UN TACCUINO SEGRETO. UNA MORTE INSPIEGABILE. UN GENIO CHE A DISTANZA DI CINQUE SECOLI GIOCA CON LA NOSTRA INTELLIGENZA E CI COLMA DI STUPORE.

«Questa capacità rende l’uomo simile a Dio: quella di inventare cose che non esistevano prima, e dare loro significato. Ogni uomo può dar forma, nella sua testa, a oggetti che non esistono, e convincere gli altri che tali oggetti esistono, o esisteranno.»

A cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, Marco Malvaldi gioca con la lingua, la scienza, la storia, il crimine e lo riporta in vita immaginando la sua multiforme intelligenza alle prese con le fragilità e la grandezza dei destini umani.

La trama del romanzo.

Ottobre 1493. Firenze è ancora in lutto per la morte di Lorenzo il Magnifico. Le caravelle di Colombo hanno dischiuso gli orizzonti del Nuovo Mondo. Il sistema finanziario contemporaneo si sta consolidando grazie alla diffusione delle lettere di credito. E Milano è nel pieno del suo rinascimento sotto la guida di Ludovico il Moro. A chi si avventura nei cortili del Castello o lungo i Navigli capita di incontrare un uomo sulla quarantina, dalle lunghe vesti rosa, l’aria mite di chi è immerso nei propri pensieri. Vive nei locali attigui alla sua bottega con la madre e un giovinetto amatissimo ma dispettoso, non mangia carne, scrive al contrario e fatica a essere pagato da coloro cui offre i suoi servigi. È Leonardo da Vinci: la sua fama già supera le Alpi giungendo fino alla Francia di re Carlo VIII, che ha inviato a Milano due ambasciatori per chiedere aiuto nella guerra contro gli Aragonesi ma affidando loro anche una missione segreta che riguarda proprio lui. Tutti, infatti, sanno che Leonardo ha un taccuino su cui scrive i suoi progetti più arditi – forse addirittura quello di un invincibile automa guerriero – e che conserva sotto la tunica, vicino al cuore. Ma anche il Moro, spazientito per il ritardo con cui procede il grandioso progetto di statua equestre che gli ha commissionato, ha bisogno di Leonardo: un uomo è stato trovato senza vita in una corte del Castello, sul corpo non appaiono segni di violenza, eppure la sua morte desta gravi sospetti… Bisogna allontanare le ombre della peste e della superstizione, in fretta: e Leonardo non è nelle condizioni di negare aiuto al suo Signore.

Un romanzo straordinario, ricco di felicità inventiva, di saperi e perfino di ironia, un’indagine sull’uomo che più di ogni altro ha investigato ogni campo della creatività, un viaggio alla scoperta di qual è – oggi come allora – la misura di ognuno di noi.

Come inizia.

Il talento coglie un bersaglio che nessuno riesce a colpire. Il genio coglie un bersaglio che nessuno riesce a vedere.

Arthur Schopenhauer.

Prologo.

L’uomo si fermò un attimo, prima di entrare.

   Inutile guardarsi intorno per cercare di capire se qualcuno lo avesse seguito. L’entrata al castello sorgeva in una delle zone vecchie di Milano, lungo una strada umida e buia a cui si arrivava solo tramite altre strade umide e buie, e se anche qualcuno gli si fosse messo dietro lo avrebbe perso già da un bel pezzo, nonostante il vistoso panno rosa del suo vestito.

   A dire il vero, capitava che temesse di perdersi anche lui. Già una volta era successo che non fosse in grado di orientarsi nel gomitolo dei vicoli intorno al castello. Un po’ per colpa sua, certo, che non aveva mai avuto un gran senso dell’orientamento. Un po’ per colpa di quella città, cresciuta così male, senza un progetto, senza una forma, senza una visione. Andava ripensata da capo a piedi, quella città. Organizzata in modo diverso, proprio. Radicalmente diverso. In modo mai visto prima. Una città su più livelli, per esempio. Dal basso all’alto, dall’acqua al cielo. Una città come il contrario di una casa, dove i poveri stavano in aria e i signori a terra, come nelle insule romane descritte nel libro di Vitruvio. Aveva avuto ragione Francesco di Giorgio a tradurlo dal latino, ne valeva davvero la pena. Grande acquisto, quel libro. Gli era costato una fortuna, ma gli aveva fatto venire in mente tante di quelle…

   L’uomo vestito di rosa si riscosse, rendendosi conto di essersi perso – ma solo nei suoi stessi pensieri. Cosa che gli capitava spesso, e che era di gran lunga la frazione di tempo migliore della sua giornata. Ma adesso non era il momento di abbandonarsi a fantasticherie. Adesso c’era da fare.

  Con calma, ma senza tranquillità, l’uomo bussò al portone. Quasi subito, un cigolio gli fece capire che stavano aprendo, e nel buio assoluto della strada la stanzuccia d’ingresso sembrò quasi luminosa.

   Una sola parola.

   – Entrate.

E l’uomo entrò, lasciandosi il buio alle spalle.

Inizio

La prima cosa che si notava entrando nella sala del Consiglio era che c’era poca luce.

   Nonostante fosse appena metà ottobre era già freddo a Milano, e prima ancora che il castello si popolasse dei signori di ritorno da Vigevano i servi avevano già riparato le finestre con le impannate: bianchi teli di stoffa impregnati di trementina per renderli il più possibile trasparenti, e che facevano filtrare ben poca luce dall’esterno, ma che in compenso non facevano vedere nulla di quello che accadeva all’interno della sala. Per chi abitava nel castello quella era la sala degli Scarlioni, per via delle decorazioni bianche e rosse che così si chiamavano, ma per tutti gli altri, cioè la maggioranza degli abitanti di Milano, quella era la sala del Consiglio: la sala dove si riuniva abitualmente il Consiglio segreto. Sei persone, le sei persone più potenti di Milano, più il loro signore, il più potente di tutti.

   – Fate entrare il prossimo, castellano.

Bernardino da Corte, castellano di Porta Giovia, fece un cenno e tirò a sé la pesante porta di legno, mentre annunciava:

   – Sua Eccellenza il generale dell’Ordine dei Francescani, Francesco Sansone da Brescia.

   Il martedì e il venerdì erano i giorni riservati alle udienze. I giorni in cui Ludovico il Moro, duca di Bari ma ciò nonostante signore di Milano, concedeva ascolto e attenzione a chiunque li richiedesse per risolvere un problema. Qualsiasi tipo di problema, e qualunque cittadino di Milano – il che significava chiunque pagasse le tasse imposte dal Moro, a parte quelli che non le pagavano per gentile concessione del Moro stesso. E il milanese che pagava le tasse aveva ben diritto a essere ascoltato, anche perché di tasse ne pagava parecchie.

   Ma il capo dell’Ordine dei Francescani non era un cittadino milanese, e non era neanche un cittadino qualunque. A rigor di logica, non avrebbe avuto diritto di usurpare neanche un minuto del prezioso tempo che il Moro destinava ai suoi sudditi, ascoltando le suppliche dei poveracci invece di imporre il suo volere ad ambasciatori riottosi, destrieri focosi o condiscendenti ancelle. A norma di buon senso, d’altra parte negare udienza al generale dell’Ordine che si presentava come semplice cittadino sarebbe stato stupido.

   E Ludovico il Moro, duca di Bari e signore di Milano, non era stupido per niente.

  – Quale onore – disse il Moro, seduto sul suo scranno. – Il generale dell’Ordine dei Francescani che chiede udienza come un cittadino. A cosa dobbiamo una visita di sì modesta guisa?–

  – Io sono un umile francescano, Vostra Signoria – rispose Francesco Sansone – e non sono avvezzo a onori e orpelli. D’altronde, la questione che intendo sottoporre alla lungimiranza di Vostra Signoria richiede così poco tempo che sarebbe stato prepotente richiedervi udienza privata.

   Benvenuti nel Rinascimento, dove ogni frase viene calibrata e inanellata come un gioiello, pesando sul bilancino ciascuna singola parola e poi mostrando il monile non per far vedere quanto è bello, ma quanto è potente chi lo indossa. E dove il significato di qualunque discorso deve essere interpretato sulla base di chi lo fa, di chi lo ascolta, di chi c’è nella stanza e di chi non c’è, di quali nomi si dicono e soprattutto di quali non si pronunciano.

   In buona sostanza, Ludovico il Moro aveva accolto il frate non chiamandolo per nome, ma per titolo, e apprezzando che gli facesse visita come umile cittadino; il che voleva significare che il frate, in quanto capo dei francescani, non contava un cazzo né per lui né per il resto del Consiglio. Al che il frate aveva risposto che avrebbe avuto ben altri modi, più ufficiali, più solenni e inesorabili, per imporsi all’attenzione del Moro, chiamandolo Vostra Signoria, e non duca, ricordandogli di fatto che per gran parte d’Italia Ludovico era solo e semplicemente un usurpatore.

    – Ne sono lieto, padre – rispose il Moro. – Diteci, dunque. Il Consiglio e io siamo pronti ad ascoltarvi

    – Vostra Signoria… perdonate, non vedo Sua Eminenza il vescovo di Como. Spero non sia indisposto.

  – Nessuna indisposizione, padre. Abbiamo ultimamente diminuito il numero dei consiglieri, giacché quarantadue persone erano veramente ridondanti per svolgere tale ufficio, anche in virtù del fatto che le cause e le motivazioni di udienza si sono grandemente ridotte nel corso dell’ultimo anno.

   Certo, avrebbe potuto far notare il frate, se prima quarantadue erano troppe, forse adesso sei sono troppo poche – anche senza notare il fatto che tra queste sei non c’era nessun ecclesiastico, cosa che difficilmente poteva essere un caso. Padre Sansone si schiarì la voce, nuovamente.

   – Vostra Signoria, sono qui su richiesta del mio Ordine acciocché possiate riconsiderare il caso di frate Giuliano da Muggia, il quale continua a predicare in spregio alle regole del suo Ordine e al contenuto delle Sacre Scritture.

   – Non saprei come, padre – rispose il Moro, dopo aver posato lo sguardo su ognuno dei componenti del Consiglio.

   – Dunque il signore di Milano non saprebbe come far tacere un povero francescano?

  Non c’è certo bisogno di un fine esegeta per comprendere il significato pesantemente allusivo della domanda del francescano, in particolare del condizionale. E se lo ha avvertito il lettore, figuriamoci se la cosa poteva sfuggire a un qualsiasi membro del Consiglio. O a Ludovico il Moro.

   – Frate Giuliano è già stato arrestato e processato sedici mesi or sono, su vostra stessa iniziativa. Non essendo io priore di un ordine religioso, ho ordinato che il processo venisse rivisto, lasciando mandato a Sua Eccellenza l’arcivescovo Arcimboldi di presiedere. Sapete benissimo quale sia stato l’esito del processo.

   Padre Sansone respirò a fondo.

   Il processo-farsa a carico di Giuliano da Muggia era stato un autentico capolavoro del Moro. Tutti i testimoni, guarda caso laici e guarda caso appartenenti alla corte di Ludovico, avevano lodato con entusiasmo le prediche del frate e minimizzato o fatto finta di non ricordare le sue sparate contro la Chiesa di Roma. Il che, poi, in realtà, sarebbe stato il meno.

   Frate Giuliano non si limitava a dire che la Curia romana era corrotta, mondana, decadente e schifosa; quello lo facevano già in parecchi, incluso quel domenicano dalla voce querula, Girolamo Savonarola, che si era fatto fama di notevole porta merda profetizzando la morte di Lorenzo de’ Medici e altre sciagure puntualmente avveratesi.

   No, frate Giuliano sosteneva che la Chiesa della capitale lombarda poteva essere indipendente da quella di Roma. Come Savonarola, che mirava a ottenere l’indipendenza dei conventi; solo che questo qui voleva convincere Milano a staccarsi da Roma. Milano, la città che stava vistosamente diventando la più ricca provincia della penisola italiana, il posto che attirava i più grandi artisti, che destinava alla vicina Università di Pavia i migliori medici e i più eminenti matematici, pagandoli profumatamente.

   Questo non doveva accadere, secondo padre Sansone e secondo un suo influente collega che sedeva sul soglio di Roma. Perciò aveva cercato di imbrigliare frate Giuliano. Certe cose meno si dicono e meglioè, e avere un francescano che invoca con voce tonante la separazione della Chiesa ambrosiana da quella romana con ogni mezzo – ruspe escluse, all’epoca non esistevano – non era proprio il massimo della vita, ecco.

   Ma il processo istruito da Sansone era stato dirottato dal Moro con abilità tutta rinascimentale. I poeti di corte avevano composto strofe che erano state declamate in tutta la città; ovunque, nelle strade intorno al Broletto e lungo i Navigli, si potevano sentire il sonetto del Bellincioni O Milan cristianissimoe la sestina di tale Giacomo Alfieri, famosissimo ai tempi ma giustamente dimenticato oggi, che ringraziavano il cielo per aver mandato a Milano frate Giuliano. Orribili entrambi, ma efficaci. Il Moro si era ingraziato la cittadinanza, prima ancora che la corte, stringendo la Curia a tenaglia tra la propria consapevole volontà e quella bovina del popolo.

   – So bene che frate Giuliano è stato cristianamente assolto – disse padre Sansone, dopo un altro respiro bello lungo. – Frate Giuliano è un uomo di valore, e le sue prediche sono ispirate da grande fervore. Grande fervore e grande amore per il suo gregge. Frate Giuliano è un uomo che sa parlare alla gente, perché dice ciò che la gente vuol sentirsi dire.

   Col che, il religioso stava bastardamente ricordando a Ludovico che il favore del popolo va a momenti. E, al momento in questione, il popolo non era più tutto col Moro.

   La tassa del sale e le altre recenti imposte non erano state prese bene dalla gente, e la popolarità di Ludovico non era più alle stelle come un tempo. Se fossero esistiti i sondaggi, probabilmente i consigli del martedì mattina sarebbero iniziati con una riunione preventiva per analizzare il consenso e indirizzare bene le intercessioni del Moro. Ma, all’epoca, la statistica era ben al di là dal venire, l’uomo medio ancora non era stato scoperto, e il popolo poteva palesare la propria volontà solo acclamando. O rivoltandosi.

   – E frate Giuliano, che è un uomo di pronta intelligenza, – proseguì padre Sansone – difficilmente può essere portato a tacere. Quando predica in San Francesco Grande, riempie la chiesa. Le persone vengono a sentirlo da lontano, e ne escono ispirate. Sarebbe forse opportuno…

   Che cosa sarebbe stato opportuno, però, padre Sansone non riuscì a dirlo, perché in quel momento Ludovico si alzò dalla sedia.

   Se fossimo stati dalle parti di Lodi, Ludovico il Moro sarebbe stato alto circa quattro braccia da fabbrica più un palmo; se invece avessimo voluto misurarlo all’uso di città, il Moro sarebbe risultato in lunghezza poco meno di tre braccia da panno milanese. In termini di sistema metrico decimale, il signore di Milano era alto un metro e novanta, il che, unito allo sguardo glaciale e alla lunga e severa veste di broccato nero, faceva sì che quando Ludovico il Moro si alzava in piedi metteva veramente paura.

   Lentamente, dopo essersi alzato, Ludovico andò accanto al francescano e lo prese con dolcezza per un gomito.– Venite, padre eccellentissimo – disse con voce soave, ma come colui che è consapevole di incutere. – Voglio mostrarvi una cosa.E, sempre per il gomito, fece attraversare all’austero ma spaventatissimo religioso tutta la sala, fino ad arrivare a una magnifica pianta della città affrescata sulla parete.

   – Vedete, padre eccellentissimo, Milano è una ruota. – La mano del Moro tracciò un ampio cerchio, mostrando sulla pianta le mura che proteggevano la città, per poi piantare un dito al centro della cartina, in corrispondenza del Duomo. – Milano è una ruota, e la sua chiesa ne è il mozzo. Un mozzo robusto, sicuro e ben dritto. Ma sapete cosa succede se questa chiesa rimane immobile?Il dito del Moro cominciò a tracciare dei circoli sempre più stretti, fino a stringersi a spirale intorno al Duomo, e lì fermarsi.– La ruota può girare, e girare, e girare ancora, ma chi ci vive… – il Moro allargò le mani – … non andrà da nessuna parte. – Dopo di che, la destra del Moro si posò sulla spalla del francescano, in modo amichevole, ma anche pesante. – Comprendete, padre eccellentissimo?

   – Comprendo, comprendo, ambasciatore. Vi prego, non vi date pena per questo. Abbiamo visto di peggio, ve ne assicuro.

   – Io non posso che scusarmi per le condizioni miserande nelle quali mi presento, ma…

   Giacomo Trotti, ambasciatore di Ercole I d’Este, duca di Ferrara presso la corte degli Sforza, era solitamente una delle persone più distinte e serie di tutta Milano. Ma la serietà e la distinzione sono spesso aiutate dall’avere un adeguato aspetto esteriore, e quando ti rovesciano addosso un vaso da notte, tali qualità risultano oltremodo compromesse. Purtroppo, mentre andava verso Palazzo Carmagnola per l’usuale incontro di musica del martedì nel salotto di Cecilia Gallerani, l’anziano ambasciatore era stato per l’appunto bersagliato da uno screanzato che aveva vuotato il vaso fuor di finestra senza troppi riguardi, e senza l’usuale «arrivaaaa!» che anche i meno educati urlavano verso la strada, onde evitare involontari gavettoni di merda.

   – Suvvia, suvvia, ambasciatore, non fatevi scrupolo. – Cecilia Gallerani fece un cenno, e una delle damigelle che aspettavano in fondo alla sala si avvicinò camminando con forzata leggiadria. – Conducete il signor ambasciatore Trotti nella camera a occidente e dategli assistenza. Non cominceremo certo senza di voi, ambasciatore.

   – Non so come ringraziarvi, contessa…

   – Sbrigandovi a cambiarvi, e a raggiungerci per godere della vostra compagnia – rispose la Gallerani sorridendo. – Tersilla, mi raccomando.

   E, sempre sorridendo, la ragazza scomparì oltre una porta, per dare ordine ai musici di aspettare ancora un pochino. Giacomo Trotti, ambasciatore di Ferrara, continuò a guardare per un attimo la porta oltre la quale Cecilia Gallerani si era eclissata. E, come sempre, partì automatico il paragone con quella che in teoria era la sua protetta e la sua compatriota. Paragone che, come sempre, si rivelò impietoso.

L’autore.

Marco Malvaldi.

Marco Malvaldi (Pisa, 1974), chimico, ha esordito nel 2007 per Sellerio con La briscola in cinque, primo degli ormai sette volumi dedicati ai “vecchietti del BarLume”, divenuti nel 2013 anche una serie televisiva. Ha pubblicato inoltre i romanzi Odore di chiuso (Premio Castiglioncello e Isola d’Elba-Raffaello Brignetti), Milioni di milioni, Argento vivo, Buchi nella sabbia, La battaglia navale, Negli occhi di chi guarda e i saggi L’infinito tra parentesi. Storia sentimentale della scienza da Omero a Borges, Capra e calcoli. L’eterna lotta tra gli algoritmi e il caos, Le due teste del tiranno. Metodi matematici per la libertà, L’architetto dell’invisibile ovvero come pensa un chimico e Per ridere aggiungere acqua. Piccolo saggio sull’umorismo e il linguaggio.

 

La misura dell’uomo, Marco Malvaldi. Editore: Giunti Editore. Collana: Scrittori Giunti

Anno edizione: 2018 – Pagine: 300 p., Rilegato

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