bandito anche l’uso del danaro, perché le cose sono soppesate solo in base al loro valore d’uso e non per il loro valore di scambio. In questa isola, amministrata rettamente, ognuno può professare la religione che meglio crede, anche se tutti convengono per l’esistenza di un Dio, creatore e provvidente, e per l’esistenza altresì dell’anima, la cui credenza è essenziale anche per il retto governo della società.

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