”Uno strano morbo iniziò a colpire la carta stampata. Tutta la carta stampata. Dapprincipio le più esposte furono le edicole: fotoromanzi, giornali scandalistici, guide all’ascolto televisive tutto si sbriciolava con maggiore virulenza di un tritadocumenti.
Scoppiò improvvisamente. Accadde in estate in una libreria di un importante centro turistico-balneare. Si trattava di un giornale mondano, ricco di interessanti particolari sull’arte di piacere agli uomini. La ragazza che l’aveva da poco acquistato ne stava scorrendo l’indice pregustando la facile lettura. D’un colpo, come rose da una fiammata, le pagine si accartocciarono su se stesse, rimpicciolirono sfaldandosi: cinque secondi, forse due e dalle dita della lettrice scese una terribile ed angosciosa polvere mista a striscioline di carta. Un tritadocumenti non avrebbe saputo fare meglio.
Il giorno dopo dall’epicentro turistico il fenomeno dilagò pandemicamente tanto che a voler riportare i terribili progressi su di una cartina si sarebbe disegnato un circolo di compasso via via più ampio e minaccioso. Le edicole furono colpite con virulenza spaventosa: fotoromanzi, giornali scandalistici, guide all’ascolto televisivo, giornali per soli adulti e per bimbi soli scomparivano in due o tre secondi. Le dispense per il bricolage casalingo o quelle dedicate alle enciclopedie mediche resistevano un poco di più: anche dieci secondi di interminabile e penosa agonia.
I settimanali d’opinione si disintegravano a partire dalle pagine centrali spesso dedicate all’economia ma ci si avvide ben presto che i primi spaventosi sintomi si manifestavano sulle pagine pubblicitarie: qui la distruzione era istantanea.
Quando le edicole del paese furono ridotte ad alberi invernali circondate tutt’attorno da polvere e da striscioline di carta e quando gli edicolanti, simili ad agricoltori cui il raccolto è stato distrutto dalla tempesta, cominciarono a svendere i loro inutili esercizi, il morbo colpì le librerie delle città grandi e piccole. Come un’onda anomala di dimensioni gigantesche la peste si rovesciò sugli scaffali lucenti di bestsellers nazionali ed esteri. Si arrivò alla morte diretta: durante una trasmissione cultural-televisiva un notissimo presentatore vide disintegrarsi l’opera che stava consigliando ai suoi telespettatori. L’autore che si trovava nello studio impallidì. Giunsero telefonate che annunziavano la simultanea distruzione di ogni copia di quell’interessante romanzo incentrato sul disagio dell’intellettuale nel mondo contemporaneo. L’autore tornato nella sua casa trovò la biblioteca personale distrutta, ricevette una telefonata che gli annunciava la distruzione della seconda edizione direttamente nelle tipografie. Tentò di scrivere qualcosa tento per esorcizzare gli eventi, per razionalizzarli: la carta inserita nella macchina per scrivere si dissolse a metà pagina. Lo scrittore tentò allora di videoscrivere con il computer da poco acquistato: la perfida peste era giunta anche nella macchina, dopo la prima riga il video si oscurò definitivamente. A nulla valse l’intervento di un tecnico. Lo scrittore capì; aperta la finestra della sua terrazza, fattosi largo tra le piante coltivate con cura, si lasciò cadere nel vuoto. La morte fu istantanea.
La “peste tipografica” (così fu battezzato il fenomeno) dilagava ormai ovunque. I romanzi storici come gli istant-books andavano perduti irrimediabilente. Vi fu il caso pietoso di una libreria d’avanguardia che in dieci minuti perse ventimila volumi, si trovò nel magazzino l’unico scampato a tanta strage: La guerra del Peloponnesodi Tuccidide (si trattava di un rimasuglio della precedente gestione). Sulle prime reazioni della gente fu improntata alla massima calma, si disse che il difetto nazionale di leggere poco stava evitando un trauma a buona parte del paese. In effetti per moltissimi l’avvenimento aveva scarsa rilevanza. Ma i subdoli effetti dell’epidemia non tardarono a colpire più a fondo. I primi casi si erano manifestati un martedì; il lunedì successivo quando gli acquirenti dei giornali sportivi del lunedì si recarono alle edicole si avvidero della distruzione di ogni gazzetta sportiva. Tumulti e risse si accesero intorno alle sempre più spoglie edicole. La forza pubblica dovette intervenire in moltissime occasioni, la folla inferocita, privata delle necessarie informazioni calcistiche, cercava il responsabile di tanta nefandezza. A stento gli ormai moralmente distrutti edicolanti vennero sottratti al linciaggio.
Il paese era ingovernabile. Proposte di legge, le più svariate, si polverizzavano non appena stampate. Lo stesso archivio di Stato perse in quattro giorni il novantanove per cento dei suoi volumi. Alcune austere biblioteche sembravano immuni. La televisione accorreva in questi luoghi miracolosi dove oscuri direttori sino ad allora ignorati assurgevano alla gloria delle cronache. Un direttore orgogliosissimo dichiarò che nella sua biblioteca le perdite assommavano soltanto al cinquanta per cento. Un sospetto si fece allora strada nelle menti dei ricercatori impegnati a trovare un antidoto: la “peste tipografica” agiva con spietata selettività. Ci si accorse che la maggior parte dei manoscritti e degli incunaboli non soffriva alcun danno neppure in terribili prove di laboratorio. Pur essendo stato posto accanto a un’opera di un illustre scrittore contemporaneo, un prezioso incunabolo petrarchesco sopravvisse. Il volume moderno si disintegrò. L’esperimento diffuso in diretta dalle reti televisive nazionali provocò anche una allucinazione collettiva. A molti, compresi gli sperimentatori, parve di scorgere un curioso comportamento da parte dell’incunabolo. Secondo la maggioranza dei telespettatori l’antica opera urlò appena si trovò collocata al fianco del moderno romanzo. Alcuni si spinsero più avanti asserendo di aver visto distintamente l’incunabolo cercare di fuggire. Accurate ricerche in proposito sono tuttora in corso. Si notò anche che alcune opere filosofiche, sia antiche sia moderne, scomparivano, altre sopravvivevano inspiegabilmente. Sensazionale fu poi la scoperta che in alcuni testi di svariate religioni andavano perdute soltanto le pagine frutto di interpolazioni e travisamenti successivi. Si cominciò a sperare quando, dietro consiglio degli studiosi, un quotidiano a tiratura nazionale uscì con un titolo a 9 colonne: “DUE PIÙ DUE FA QUATTRO”. In terza pagina furono stampate le dichiarazioni di un uomo politico che respingeva pesanti accuse di malversazione. Con grande sorpresa la prima pagina sopravvisse incorrotta, la terza si autodistrusse direttamente sulle rotative.
Era ormai chiaro: la “peste tipografica” colpiva tutto ciò che vi era di inutile e di falso. Fu un grandissimo colpo per molti. Scrittori, giornalisti, politici e politologi, filosofi d’assalto, romanzieri ben noti per le loro opere e molti altri personaggi più o meno legati al cosiddetto mondo della comunicazione cambiarono professione. I premi letterari morirono naturalmente: non si poteva svolgere un concorso decente se tutti i libri in gara si distruggevano automaticamente. Alle volte un solo volume sopravvisse ma così spietatamente mutilato delle pagine peggiori da risultare illeggibile. In questi casi si attribuiva il premio all’opera scampata. In terra di ciechi gli orbi divennero re.
I critici scomparirono: non vi era più bisogno di loro. Quando ancora si cercava una cura in base alle esperienze fatte si manifestò una sottospecie della “peste tipografica”, la “peste cinematografica”, qui non si trovarono rimedi: scomparvero tutte le pellicole esistenti, i suicidi non si contarono. Anche la televisione entrò in crisi: le notizie che sopravvivevano erano pochissime, gli spettacoli subirono selezioni tanto impietose da costringere a ridurre l’orario di trasmissione a due ore giornaliere. Molti circuiti privati, il novanta per cento, interruppero definitivamente le trasmissioni. Chi ancora sopravviveva pagava i telespettatori per seguire quel poco che si poteva mandare in onda. La pubblicità in ogni sua forma ricevette un colpo mortale.
A tutto si fa l’abitudine. Ci abituammo anche noi. Ora ogni anno vengono pubblicate circa venti opere, anni eccezionali registrano l’uscita di ventidue volumi. Nelle Università insegnano soltanto docenti a cui la “peste tipografica” ha risparmiato dotti volumi. Un film ogni anno riempie lesale di spettatori entusiasti. I quotidiani e i notiziari sono scarni ed essenziali. Le dichiarazioni politiche rarissime. La professione più ambita è quella di addetto nelle biblioteche: si fatica pochissimo, si guadagna bene.
Non esiste più censura, questo morbo spietato con criteri indiscutibili distrugge tutto senza appello.
Io stesso ho dovuto riscrivere più volte ciò che avete letto: ogni imprecisione o falsità veniva fulminata nel momento stesso in cui la scrivevo. La verità non fa male: è solo molto, molto stringata.
Francesca Rita Rombolà
25 Luglio 2019 a 16:03
Bellissimo racconto breve. Magari fosse profetico! Allora sì che si ritornerebbe alla vera letteratura, alla vera arte dello scrive e dunque alla vera cultura.
Complimenti ad Antonio Canepa.