”La perfezione non è di questo mondo è il toccante romanzo d’esordio di Daniela Mattalia, un libro che turba molto per i temi trattati e per la descrizione dei vari personaggi e delle varie storie che si intrecciano
“Non importa. Sa come si dice, la perfezione non è di questo mondo”. Che rilassante banalità.
“Se è per questo, neppure dell’altro”.
La perfezione non è di questo mondo è il toccante romanzo d’esordio di Daniela Mattalia, un libro che turba molto per i temi trattati e per la descrizione dei vari personaggi e delle varie storie che si intrecciano. Il protagonista assoluto del libro, che è un po’ anche il filo conduttore dell’intera storia, è Adriano, professore ottantenne che ha subito un grave lutto, la sua adorata moglie Giulietta è scomparsa da poco. L’anziano ripercorre i loro momenti felici, ricorda quello che facevano insieme, ma crede ancora di vederla tra le corsie delle Molinette, dove torna ogni giorno. Vorrebbe aiutarla, non capisce cosa voglia da lui e l’uomo in un certo momento, pensa anche di essere diventato pazzo.
Olga, invece, è un’anziana signora che è in pensione e vive con il gatto Renè, dopo aver lavorato per anni come caposala al reparto pediatrico del Regina Margherita. Nonostante il suo amore per i bambini, non ne ha mai avuto uno, ne si è mai sposata. La donna vive la sua età con leggerezza e ama la sua condizione di zitella, ma un giorno la sua vita cambia quando si rompe una gamba.
Gemma, è una ragazza alla soglia dei trent’anni, che lavora in una libreria, come tutti i giovani d’oggi deve fare i conti con la crisi e con la possibilità di perdere il suo lavoro. Il sabato lavora come volontaria in un call center per anziani chiamato il “Filo d’Argento”, dove si ritrova a parlare e ad ascoltare le storie, oppure i problemi, delle persone più avanti con l’età. Parlando con questi anziani, capisce di trascurare la madre e si sente in colpa di non stare molto con lei e soprattutto di non ascoltarla abbastanza.
Infine, troviamo Fausto, un giovane grafico che cerca di lavorare seguendo la sua passione, è fidanzato con Susanna una ragazza ricca della Torino bene e ha un cane, di nome Archibald, una vera forza della natura.
Il cane farà incontrare Gemma e Fausto al parco, dove è solito correre libero e spensierato e non seguire le indicazioni del suo padrone. Galeotto fu Archibald che ha fatto incontrare la nostra Gemma con Fausto. Fausto all’inizio del libro si dice molto innamorata della sua Susanna, una bellezza oggettiva, bionda, magra, abbronzata, alla moda e anche ricca. Ma con l’andare avanti della storia, capiamo che i due sono molto differenti.
I capitoli alternati con quattro voci narranti differenti sono la vera forza del libro, rendono la storia viva, emozionante e la lettura molto scorrevole.
Quello che si apprezza di questo libro è che la storia racconta un qualcosa di brutto come la fine della vita, ma l’autrice è riuscita a parlarne non scadendo nel melodrammatico, ma riuscendo a mantenere il giusto equilibrio tra le emozioni.
Questo romanzo, è dedicato sia alla nostalgia e al ricordo di una perdita che abbiamo avuto, sia alla terza età, a questo ultimo periodo della vita nel quale ci sentiamo più fragili e più soli.
La chiave è proprio questa, la solitudine. Questo sentimento ci può essere a tutte le età, ma in particolare gli anziani ne soffrono molto. La fretta della nostra vita, non ci permette di goderci al meglio i momenti che abbiamo e quindi spesso e volentieri i figli non hanno il tempo e il modo di accudire come merita, un genitore anziano. Il tempo non c’è, non c’è più l’attenzione necessaria e doverosa che dovremmo avere nei loro confronti, siamo così concentrati nella nostra vita che non li ascoltiamo nemmeno più. Diventano invisibili ai nostri occhi. Quello che resta agli anziani sono i ricordi, i momenti felici vissuti in famiglia, la nostalgia di un passato che non ritornerà.
La perfezione non è di questo mondo ci vuole indicare come il nostro mondo così imperfetto e a volte delicato, sia anche pieno di lati positivi e di piccoli gesti semplici che possono aiutare le persone a migliorare la propria vita.
Un racconto intenso, che ci fa scoprire fragili e vulnerabili quando subiamo una perdita che ci tocca da vicino, ma anche che ci fa capire che c’è sempre il modo per rialzarsi magari facendo del bene, rivalutando le persone che ci sono vicine e magari amando un po’ di più.
Infine vorrei fare un apprezzamento per la copertina, molto azzeccata, originale e in linea con il libro, un particolare da non sottovalutare mai.
La trama del romanzo
Torino, tra le Molinette e il Valentino. Adriano, professore ottantaduenne che ha appena perso la moglie, ha un segreto di cui si vergogna un po’: da quando la sua compagna non c’è più, continua a rivederla tra le corsie delle Molinette, anche se sa che non può essere vero. O forse sì? A soccorrerlo dal dubbio di essere sull’orlo della pazzia intervengono uno stravagante tassista, certo che sia più che normale che i morti continuino ad abitare accanto ai loro cari, e altre tre persone, che incrociano la sua strada. Gemma, libraia trentenne che nel fine settimana fa la volontaria al Filo d’Argento, un call center per anziani. Olga, un’arzilla zitella settantaseienne ricoverata con una gamba rotta. E Fausto, un giovane grafico precario fidanzato a una ragazza della Torino bene e padrone di Archibald, un bracco che ha il vizio di darsi alla macchia proprio nel parco dove fa jogging Gemma. Le vite di questi quattro personaggi si intrecciano, come in una danza, tra il parco e l’ospedale, dove si aggirano altre due inafferrabili presenze. Perché chi l’ha detto che morendo si deve per forza andare nell’aldilà, in un paradiso perfetto, algido e lontano? Non è forse più consolante – e infinitamente più divertente – immaginare di poter restare nell’aldiquà, invisibili a tutti tranne a chi ci vorrà vedere, fantasmi della porta accanto con tutte le nostre stupende imperfezioni?
Come inizia
A mio padre, che è andato “giusto di là”.
E a tutti i nostri fantasmi imperfetti.
1.
Adriano
Nei lunghi corridoi dell’ospedale ogni suono, all’improvviso, si dissolse in una bolla di silenzio perfetto. Adriano trattenne il fiato. Perché sapeva. Succedeva sempre così.
La vide davanti a sé, i capelli bianchi corti e leggeri, così pallida che le lentiggini sembravano nere. Precisa a quando era morta, un mese e due giorni e mezzo prima. Camminava assorta, come se cercasse qualcosa.
“Giulietta!”
Lo vide, gli sorrise distratta, una luce sospesa negli occhi grigi.
“Giulietta…”
Un attimo dopo era scomparsa.
Il brusio dell’ospedale riprese. Adriano captò frammenti di conversazione fra infermieri (“Ieri è venuto da me il Lombardi, ma io gli ho risposto che…”), indovinò le solite domande dei parenti in visita (“La terapia intensiva, stanza 4, letto 18… scusi, sa dov’è?”), intercettò risposte frettolose al telefonino (“No, sì che l’ho visto il dottore, ma non si è sbilanciato…”). Sospirò. Sapeva che fino alla prossima volta non l’avrebbe rivista, inutile attardarsi in quel labirinto di porte, ascensori, scale, frecce.
Dentro il taxi che lo riportava a casa, pensava che forse l’indomani sarebbe tornato, anche se difficilmente la vedeva due giorni di seguito… però chissà, non c’è mica una logica nei misteri.
Oppure sì?
Tanto l’indomani era libero, lo era sempre adesso. Alla fine, si erano stancati di insistere sia gli ex colleghi dell’Università (“Vieni a trovarci, ti aspettiamo”) sia i vicini di casa con i loro inviti a cena, di cui Adriano intuiva la buona volontà e sospettava il sollievo quando rifiutava. Da un paio d’anni, poi, non doveva neppure più portare fuori Snap, che con elegante noncuranza si era addormentato per sempre nella sua cuccia ai piedi del lettone. Quindici anni per sette, così dicono dell’età dei cani, se fosse stato un uomo ne avrebbe avuti centocinque.
Centocinque. Un ultracentenario con la commovente ottusità di un bambino. La voce del tassista interruppe i suoi pensieri:
“Scusi, ma mi pare che lei l’ho già tirata su una volta, qui all’entrata delle Molinette… mi sbaglio? Io ho una buona memoria per i volti”.
Adriano lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore, intravide uno sguardo inquisitivo, decise che i tassisti chiacchieroni sono il prezzo da pagare per chi non usa i mezzi pubblici, ma insomma c’è di peggio. E poi, perché essere maleducati?, lo è già la vita: se non è maleducazione portare via la moglie così, all’improvviso, senza chiedere “scusi, permette, è arrivato il momento… vi lascio un attimo, se volete salutarvi, cinque minuti. E poi si va”.
Così, educatamente, rispose.
“Sì, vado a trovare mia moglie.”
“Ah, c’avrei giurato. E cos’ha sua moglie? Non per essere indiscreto, eh.”
Adriano esitò, poi decise di dirlo. Una risposta insensata, ma che forse l’avrebbe zittito.
“Niente, adesso. Adesso sta benissimo. È morta.”
“E lei la va a trovare? Mi sta dicendo che la tengono lì, morta, in ospedale?” Più che incredulo, il tassista sembrava incuriosito.
“Ma no, che idea. L’abbiamo seppellita. Solo che lei, in qualche modo, è rimasta lì.”
“Ah, ecco. Se ne sentono di cose strane, ma che tengono la gente morta in ospedale… vabbè che i cimiteri sono pieni ormai, non si sa più dove scavare. Io penso che mi faccio cremare, quando verrà il mio turno. È anche più pulito, neh.”
Frenò di colpo e suonò il clacson imprecando contro un ciclista imprudente (“Ma tu guarda questo idiota, che se poi lo investo è pure colpa mia!”). Ma sembrava non aver più voglia di parlare.
Adriano si sbottonò il cappotto di cammello e si rilassò, appoggiandosi allo schienale.
Fuori dal finestrino Torino scorreva veloce, l’aria di primavera era fredda ma luminosa, la natura ancora diffidente, eppure si vedeva che voleva venir fuori, darsi una scrollata. Come Snap al mattino presto, quando davanti alla porta di casa stirava le zampe, scodinzolava e poi via, tutto il corpo pronto a seguire il naso. La vita semplice.
Il silenzio durò poco.
“Anche il mio amico Ernesto è lì, ma quando vado a trovarlo mi parla sempre delle stesse cose, mi sono fatto l’idea che i morti siano dei bei noiosi. Cioè, non dico di sua moglie, sia chiaro.”
Adriano ebbe un sospetto. Lo stava prendendo per il culo?“
Mi sta prendendo in giro?” Culo non rientrava nel suo lessico.
“Come? No, ma le pare. Ernesto è morto che sono tre anni, era già anziano, poi c’aveva un tumore, fumava da una vita, e pretendeva di fumare pure in ospedale, si figuri. Comunque, le dicevo, è ancora lì, stanza 6, reparto Oncologia toracica.”
“Ma a lei, scusi, non sembra assurdo vederlo, il suo amico morto?” Al diavolo, se erano pazzi tutti e due tanto valeva parlarne e bon.
Il tassista si voltò, lo guardò dritto negli occhi. Un viso un po’ grossolano, “grossier” avrebbe detto Giulietta, le piaceva ogni tanto assaporare qualche parola francese. Ma non volgare.
“Lei crede che i fantasmi stanno nei castelli, o nelle case stregate, come si vede al cinema? Quelle sono stronzate, scusi la parola. I fantasmi dove pensa che sono, dov’è che la gente muore ogni giorno?”
“In ospedale,” concluse Adriano.
“E certo. Creda a me, gli ospedali sono pieni di fantasmi. Solo che ognuno vede il suo. Io vedo Ernesto, lei vede sua moglie. Come si chiamava?”
“Giulietta.”
“Bel nome. Ecco, siamo arrivati. Sono dodici euro. La ricevuta la vuole?”
Adriano di anni ne aveva ottantadue, ed era ancora dritto e magro come quando ne aveva cinquanta. Anzi, l’età gli aveva rosicchiato un po’ di rotondità sui fianchi, che ora apparivano quasi prosciugati, come quelli di un anziano adolescente.
La mattina, fino a un mese e due giorni e mezzo prima, si alzava dal letto, si infilava un vecchio cardigan di cachemire dai gomiti lisi e andava in cucina a preparare il caffè a Giulietta. Quando ancora c’era Snap, dopo un po’ sentiva le sue unghie ticchettare in corridoio, e poi eccolo lì con il muso all’insù, ostinatamente speranzoso nell’elargizione di un biscotto. Giustamente speranzoso, perché il biscotto gli arrivava sempre.
La fede. Bisogna averla. I cani ce l’hanno. Ci sarà mai qualcuno, Qualcuno, si chiedeva Adriano, che anche a noi offrirà un rinfresco, una volta là?
“E che te ne fai, a quel punto?” gli chiedeva Giulietta, allungando le braccia verso il vassoio con il caffè e lo zucchero.
“Accetto. Oppure no, ma ringrazio. Comunque apprezzerei il gesto.”
“Un paradiso di biscotti, vuoi? A me così pare la pubblicità del Mulino Bianco.” Giulietta ridacchiava, fingeva di non capire. Ma capiva benissimo. Ecco perché lui era ancora innamorato di quella moglie magra, piccola, sofisticata, che apparentemente non lo prendeva mai sul serio. Lei capiva. Un Dio gentile, che ti chiede se hai voglia di qualcosa, se stai bene, se sei comodo, e che poi ti lascia in pace, ecco, così sarebbe dovuto essere il paradiso. Il resto – luce, serenità, perfezione, sensazione di sentirsi una parte del tutto… ah, retorica.
Meglio accomodarsi su una nuvola ergonomica, un buon libro, Giulietta vicino a lui, Snap acciambellato ai piedi. Il benessere quotidiano prolungato nell’infinito, proibito interromperlo, rubarlo, portarlo via.
“Ho capito, va’. L’eternità in una pantofola. Un vero visionario ho sposato, un uomo dai sogni smisurati. Tra un po’ mi alzo, sai.”
Quella mattina invece non si era alzata. Aveva un forte mal di testa, non riusciva neppure ad aprire gli occhi. “Sei andata a letto con gli orecchini,” le aveva detto lui, “per quello hai mal di testa. Ce li hai sempre su, non va bene.”
Che spiegazione idiota. Lo sapeva anche lui che non poteva essere quello.
E infatti non era quello.
Alle Molinette di Torino le avevano diagnosticato un aneurisma. Qualche giorno in coma, poi via.
Addio.
Lui in cucina ci andava sempre, e preparava il caffè. Che poi non beveva.
2.
Gemma
“Buongiorno signora Olga, che piacere risentirla! E René come sta?”
Gemma lavorava da un anno in un call center per anziani, Filo d’Argento, e sapeva per esperienza che la maggior parte di loro chiamava solo apparentemente per avere un consiglio pratico (come ottenere una detrazione fiscale, a chi rivolgersi per richiedere un certificato…). Il vero motivo era fare quattro chiacchiere, parlare di piccole cose, banalità, inutili dettagli, sapendo che dall’altra parte c’era qualcuno che li ascoltava. Non come i figli, che magari sì, c’erano, e non erano neanche cattivi figlioli, ma il più delle volte il loro contributo alla conversazione non andava oltre un indolente “mmm… certo…” e si capiva che invece non avevano sentito una parola. O, nei casi migliori, “sì, sì, me l’hai già detto”.
Perché anche lei, Gemma, faceva così con sua madre. Siccome era la mamma e non era nemmeno poi tanto anziana – sessantatré anni, suvvia – non ci pensava troppo. Ma, sotto sotto, qualche senso di colpa ce l’aveva. E forse era per quello che ogni sabato andava come volontaria in viale Monti, alla sede dell’Auser di Torino, l’organizzazione che si occupa di terza età, e trascorreva due ore al telefono. Rispondeva a vecchi cocciuti e autoritari che non avevano più nessuno cui dare ordini; e a vecchie petulanti, noiose, spesso capricciose. Lei parlava a tutti, con pazienza e, aveva scoperto dopo un po’, anche con affetto. Perché per quegli anziani, abitanti invisibili e imperfetti in una città che guardava sempre da un’altra parte, provava una tenerezza infinita.
Quel giorno, come tanti altri giorni, ascoltò la voce ariosa (Olga aveva settantacinque anni, ma che voce… una meraviglia!) che, dall’altra parte del filo, le raccontava del suo gatto René: sparito per quarantott’ore, quando lei aveva lasciato la porta del balcone socchiusa di notte, e poi tornato come niente fosse. Da allora il micio passava le giornate a farle le fusa intorno alle caviglie incerte e sottili.
Alchimie delicate ma infrangibili, quelle fra animali e padroni.
Olga era una delle anziane preferite di Gemma. Né figli né nipoti, e sarebbe stata invece una nonna formidabile, o così la vedeva lei. Le ricordava il personaggio di un libro per bambini, La nonna sul melo: una vecchina immaginaria che tutti i pomeriggi aspettava il nipotino (lui sì, reale) appollaiata su un albero; e su quell’albero, in modi misteriosi, i due vivevano inebrianti avventure. Anche Olga, così discreta e poco invadente, nascondeva secondo Gemma una vocazione all’ignoto mai emersa. E ora che René era riapparso, la sua breve fuga le aveva lasciato un’inappagata curiosità.
“Che chissà dove se n’è andato, questo vagabondo.”
Altri balconi, giardini mai calpestati, prede notturne di mondi inesplorati…
“Olga, ci ha mai pensato? Avere un animale, in fondo, è come aver adottato un extraterrestre. Magari René è andato per un po’ sul suo pianeta e poi è tornato.”
Gemma, sentendola esitare, si disse che forse pretendeva troppo dall’immaginazione di Olga. Ma Olga stava solo pensando al titolo di quel film…
“Ma sì, come si chiamava? Dove c’era quella bella bambina bionda e il marziano nanerottolo…”
“E.T. Ma allora l’ha visto, se lo ricorda?”
“Glielo avevo mai detto, Gemma, che ho un debole per la fantascienza?”
A Gemma sarebbe piaciuto avere un cane, ma viveva da sola e lavorava in una libreria dalla mattina alla sera. Chi avrebbe badato a lui? D’accordo, poteva portarselo dietro mentre, la mattina presto, faceva jogging nei viali alberati del Valentino. O nei weekend, dal momento che il suo contratto le lasciava liberi il sabato e la domenica. Ma poi? Durante la settimana? Un cane non dovrebbe passare il tempo su un divano aspettando il ritorno del padrone, pensava.
Quella mattina, al parco, si sentiva fiacca. Diavolo, aveva solo ventinove anni, non poteva già avere il fiatone. Colpa della primavera, di quest’aria incerta, si disse, e i pantaloni della tuta erano troppo pesanti. Si sfilò la fascia di cotone che le tratteneva i lunghi capelli castani e le faceva prudere la testa, e la appallottolò in una tasca del giubbotto.
“Archibald!”
Quell’urlo le era familiare, ora che ci faceva caso. Lo aveva sentito il giorno prima e forse quello prima ancora, pur immersa nella musica dell’iPod.
Un bracco italiano con le grandi orecchie svolazzanti correva verso di lei, sparato come la palla di un cannone.
“Archibald, vieni qua! Subito!”
Archibald, per nulla inibito da quell’ordine imperioso, le saltò addosso leccandole la faccia e facendola quasi cadere, poi si immobilizzò di colpo alla vista di un merlo e ripartì sulle lunghe zampe, una corsa sbilenca da cucciolo. Un cucciolo gigantesco, pensò Gemma, visto che sulle due zampe era alto quasi quanto lei.
“Scusa, il mio cane è fuori controllo,” annaspò il ragazzo che lo seguiva. “Archibald, e che cavolo!”
Archibald, poco lontano, stava annusando furiosamente il tronco di un albero. Naso a terra, seguendo qualche pista evidente solo al suo olfatto, si avvicinò abbastanza per farsi afferrare dal padrone.
Che aveva i capelli rossi, gli occhi nocciola, gli zigomi alti e il sorriso che assomigliava a una smorfia di dolore.
“Mi dispiace, tutte le volte che lo lascio libero poi mi ci vuole un quarto d’ora per recuperarlo.”
Gemma non trovò niente da dire. Niente di brillante. Lo guardò e vide che gli occhi erano giallo scuro (ma esistono, gli occhi giallo scuro?), non nocciola. No, non erano nemmeno castani. E il sorriso era assurdo, come faceva uno a sorridere che sembrava avesse una fitta di dolore, come si faceva a sorridere così?
“Tutto bene?” indagò lui.
“Ah, sì. No. Non mi ha fatto niente. Il cane, dico.” Oddio, pensò lei, sembro un’idiota.
“Archibald, dai, andiamo. Tirati su.”
Archibald nel frattempo si era sdraiato accanto al padrone, il muso tra le zampe, la fronte aggrottata, gli occhi – quelli sì, castani – fissi tra l’erba: un impercettibile movimento a due centimetri dal naso calamitava tutta la sua attenzione.
Il padrone gli agganciò il guinzaglio e lo scrollò, lui emise uno sbuffo con le guance carnose, mesmerizzato dalla vita segreta di qualche formica.
“Archibald, per favore!”
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli e guardò Gemma, rivolgendole un sorriso finto-disperato.
Il cuore di Gemma accelerò. Archibald decise finalmente di alzarsi.
“Oh, ti sei degnato.” E poi, rivolto a lei: “Ciao, scusami ancora”.
Questa volta non hai sorriso, pensò Gemma.
Cane e padrone si allontanarono. Li vide camminare in sincrono per pochi passi. Poi Archibald scorse un suo simile a cinquanta metri di distanza e partì al galoppo.
Dall’altra parte del guinzaglio, un urlo scomposto: “Archibald!”.
3.
Fausto
Che figura di merda, pensava Fausto, ancora un po’ quel deficiente butta giù la tipa che faceva jogging, bellina pure… e io come un cretino dietro a ’sto pazzo, neanche capace di farmi ubbidire. Guardò Archibald, che lo fissava spazzando il pavimento con la coda. Che poi non sei nemmeno mio, tecnicamente, visto che ti ha comprato la mia ragazza, fissata con i bracchi italiani. Pure in allevamento è andata a prenderti, bel risultato, proprio intelligente sei venuto su.
Archibald, va precisato a onor del vero, intelligente lo era. Ma era anche esuberante, entusiasta di essere al mondo, posseduto da strepitosi istinti di caccia che lo scagliavano all’inseguimento di tracce, odori, movimenti improvvisi. Che lo stordivano fino alla beatitudine.
Come poteva un essere umano, limitato nell’olfatto, imbrigliato nelle fantasie, come poteva capire il caotico e meraviglioso mondo di un bracco di undici mesi?
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L’autrice
Daniela Mattalia, giornalista, è nata a Torino. Ha provato a vivere a Brescia, Genova e Verona prima di decidere che Milano, dove si è trasferita dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere, è il suo habitat ideale. Lavora come caporedattore a “Panorama”, dove si occupa di tutto un po’ ma in particolare di scienza, dalla medicina all’astrofisica. Vive con il marito Luca e la setterina Bughi. Feltrinelli ha pubblicato La perfezione non è di questo mondo (2017), il suo romanzo d’esordio.
- La perfezione non è di questo mondo
- Daniela Mattalia
- Editore: Feltrinelli
- Collana: Universale economica
- Anno edizione: 2019
- Formato: Tascabile
- In commercio dal: 24 gennaio 2019
- Pagine: 168 p., Brossura
- EAN: 9788807891717. Acquista € 8,08