La casa sull’abisso? È la nostra. Nel 1908 uscì un libro che diverrà per noi una “premonizione” e destinato a diventare un classico nella letteratura del “fantastico e del terrore”: “La casa sull’abisso” di William Hope Hodgson. 

William Hope Hodgson.

Il 1908 è un anno che vede addensarsi sempre più minacciose le nubi sopra l’Europa. Appena tre anni prima c’è stata la prima crisi marocchina, con il pericolo di un confronto militare tra la Francia e la Germania; ora la rivoluzione dei Giovani Turchi vede la marcia delle truppe ribelli su Istanbul e, poco dopo, la grave crisi diplomatica determinata dall’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina, le province ex ottomane che l’Austria-Ungheria aveva occupato fin dal 1878, ma che erano rimaste, giuridicamente, in una posizione indefinita. Oltre ad inasprire l’antagonismo fra la Serbia, alle cui spalle c’è la Russia, e l’Austria, l’annessione indebolisce ulteriormente l’Impero ottomano e indirettamente favorisce le mire italiane sulla Libia e quelle di Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia su quel che resta della Turchia europea. È in quell’anno, carico di foschi presagi per la civiltà europea – mancano solo sei anni allo scoppio della Prima guerra mondiale – che viene dato alle stampe un libro destinato a diventare un classico nella letteratura del fantastico e del terrore: La casa sull’abisso (The House in the Borderland) dello scrittore inglese William Hope Hodgson(1877-1918), che nella guerra mondiale, arruolatosi volontario nonostante la non giovane età, avrebbe poi trovato la morte, in una trincea francese. Il romanzo presenta qualche debito nei confronti di un altro classico del genere, La caduta della Casa Usher (The Fall of the House of Usher) dell’americano Edgar Allan Poe, un racconto apparso nel 1839 e considerato un piccolo capolavoro nel suo genere; ma Hodgson, che possiede un solido mestiere e una sua concezione del terrore in letteratura, pur non avendo le doti artistiche e la grandiosa visionarietà del maestro americano, gli imprime un suo andamento personale e del tutto originale. Il romanzo inizia con il ritrovamento di un manoscritto, presso le rovine di una casa ora quasi del tutto scomparsa, in una regione selvaggia posta all’estremità sud-occidentale dell’Irlanda.

Siamo schiavi di lusso della modernità, i quali per nulla al mondo rinuncerebbero alle loro catene dorate. Come diceva Heidegger, ormai solo un Dio ci può salvare…

Due giovani, che hanno scelto la solitudine per concedersi una vacanza a contatto con la natura, dedicandosi alla pesca d’acqua dolce, un giorno, seguendo il corso di un fiume che improvvisamente scompare, inghiottito nella terra, giungono in una macchia che sembra un antico giardino rinselvatichito, per affacciarsi sull’orlo di una voragine circolare dalle dimensioni impressionanti, al fondo della quale l’acqua riemerge e defluisce rimbombando e creando alti spruzzi e suggestivi arcobaleni. Molti elementi concorrono a dare a quel luogo un’atmosfera inquietante e quasi spettrale; i due giovani intuiscono, scavalcando un muricciolo di pietra, che un tempo esisteva una casa su un lastrone di roccia che si prolunga proprio sull’abisso, praticamente nel vuoto, ma della quale non resta più nulla; quindi tornano al loro accampamento, portando con sé il manoscritto. Scoprono così che si tratta del diario di un uomo piuttosto anziano, il quale, parecchi anni prima, desiderando ritirarsi a vita appartata, si era stabilito nella casa ora scomparsa, con la sola compagnia del suo fedele cane e di una sorella; un contadino veniva una volta al mese a portare loro le provviste, e questo era l’unico legame con il mondo esterno. La vita solitaria di quell’uomo aveva subito un cambiamento a partire da un giorno in cui si era reso conto che altre presenze, altri misteriosi abitanti popolavano la zona, senza dubbio risalendo dal fondo dell’abisso; abitanti spaventosi e semiumani che avevano tentato di penetrare in casa, con intenzioni decisamente ostili, e che erano stati respinti a fatica, a suon di fucilate. Un giorno, poi, leggendo un libro, l’uomo si era sentito rapire in una dimensione dell’altrove e si era reso conto che il tempo aveva subito un’accelerazione incredibile, e che gli anni, i secoli, i millenni e i milioni e i miliardi di anni si stavano succedendo a ritmo vertiginoso, lasciandolo muto ed esterrefatto testimone.

La casa sull’abisso (The House in the Borderland) dello scrittore inglese William Hope Hodgson

Ecco come i due giovani, Berreggnog e Tonnison, nell’estate del 1877, rinvengono il manoscritto presso i ruderi sul ciglio della voragine (da: W. H. Hodgson, La casa sull’abisso, traduzione di Gianni Pilo, Roma, Gruppo Editoriale Newton, 1994, pp. 11-13):

Ci avventurammo su quello sprone di roccia, e confesso che guardando da quella posizione vertiginosa  le ignote profondità spalancate sotto di noi, l’abisso da cui si alzava l’incessante rombo della cascata, e la nuvola di vapore, provai un senso di indicibile terrore.

Raggiunto il rudere, ai piedi del quale  c’era un considerevole ammasso di pietre e altri detriti, constatammo che doveva trattarsi di un frammento del muro esterno di una grossa costruzione.  Ma come si trovasse in quella posizione, veramente non riuscivo a capirlo. Dov’era il resto della casa, o castello che fosse? Passai dall’altro lato del muro e, di qui, raggiunsi il ciglio del baratro, mentre Tonnison rimaneva a frugare tra le pietre e i detriti. Osservai bene il terreno, presso il ciglio dell’abisso, per vedere se vi fossero altre tracce dell’edificio al quale il frammento di rudere doveva essere appartenuto. Ma, nonostante il più attento esame, non trovai nessun elemento che indicasse la passata esistenza di un edificio in quel punto, il che aumentò il mio stupore.

D’un tratto sentii Tonnison che mi chiamava con voce concitata, e senza indugio mi affrettai lungo  lo sperone di roccia,  verso il rudere. Dapprima ebbi timore che fosse ferito; poi pensai che doveva aver trovato qualcosa. Raggiunsi il muro sgretolato e lo scavalcai di nuovo. Dall’altra parte vidi Tonnison chino in una specie di cunicolo  tra le macerie. Stava ripulendo dalla terra  qualcosa: un libro, spiegazzato e malconcio. Quando arrivai me lo porse,  dicendomi di tenerlo mentre lui proseguiva le sue ricerche. Prima di metterlo via, lo sfogliai rapidamente e notai che era ricoperto da una scrittura nitida e antiquata, perfettamente leggibile fuorché nella parte centrale, dove le pagine erano gualcite e ammuffite come se il libro fosse rimasto aperto in quel punto, tra le macerie del cunicolo. Seppi poi da Tonnison che così, infatti, lo aveva trovato.

Messo il volume nello zaino, aiutai Tonnison nella ricerca  fra i detriti. Per più di un’ora lavorammo incessantemente, rivoltando pietre e assi scheggiate, ma trovammo soltanto qualche frammento d’un vecchio tavolo, o forse d’una scrivania. Abbandonammo dunque  le nostre ricerche e tornammo, lungo lo sperone di roccia, alla sicurezza della terra ferma.

Poi facemmo tutto il giro dell’enorme abisso, constatando che aveva la forma di un circolo quasi perfetto, la cui simmetria  era rotta unicamente dallo sperone di roccia sul quale sorgeva il rudere.

L’abisso, come osservò Tonnison, aveva tutta l’aria di un gigantesco pozzo o  voragine che scendesse diritto nelle viscere della terra. Ci soffermammo ancora a guardarci attorno; e, notando uno spiazzo aperto a nord del baratro,  ci avviammo in quella direzione. Qui, a qualche centinaio di metri dall’apertura di quell’immensa voragine si apriva un lago silenzioso e immobile, fuorché in un punto, dove l’acqua ribolliva e gorgogliava incessantemente. Ora, lontani dal fragore della cascata, potevamo parlare senza sgolarci,  e chiesi a Tonnison che cosa pensasse di quello strano luogo. Gli dissi che non mi piaceva e che avevo una gran fretta di andarmene.

Annuì brevemente, e lanciò un’occhiata furtiva alla boscaglia,  dietro di noi. Gli chiesi se avesse visto  o udito qualcosa. Non rispose;  rimase immobile, come in ascolto, e anch’io tacqui.

D’improvviso, parlò. – Ascolta! – disse bruscamente. Lo guardai, poi rivolsi gli occhi sugli alberi e i cespugli, trattenendo involontariamente il fiato. Trascorse così un minuto, in un silenzio teso; non udivo nulla, e stavo per dirlo a Tonnison, quando, proprio in quel momento, udii giungere, dal folto alla nostra sinistra, uno strano suono lamentoso… Parve fluttuare tra gli alberi, e si udì un fruscio di foglie smosse; poi, silenzio. Tonnison mi posò una mano sulla spalla.  – Andiamo – disse in fretta, e cominciò ad avviarsi, cauto, verso un punto dove la boscaglia che  ci circondava sembrava più rada. Mentre lo seguivo, mi accorsi improvvisamente che il sole era calato e che c’era, nell’aria, una sensazione pungente di freddo.

Tonnison non aggiunse altro, ma proseguì in fretta. Ora eravamo nel folto degli alberi, e io mi guardavo attorno con apprensione; ma non vedevo altro che rami, tronchi immobili e cespugli aggrovigliati.  Proseguimmo ancora, e nessun rumore ruppe il silenzio, fuorché, ogni tanto, lo scricchiolio di un ramo spezzato sotto i nostri piedi. Pure, nonostante il silenzio, avevo l’orribile sensazione che non fossimo soli; e camminavo così vicino a Tonnison che un paio di volte lo feci addirittura inciampare; ma non protestò. Un minuto, un altro, e finalmente eccoci fuori della boscaglia, nel nudo paesaggio roccioso. Soltanto allora riuscii a scuotermi di dosso la paura  che mi attanagliava nel bosco.

William Hope Hodgson (1877-1918), nella guerra mondiale, arruolatosi volontario nonostante la non giovane età: morì in una trincea francese.

William Hope Hodgson soldato.

Non è il caso di fare l’intero riassunto e si svelare la conclusione del romanzo; ci basta aver delineato la situazione iniziale. In piena belle époque, dunque, in un’Europa che coltiva la fiducia positivistica nel progresso, uno scrittore immagina che le certezze scientifiche degli uomini moderni poggino sul nulla e che anche le cose più solide e apparentemente durevoli, una vecchia casa di campagna, un grande spuntone di roccia proteso su una sorgente, lo stesso confine fra ciò che sembra possibile e ciò che non lo è, fra la ragione e il delirio, fra la sicurezza della civiltà tecnologica e le paure più ancestrali che albergano al fondo dell’animo umano sin dalla notte dei tempi, tutto questo sia messo in crisi da un momento all’altro e che vada in frantumi, sostituendo all’immagine di un mondo ordinato e razionale quella di un caos imprevedibile e feroce, capace di sovrastare e travolgere tutto. Ebbene, non è poi tanto difficile leggere fra le righe di questo classico della moderna letteratura gotica un riflesso, e forse una premonizione, della condizione complessiva della civiltà, o della anti-civiltà, di cui siamo gli abitanti. Anche noi abbiamo costruito una dimora sul ciglio dell’abisso: perché? Eravamo attratti dalla precarietà, dall’instabilità, dal pericolo? C’è una parte di noi che subisce il fascino della vertigine? La casa sull’abisso può essere letta come una metafora: e come di essa non restano che pochi ruderi sul ciglio della cascata, che cosa resterà della nostra, fra qualche decennio? Le creature mostruose, dalla faccia suina, che il vecchio abitante della casa vedeva la notte, e dalle quali era seriamente minacciato, non sono forse i mostri che noi stessi evochiamo da un altro abisso, quello di una tecnologia disumana e di una scienza sempre più fuori controllo, alimentate dal nostro folle sogno faustiano di dominio sulla natura e sulle cose, di potenza e di perenne giovinezza?

Una civiltà basata sul nulla, una casa costruita sul vuoto dei valori? La nostra colpa, se così vogliamo chiamarla, non è stata quella di aver costruito quella casa, ma di non esserci resi conto che il progetto di essa è folle, e che viverci rappresenta un continuo azzardo.

ben considerare, però, forse queste non sono le domande giuste da porci. Quando ci domandiamo se non siamo stati folli a costruire la nostra civiltà sull’abisso, l’abisso del nulla, del nichilismo ammantato di edonismo, per ciò stesso ci mettiamo sul banco dei colpevoli, o perlomeno degli accusati; ma questa è una versione parziale di quanto è accaduto. La verità è che noi in questa casa ci siamo nati, perché essa esisteva prima di noi ed è stata costruita da qualcun altro. Molto prima di noi, i nostri progenitori hanno deciso di costruire la casa della loro civiltà sul nulla, sul vuoto dei valori, sulla hybris della ragione spregiudicata e sul rifiuto consapevole del vero Dio, sostituendolo con gli dèi del falso progresso, dell’utilitarismo e del consumismo. La nostra colpa, se così vogliamo chiamarla, non è stata quella di aver costruito la casa, ma di non esserci resi conto che il progetto di essa è folle, e che viverci rappresenta un continuo azzardo. Se l’abitante di una casa non sa interpretare le lesioni sulle pareti, se non sa comprendere che cosa esse significano, per esempio che i muri portanti sono fragili o che il terreno su cui sorge l’edificio è franoso, quella è la sua colpa, e non altro: perché la casa non l’ha costruita lui, ma l’ha ereditata dai suoi genitori, o dai suoi nonni o dai suoi bisnonni. Così è stato per la casa della modernità. Noi ci siamo nati, ci siamo trovati ad abitarla: non l’abbiamo voluta, non l’abbiamo scelta; anzi, per molti aspetti l’abbiamo subita. Tuttavia abbiamo finito per adattarci ad essa, al punto tale da non voler vedere i segnali allarmanti, da non riflettere sulla precarietà delle fondamenta d’una casa costruita sul bordo estremo di un abisso: l’abisso del nichilismo. Insomma abbiamo contratto la stessa malattia dei costruttori, e quindi portiamo la nostra parte di responsabilità: se avessimo voluto, avremmo potuto accorgerci che la nostra casa poggiava sul nulla e che quindi è pericoloso seguitare a starci dentro; e ci saremmo dati da fare per costruirne un’altra, con delle solide fondamenta, su un terreno più sicuro. Resta la domanda su cosa abbia tanto attratto i costruttori, e cosa continui ad esercitare un fascino così grande anche su di noi: se non lo capiremo, non troveremo neanche la forza per andarcene e metterci così al sicuro, ma soprattutto per mettere al sicuro le prossime generazioni. La nostra opinione è che l’elemento principale che continua a sedurci sia la comodità. Siamo seduti sul niente e potremmo precipitare nell’abisso da un istante all’altro, ma è così comodo l’ambiente che ci siamo creati intorno! Tutte le abitudini della modernità, dalla dipendenza dalla tecnologia informatica al culto dell’apparenza, cioè alla dipendenza dai canoni estetici e dalla moda delle cose firmate: quanti di noi saprebbero farne a meno? Inutile negarlo: siamo schiavi di lusso i quali per nulla al mondo rinuncerebbero alle loro catene dorate. Come diceva Heidegger, ormai solo un Dio ci può salvare…

Francesco Lamendola.

Per gentile concessione:

 

 

 

 

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