Napoli si salva solo nel mito mentre è dannata nella realtà

LA SALVEZZA DI NAPOLI È NELLA FAVOLA

di Marcello Veneziani


Napoli si salva solo nel mito mentre è dannata nella realtà. Non è un paradiso abitato da diavoli, come diceva Benedetto Croce, citando Goethe. Perché ha l’inferno sotto casa. Persino Galileo Galilei localizzava la porta dell’inferno nei Campi Flegrei, a due passi dalla città; il lago d’Averno dantesco si trova lì. Non a caso la guida di Dante all’inferno, il suo tassista d’eccezione, è un napoletano d’adozione, Virgilio, che evidentemente conosceva i posti infernali. Il Vesuvio, il fuoco, lo zolfo, un paesaggio infernale sotto la buccia amena di un eden baciato dal sole, dal cielo, dalla natura. Napoli è un paradiso poggiato sull’inferno, un roof garden sull’abisso; i suoi abitanti sono poveri diavoli, anche quando sono furbi e ingannatori. Perché alla fine vivono peggio degli altri, anche se magari sognano di più, grazie al mito e alla loro indole festosa e fantasiosa.

Pensavo a Napoli come mito sotto l’effetto ammaliante del film Parthenope di Paolo Sorrentino. Amo i suoi film, i dialoghi, la fotografia, le sequenze, le musiche, l’atmosfera, quando entra nella sfera del favoloso, del sogno, della fantasia coinquilina della realtà. E Parthenope ne riflette lo splendore, con pochi punti down. Il film naviga come una fiaba smaliziata nella mitologia napoletana, anche più recente: da Achille Lauro, o’Comandante, a Sophia Loren, da Maradona alla stessa Partenope, nata come Afrodite dall’onda del mare. Di vertiginosa, incantevole bellezza, pericolosa e in fondo impenetrabile come una Sirena. Da perdere la testa. Anche nella realtà l’attrice ha le generalità di un mito, si chiama Della Porta Celeste.

Don Achille è il pascià di una Napoli ricca e potente ma in fondo generosa, empatica col suo popolo e la sua città. Maradona è il mito sotto traccia di Sorrentino come ne È stata la Mano di Dio. A Sophia Loren, rappresentata nella sua volgarità venale e nel suo carisma di diva, è affidato invece il discorso più terribile su Napoli e sui napoletani. Il mito vivente si rivolta contro la realtà della sua città e del suo popolo. Altre figure incontra Partenope, lo scrittore americano, il cardinal blasfemo, il riccone, il professore misantropologo; amori inesplicabili, casti e profanatori. L’amore di Sorrentino per la sua città non lo acceca, anzi gli dona una spietata vista: se nella realtà Napoli è una brutta chiavica nella visione affascina il suo splendore e la sua saudade che la rendono inimitabile, cioè mitica.

Forse non è solo Napoli a salvarsi nel mito, ma il sud, e perfino l’Italia intera, una volta perduta la storia, la realtà, la natalità. Anche se vedendo ora Roma né il mito né la storia né la cristianità riescono più a sollevarla da quella decadenza senza gloria; obesa di turisti e lurida, malata e rattoppata, insozzata e paralizzata. Il Giubileo tra due mesi sembra esserne l’estrema unzione.

Roma e Napoli sono come il latino e greco, due lingue morte, seppur gloriose. Parthenope, giusto il nome, è la nostra grecità rispetto alla romanitas; ma una grecità turchina, turchese, infiltrata da un aroma turco, un nonsoché di orientale, bizantino e musulmano, ma temperato dall’irridente scetticismo dell’indole napoletana. Il turco napoletano non è solo un film di Totò ma una mezza vocazione napoletana. Non è un caso che a sollevare il velo di Napoli sia stato un regista turco come Ferzan Ozpetek, con Napoli velata. Anche Mario Martone, con Nostalgia, ha raccontato una Napoli buia, intima e torbida sotto la buccia del mito e il suo canto ammaliatore.

Se il cinema ha reso attraente la Puglia attraverso lo splendore bianco della sua luce, dei suoi paesi, tra campagna, cucina e mare, il cinema restituisce la regalità a Napoli attraverso il mito, che è insieme nostalgia, sapienza di velare e svelare, fascinazione e mistero. Anche torbido, e violento.

E poi tutto quell’universo brulicante sotto la sua superficie che proviene dal mondo magico dei munacielli e degli scazzamurielli, delle santarelle e della pezzentelle, dei femminielli e dei malommi; e costeggiando il mondo dei morti, delle cape gloriose e delle capuzzelle, le anime d’o’ purgatorio; e le megere, gli iettatori, la mitologia urbana, tra figure che spiccano per la loro eccentrica singolarità ma recitano sempre una parte in commedia; sono tipi, se non maschere. Un teatro dal vivo, e anche dal morto, in certi casi. Napoli ha persino un suo dio apposito, san Gennaro, con poteri straordinari; quel santo taumaturgo e sanguinante che per Alexandre Dumas “è il vero dio di Napoli”. Insomma Napoli oltre che un inferno ad hoc ha anche un dio tutto suo.

Perché “la realtà è deludente” e per sopportarla, e farsela piacere, occorre darsi alla favola, al miracolo. E quando non è possibile, meglio arrendersi alla natura, al sole, al mare, e ai suoi figli. Come Partenope o come il figlio d’o’ professore, un immenso, bianco chiattone mitologico fatto di acqua e sale; un enorme frutto di mare, una balena ridente, spiaggiata in salotto a vedere la tv, un monstrum che suscita meraviglia e paterno, fraterno affetto.

Gli dei napoletani, a differenza di quelli siciliani, di cui parlava Tomasi di Lampedusa, non si prendono mai sul serio, sanno ridere, capiscono di non abitare nell’Olimpo ma in condominio, non sono pugnaci come i pupi siciliani ma salaci come Pulcinella. Non prendono sul serio la vita, non si battono per l’onore, nonostante la guapparia; ma cercano il modo migliore per aggirarla, coglionarla, e sopravvivere allegramente ai morsi della fame e alle pernacchie della farsa.

Il mito preserva la giovinezza, a cui questo film è dedicato; la giovinezza vissuta come sospensione favolosa del tempo e trasfigurazione magica della realtà. Poi la vecchiaia è il ritorno al reale.

Lasciatevi catturare dal fascino di lei, Parthenope. Io ne sono stato stregato e ho vissuto con lei una storia d’amore unilaterale per due ore. Ho amato il suo sguardo, i suoi sorrisi, il suo corpo, le sue movenze, le sue pronte risposte, la sua sfuggente, venerea lievità. Avrei detto anch’io a lei, come le dice o’Comandante: “se avessi quarant’anni di meno mi sposeresti?” Ma già conosco l’astuta risposta: “E se li avessi io quarant’anni in più mi sposeresti?”. Eccoli, i raggiri del tempo, gli amori beffardi perché non combacianti, le non coincidenze fatali sui binari divergenti del caso.
L’unico riscatto è nel mito. E il fascino vero del cinema, al di là delle menate ideologiche e degli stereotipi ossessivi di oggi, è nella sua capacità di suscitarlo. Cantami o diva…

La Verità – 14 giugno 2024
La Verità – 27 ottobre 2024

 

 

 

 

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