Personaggi indimenticabili e sconvolgenti verità in questo nuovo incantevole romanzo dall’autrice bestseller Lucinda Riley.

“La stanza delle farfalle” (Giunti 2019, titolo originale “The Butterfly Room”, traduzione di Leonardo Taiuti) è il nuovo romanzo della scrittrice irlandese Lucinda Riley, che vive tra il Norfolk e il Sud della Francia con il marito e i quattro figli. I suoi libri sono dei bestseller internazionali che hanno venduto 7 milioni di copie nel mondo e sono tradotti in 30 Paesi.

È assolutamente straordinaria, tesoro mio! È raro trovarne da queste parti, e di certo ha un nobile lignaggio”.

La trama del romanzo.

 

   Alla soglia dei 70 anni, Posy vive ancora a Admiral House, la casa dove ha trascorso la sua infanzia a caccia di splendide farfalle e dove ha cresciuto i suoi figli, Sam e Nick. Ma di anno in anno la splendida villa di campagna è sempre più fatiscente e ha bisogno di una consistente ristrutturazione che Posy, con il suo impiego part-time nella galleria d’arte, non può proprio permettersi. Ma anche i luoghi sospesi nel tempo, incantevoli come Admiral House custodiscono un segreto, che una volta Posy si fosse decisa a vendere la casa, sarebbe dovuto venire alla luce.

Giugno 1943. L’eco della guerra era lontana da Admiral House, dove Lawrence “il re del popolo magico” e sua figlia Posy, si divertivano a catturare le farfalle che volavano nel giardino della tenuta testimone di momenti magici vissuti dalla famiglia. La guerra aveva reso Lawrence zoppo, quindi l’uomo camminava sempre lentamente. Ora però si sentiva molto meglio rispetto a quando era tornato a casa dall’ospedale. Lawrence era stato dimesso su una sedia a rotelle, come fosse un anziano, e anche i suoi occhi sembravano ingrigiti, ma l’aria di Admiral House con le cure della famiglia, coadiuvata dalla fedele domestica Daisy, avevano fatto miracoli ed era riuscito a guarire in fretta.

Posy adorava suo padre, la cui presenza per lei significava “casa”. C’era tra padre e figlia una comprensione infinita, era stato Lawrence a far comprendere a Posy non solo il miracolo della natura, ma anche la bellezza e la gioia di vivere, soprattutto adesso, nonostante la guerra.

Il doppio piano temporale è la cifra stilistica di Lucinda Riley, abilissima nel creare trame capaci di catturare l’attenzione del lettore. Ѐ il caso anche del presente testo, dove una donna che per tutta la sua esistenza si è spesa per il bene della propria famiglia dovrà prendere una difficile decisione. Ѐ facile affezionarsi al personaggio di Posy, dapprima bambina innamorata delle farfalle e poi adulta consapevole e generosa.

 

Come inizia. 

Admiral House, Southwold, Suffolk

Giugno 1943

«Ricordati, tesoro mio, tu sei una fata che con ali di stoffa leggera vola in silenzio sull’erba, pronta a catturare la preda nella tua rete di seta. Guarda!» mi sussurrò all’orecchio. «Eccola lì, sul bordo della foglia. Forza, adesso, vola!»

   Per un secondo chiusi gli occhi sollevandomi in punta di piedi, proprio come mi aveva insegnato, e immaginai di staccarmi da terra. Sentii papà che mi spingeva delicatamente in avanti con la mano. Aprii gli occhi, puntai lo sguardo su quel paio di ali blu come il giacinto e, precipitandomi giù per i due gradini che mi separavano dalle fragili fronde della buddleia, lanciai la rete sulla licena azzurra.

   Lo spostamento d’aria mise in allerta la farfalla, che aprì le ali preparandosi a spiccare il volo. Ma era troppo tardi perché io, Posy, la principessa delle fate, l’avevo già catturata. Non le avrei fatto del male, ovviamente, l’avrei solo portata a Lawrence, il re del popolo magico – cioè mio padre – perché la studiasse, prima di liberarla dandole anche un’abbondante scorta del miglior nettare esistente.

   «Che bambina intelligente è la mia Posy!» disse papà, mentre mi facevo largo verso di lui attraverso il fogliame e gli consegnavo con orgoglio la rete. Era chino, piegato sulle ginocchia, pertanto i nostri occhi erano allo stesso livello, pieni di soddisfazione e di gioia. Tutti dicevano che li avevamo quasi identici.

   Inclinò la testa di lato per osservare meglio la farfalla, che se ne stava immobile con le zampe impigliate nella rete bianca. Papà aveva i capelli color mogano, che brillavano sotto il sole per via dell’olio con cui li teneva fermi, come il tavolone da pranzo quando Daisy finiva di lucidarlo. Emanava anche un odore incredibile, quasi unico e questo mi confortava, perché mio padre significava “casa” e lo amavo più di qualsiasi altra cosa esistente nei miei due mondi, quello umano e quello delle fate. Volevo bene anche a maman,certo, ma nonostante fosse spesso a casa, mi sembrava di non conoscerla bene come papà. Passava un sacco di tempo in camera sua, afflitta da un malessere che chiamava emicrania, e quando usciva era sempre troppo occupata per trascorrere del tempo con me.

   «È assolutamente straordinaria, tesoro mio!» disse papà, guardandomi negli occhi. «È raro trovarne da queste parti, e di certo ha un nobile lignaggio.»

   «Forse è una principessa farfalla?» chiesi.

   «Potrebbe esserlo, perché no?» concordò papà. «Dobbiamo trattarla con il massimo rispetto, come esige il suo sangue reale.»

   «Lawrence, Posy… a tavola!» si sentì esclamare da dietro il fogliame. Papà si alzò. Era più alto della buddleia e riuscì senza problemi a fare un cenno in direzione della terrazza di Admiral House.

   «Arriviamo, amore!» gridò. Eravamo piuttosto lontani da casa. Vidi il suo volto aprirsi in un sorriso appena posò lo sguardo su sua moglie: mia madre, la regina del popolo magico, anche se non sapeva di esserlo. Era un gioco che esisteva soltanto tra me e papà.

   Percorremmo il prato mano nella mano, immersi nel profumo dell’erba appena tagliata, che associavo a tanti momenti felici passati in giardino: gli amici dei miei genitori, con un calice di champagne in una mano e la mazza da croquet nell’altra, il rumore attutito della palla sul campo da cricket che papà preparava apposta in occasioni come quelle…

   Da quando era cominciata la guerra, giornate così capitavano sempre più di rado, cosa che rendeva quei ricordi ancora più preziosi. La guerra aveva reso papà zoppo, motivo per cui dovevamo camminare sempre lentamente. A me stava benissimo: significava che sarebbe stato tutto mio per più tempo. Ora si sentiva molto meglio rispetto a quando era tornato a casa dall’ospedale. Era stato dimesso su una sedia a rotelle, come fosse un anziano, e anche i suoi occhi sembravano ingrigiti. Ma con la mamma e Daisy a prendersi cura di lui, e io che gli leggevo sempre le favole, era riuscito a guarire in fretta. Ormai non aveva neanche più bisogno del bastone per muoversi, a meno che non volesse spingersi più in là del giardino, ovviamente.

   «Posy, corri a lavarti le mani e la faccia. Di’ a tua madre che vado a occuparmi della nostra nuova ospite.» Arrivati alle scale che portavano alla terrazza, papà mi fece un cenno alzando la rete.

   «Sì, papà» risposi, mentre lui attraversava a fatica il prato per sparire alla fine dietro un’alta siepe squadrata. Era diretto alla Torre, che con i suoi mattoni giallo chiaro era la dimora perfetta per il popolo delle fate e per le loro amiche farfalle. Papà passava lì dentro un sacco di tempo. Da solo. Io potevo solamente sbirciare nella stanzetta circolare che si apriva dietro la porta d’ingresso, quando la mamma mi mandava a chiamarlo perché era pronto da mangiare. Dentro era buio e c’era puzza di calzini ammuffiti.

   Era lì che teneva i suoi “attrezzi per l’esterno”, come li chiamava lui. Le racchette da tennis si facevano largo tra le mazze da cricket e gli stivali da pesca incrostati di fango. Non mi aveva mai permesso di salire la scala a chiocciola che si arrotolava su se stessa fino alla punta della Torre (sapevo dove portava perché ci ero salita di nascosto una volta che papà era rientrato in casa per rispondere al telefono). Era stata una vera delusione scoprire che aveva chiuso a chiave la grande porta di quercia in cima alle scale. Avevo provato a ruotare il pomello con tutta la forza che avevo nelle mie piccole mani, ma non c’era stato niente da fare, non si era mossa. Sapevo che c’erano un mucchio di finestre, lì dentro, perché si vedevano da fuori. La Torre mi ricordava un po’ il faro di Southwold; l’unica differenza era che in cima le avevano messo una corona d’oro, invece di una luce.

   Salendo le scale della terrazza sospirai per la felicità; guardavo i bellissimi muri di mattoni rossi della casa, le file di finestre a saliscendi incorniciate dai viticci verde scuro del glicine. Vidi poi il vecchio tavolo di ferro battuto, ormai più verdastro che nero, come era all’inizio, fuori sulla terrazza per il pranzo. C’erano tre tovagliette e tre bicchieri, il che significava che saremmo stati soltanto noi tre, cosa piuttosto insolita. Che bello, pensai, averli tutti per me, sia maman che papà. Entrando in salotto, accarezzai i divani di damasco sistemati intorno all’enorme caminetto incastonato nel marmo: era talmente grande che l’anno prima Babbo Natale era riuscito a farci passare addirittura una bicicletta rossa nuova di zecca! Mi inoltrai nel labirinto di corridoi che portavano al bagno del pianterreno. Mi chiusi la porta alle spalle e aprii il grosso rubinetto d’argento con entrambe le mani, che lavai con cura. Alzandomi in punta di piedi guardai il mio riflesso allo specchio, alla ricerca di macchie di terra. Maman era molto attenta alle apparenze (secondo papà, era per via delle sue origini francesi), e guai a noi se non ci presentavamo a tavola lindi e immacolati.

   Nemmeno lei, però, era in grado di tenere a bada gli ispidi ricci bruni che sfuggivano in continuazione dalle mie trecce, comparendo sulla nuca come dal nulla e dibattendosi senza sosta nella morsa dei nastri con cui tentavamo invano di sottometterli. Una volta, prima di andare a letto, avevo chiesto a papà di prestarmi un po’ del suo olio perché credevo potesse aiutarmi, ma lui aveva riso e si era passato uno dei miei riccioli intorno al dito.

   «Non se ne parla. Adoro i tuoi capelli, tesoro mio. Se li avessi io così, li terrei sempre sciolti sulle spalle.»

   Per l’ennesima volta desiderai tanto avere la chioma bionda, lucida e liscia della mamma. I suoi capelli erano del colore dei cioccolatini bianchi che serviva dopo cena insieme al caffè. I miei si avvicinavano di più al café au lait, o almeno così sosteneva maman. Per me erano biondo cenere.

   «Eccoti qua, Posy» disse lei uscendo in terrazza. «Dove hai lasciato il cappellino?»

   «Oh, mi sa che l’ho dimenticato in giardino, papà e io stavamo acchiappando le farfalle.»

   «Quante volte devo dirtelo: così ti scotterai il viso e finirai per diventare rugosa come una prugna appassita» mi brontolò, mentre mi mettevo a sedere. «A quarant’anni ne dimostrerai sessanta.»

   «Sì, maman» risposi, pensando nel frattempo che a quarant’anni sarei stata vecchia comunque e non me ne sarebbe importato nulla.

   «Come sta l’altra mia ragazza preferita, oggi?»

   Papà comparve in terrazza e prese la mamma tra le braccia. L’acqua della brocca che aveva in mano si rovesciò sul pavimento di pietra grigia.

   «Attento, Lawrence!» esclamò lei, guardandolo accigliata. Si liberò poi dal suo abbraccio e appoggiò la brocca sul tavolo.

   «Non è un giorno perfetto per essere al mondo?» Papà sorrise e si sedette di fronte a me. «Sembra che nel fine settimana, e per la festa, ci sarà bel tempo.»

   «Diamo una festa?» domandai. La mamma si sedette a tavola.

   «Sì, tesoro. Tuo padre pensa di stare abbastanza bene per poter rientrare in servizio, così io e la mamma abbiamo deciso di approfittare del tempo che ci rimane da passare insieme.»

   Sentii il cuore sprofondare. Daisy, la nostra domestica, che si occupava di tutto da quando il resto della servitù era stato chiamato alle armi, ci portò il pranzo: carne e ravanelli. Mi facevano schifo, i ravanelli, ma era tutto ciò che rimaneva delle verdure dell’orto quella settimana, visto che la maggior parte avevamo dovuto mandarla ai soldati.

   «Per quanto starai via, papi?» gli chiesi con una vocina triste, perché mi si era formato un enorme groppo in gola. Era come se uno dei ravanelli ci fosse rimasto incastrato, e sentivo che mancava poco perché mi mettessi a piangere.

   «Oh, ormai non è rimasto molto tempo. Lo sanno tutti che i crucchi sono spacciati, ma devo dare una mano per gli ultimi sforzi, capito? Non posso mica deludere i miei amici, no?»

   «No, papi» riuscii a dire, con voce tremante. «Non ti farai di nuovo male, vero?»

   «Certo che no, chérie. Tuo padre è indistruttibile, dico bene, Lawrence?»

   La mamma gli rivolse un sorriso tirato e pensai che fosse preoccupata tanto quanto me.

   «È vero, amore» rispose lui, mettendole una mano sulla spalla. «Dici proprio bene.»

«Papi» dissi a colazione il giorno successivo, mentre inzuppavo con cura nell’uovo le strisce di pane tostato. «Oggi fa tanto caldo, possiamo scendere in spiaggia? Non ci andiamo da un sacco di tempo.»

   Vidi papà lanciare un’occhiata alla mamma, ma lei stava leggendo la posta, china sul suo café au laite non se ne accorse nemmeno. Riceveva sempre un gran numero di lettere dalla Francia, tutte su una carta più sottile delle ali di farfalla, cosa che le si addiceva perché ogni cosa in lei era incredibilmente esile e delicata.

   «Papi? La spiaggia» insistetti.

   «Tesoro, temo che non sia possibile giocare sulla spiaggia, al momento. È piena di mine e di filo spinato. Ricordi cosa ti ho raccontato? Che cosa è successo il mese scorso a Southwold?»

   «Sì, papi.» Abbassai lo sguardo scossa da un brivido. Mi ricordavo della volta in cui Daisy mi aveva trascinata nel rifugio Anderson (credevo si chiamasse così perché era il nostro cognome, quello, e ci ero rimasta male quando Mabel aveva detto che anche la sua famiglia ne aveva uno chiamato così, sebbene il loro cognome fosse Price). Era come se il cielo avesse preso vita, sprigionando tuoni e fulmini, però papà aveva spiegato che non era stato Dio a mandarli, ma Hitler. Dentro il rifugio ci eravamo stretti gli uni agli altri e papà ci aveva detto di fingere di essere una famiglia di porcospini, tutti raggomitolati su se stessi. Alla mamma quel paragone non era piaciuto, ma io avevo davvero immaginato di essere un piccolo porcospino nascosto sottoterra, mentre gli esseri umani si scontravano in battaglia sopra di me. Alla fine quel rumore terribile era cessato. Papà aveva detto che potevamo andare di nuovo a dormire, ma a me dispiaceva dover tornare da sola nel mio letto da umana, invece di restare rannicchiata in quella tana con i miei genitori.

   Il mattino dopo, in cucina avevo trovato Daisy in lacrime, ma non mi diceva cosa fosse successo. Quel giorno il lattaio con il carretto non era passato, e la mamma aveva detto che non sarei potuta andare a scuola, perché la scuola non c’era più.

   «Come fa a non esserci più, mamma?»

   «Ci è caduta sopra una bomba, chérie» aveva spiegato, soffiando fuori il fumo della sigaretta.

   La mamma aveva cominciato a fumare, e a volte avevo paura che avrebbe finito per dare fuoco alle lettere, perché quando leggeva le teneva vicinissime alla faccia.

   «E la nostra casetta sulla spiaggia?» chiesi a papà. La adoravo, quella casetta: era dipinta di un giallo chiaro simile al burro ed era proprio l’ultima della fila. Se guardavi in una certa direzione, potevi far finta di essere l’unica persona presente sulla spiaggia, mentre se ti giravi dall’altra parte avresti scoperto di non essere nemmeno troppo distante dall’uomo gentile che vendeva i gelati, sul molo. Io e papà costruivamo dei castelli di sabbia molto elaborati, con torri e fossati grandi abbastanza da ospitare tutti i granchi che c’erano lì. Mamannon voleva mai venirci, in spiaggia, diceva che c’era “troppa sabbia”. Per me era come dire che l’oceano era troppo bagnato.

   Ogni volta che ci andavamo, trovavamo un vecchio con indosso un largo cappello che passeggiava piano piano sulla sabbia, picchiettandola con un bastone, che però non somigliava a quello che papà usava per camminare. L’uomo stringeva in mano un grosso sacco, e di tanto in tanto si fermava e si metteva a scavare.

   «Che sta facendo, papi?» avevo chiesto una volta.

   «Cerca oggetti abbandonati, tesoro. Setaccia la spiaggia per trovare cose portate a riva dal mare, magari cadute dalle navi al largo o arrivate fino a qui da coste lontane.»

   «Ah, ho capito» avevo risposto, anche se quell’uomo non ce l’aveva, un setaccio, di certo non come quello che usava Daisy in cucina. «Pensi che troverà dei tesori sepolti?»

   «Sono sicuro che, se scava in profondità, un giorno troverà qualcosa.»

   Mi ero sentita felice quando il vecchio aveva tirato fuori un oggetto dalla sabbia, poi però mi ero accorta che si trattava di una semplice teiera smaltata.

   «Che delusione» avevo detto, sospirando.

   «Ricordati, tesoro, che quello che per qualcuno è spazzatura per un altro può essere qualcosa di prezioso. Ma in un certo senso forse siamo tutti come quell’uomo» aveva continuato papà, strizzando le palpebre sotto il sole. «Non facciamo che guardare in giro, sperando di trovare un giorno quel tesoro che continua a sfuggirci e che ci renderebbe ricchi. Quando scoviamo una teiera invece di un gioiello, be’, dobbiamo continuare a cercare.»

   «Stai ancora cercando un tesoro, papi?»

   «No, mia piccola principessa delle fate, l’ho già trovato.» E aveva sorriso baciandomi sulla fronte.

Dopo parecchia insistenza, papà alla fine cedette e decise di portarmi a fare il bagno al fiume. Daisy mi aiutò a indossare il costume e mi mise un cappello sopra i ricci scuri, prima che salissi sulla macchina di papà. La mamma aveva detto di avere troppo da fare per la festa dell’indomani, ma non ero triste perché io e il re delle fate potevamo dare il benvenuto a corte a tutte le creature del fiume.

   «Ci sono le lontre?» domandai, mentre ci allontanavamo dal mare per inoltrarci tra i morbidi campi verdi dell’entroterra.

   «Per riuscire a vederle devi essere molto silenziosa» disse. «Pensi di farcela, Posy?»

   «Certo!»

   Restammo in automobile tanto tempo prima di scorgere il serpente azzurro del fiume, nascosto dietro il canneto. Papà parcheggiò e scendemmo insieme per arrivare all’acqua, portandoci dietro la nostra apparecchiatura scientifica: la macchina fotografica, le reti per prendere le farfalle, i barattoli di vetro, la limonata e i panini con il roastbeef.

   Le libellule volavano a pelo d’acqua e scomparvero non appena mi tuffai. L’abbraccio del fiume era incantevole, ma mi sentivo pungere la testa e il viso sotto il cappello, che finii per scaraventare sulla riva, dove papà si stava infilando il costume.

   «Con tutto questo chiasso, le lontre, se c’erano, di sicuro ora sono scappate» mi disse entrando in acqua. Gli arrivava a malapena alle ginocchia, tanto era alto. «Guarda quell’erba vescica. Ne portiamo un po’ a casa per la nostra collezione?»

   Ci avvicinammo alla pianta e strappammo uno dei suoi fiori gialli. Ci vivevano dentro tantissimi minuscoli insetti, quindi riempimmo d’acqua un barattolo e ci infilammo dentro il nostro campione, per sicurezza.

   «Ti ricordi il nome latino, tesoro?»

   «U-tri-cu-la-ria» scandii orgogliosamente, uscendo dal fiume e andando a sedermi a riva sull’erba accanto a mio padre.

   «Brava bambina. Voglio che tu mi prometta che continuerai ad aggiungere altre piante alla nostra collezione. Se ne vedi una interessante, falla essiccare come ti ho spiegato. Avrò bisogno di una mano per il libro, durante la mia assenza.» Mi porse un panino che aveva tirato fuori dal cesto da picnic e io lo presi, tentando di assumere un’espressione seriosa, da vera scienziata. Volevo che papà capisse che poteva contare su di me per portare avanti il suo lavoro. Prima della guerra era stato un botanico e lavorava a quel libro da quando ero nata. Spesso si chiudeva nella Torre per “pensare e scrivere”. A volte lo portava in casa e mi faceva vedere alcuni dei suoi disegni.

   Com’erano belli. Mi aveva spiegato che rappresentavano l’habitat in cui vivevamo; c’erano alcune bellissime illustrazioni delle farfalle, degli insetti e delle piante. Una volta mi aveva detto che se anche una sola cosa fosse cambiata, l’equilibrio di tutto il resto sarebbe andato distrutto.

   «Per esempio, guarda quei moscerini.» Una calda notte d’estate mi aveva indicato quegli insetti, che formavano una specie di fastidiosa nube. «Sono fondamentali per l’ecosistema.»

   «Ma pungono» avevo detto io, scacciandone uno.

   «È nella loro natura, infatti» aveva risposto lui ridendo. «Se non ci fossero, però, tantissime specie di uccelli non avrebbero da mangiare e il loro numero calerebbe a dismisura. E se la popolazione di uccelli diminuisse, ne risentirebbe anche il resto della catena alimentare. Senza gli uccelli, gli altri insetti, come le cavallette, dovrebbero difendersi da pochissimi predatori, e continuerebbero a moltiplicarsi e a divorare tutte le piante. E senza le piante…»

   «Non ci sarebbe più da mangiare per gli erbavori

   «Erbivori, esatto. Quindi vedi, c’è un equilibrio molto delicato dietro a ogni cosa. Il semplice battito d’ali di una farfalla può fare la differenza in tutto il pianeta.»

   Ripensai a quei discorsi mentre masticavo il panino.

   «Ho preso per te una cosa speciale» disse papà, frugando nello zaino. Tirò fuori un barattolino di latta e me lo porse.

   Quando lo aprii, vidi che dentro c’era una dozzina di matite perfettamente appuntate e di svariati colori.

   «Mentre sarò lontano dovrai continuare a disegnare. Al mio ritorno voglio vedere quanto sei migliorata.»

   Annuii, troppo felice del regalo per riuscire a dire qualcosa.

   «A Cambridge ci hanno insegnato a osservare il mondo» aggiunse lui. «Sono troppe le persone che non si accorgono da quanta bellezza e quanta magia siano circondate. Ma non tu, Posy, tu sei già in grado di vedere le cose meglio di tanti altri. Quando disegniamo la natura iniziamo a comprenderla, riusciamo a vedere tutte le parti di cui è fatta e il modo in cui quelle parti sono legate insieme. Disegnando quello che hai davanti agli occhi, e studiandolo, puoi aiutare anche gli altri a capire il miracolo della natura.»

Al nostro rientro a casa, Daisy mi rimproverò perché avevo bagnato i capelli e mi costrinse a lavarmi, cosa che per me non aveva senso, visto che mi sarei bagnata i capelli di nuovo. Dopo avermi messo a letto, Daisy se ne andò e allora mi alzai e tirai fuori le mie nuove matite, accarezzandone le punte. Pensai che, se mi fossi esercitata abbastanza, al ritorno di papà dalla guerra avrei potuto dimostrargli che pure io meritavo di andarci, a Cambridge. Anche se ero una femmina.

   Il mattino successivo, dalla finestra della mia stanza scorsi un gran numero di macchine sul vialetto di casa. Erano tutte strapiene di persone. La mamma aveva detto che i suoi amici avevano messo insieme le tessere della benzina per riuscire ad arrivare da Londra. Emigrés, li chiamava, e dato che mi parlava in francese sin da quando ero appena nata, sapevo che significava “emigrati”. Il dizionario spiegava che l’emigrato era una persona che si era trasferita dal suo paese d’origine in un altro. La mamma diceva che era come se tutta Parigi si fosse trasferita in Inghilterra per sfuggire alla guerra. Sapevo che non era vero, ovviamente, ma alle feste c’erano sempre più amici francesi di quanti non fossero quelli inglesi di papà. Non me ne importava niente, perché mi piacevano quegli uomini con le loro sciarpe vivaci e la giacca dello smoking del colore delle pietre preziose, quelle donne con i vestiti di raso e le labbra tinte di rosso. La cosa migliore in assoluto era che mi portavano sempre dei regali, così ogni volta era come se fosse Natale.

   Papà li chiamava i “bohémien di maman”, che secondo il dizionario erano persone creative, artisti, musicisti o pittori. La mamma aveva fatto la cantante in un famoso locale di Parigi, e adoravo sentire la sua voce, profonda e vellutata come il cioccolato fuso. Non si accorgeva mai che la ascoltavo, naturalmente, perché in teoria avrei dovuto dormire, ma quando c’era una festa a casa non riuscivo ad addormentarmi, quindi scendevo le scale in punta di piedi e di nascosto ascoltavo la musica e le chiacchiere. In quelle serate era come se la mamma prendesse vita, mentre tra una festa e l’altra non faceva che fingere di essere una bambola inanimata. Mi piaceva sentirla ridere, perché quando eravamo da soli non succedeva quasi mai.

   Anche gli amici piloti di papà erano simpatici, nonostante si vestissero tutti di blu e marrone, e fosse difficile distinguerli l’uno dall’altro. Il mio padrino Ralph, il migliore amico di papà, era quello che preferivo: lo trovavo molto bello, con i suoi capelli scuri e i suoi grandi occhi castani. In uno dei miei libri di favole c’era un disegno del principe che baciava Biancaneve e la svegliava. Ralph era identico a lui. Era anche molto bravo a suonare il pianoforte, perché prima della guerra di mestiere faceva il pianista (prima della guerra tutti gli adulti che conoscevo facevano altro, tranne la nostra domestica Daisy). Lo zio Ralph aveva una malattia che gli impediva di combattere o pilotare un aereo in battaglia. Svolgeva quello che gli adulti chiamavano un “lavoro da scrivania”, anche se non riuscivo proprio a immaginare che cosa ci potesse fare uno con una scrivania, a parte starci seduto dietro. Quando papà era impegnato a pilotare i suoi Spitfire, lo zio Ralph veniva a trovare me e la mamma, cosa che ci faceva tanto piacere. Veniva a pranzo la domenica e, dopo mangiato, suonava il piano per noi. Di recente mi ero resa conto che papà era stato in guerra per quattro dei miei sette anni di vita, e immaginavo che dovesse essere stato tremendo per la mamma avere soltanto la compagnia mia e di Daisy.

   Mi sedetti sul davanzale e allungai il collo per guardare la mamma che accoglieva gli ospiti sui gradini dell’ingresso. Quel giorno era bellissima: portava un vestito blu notte come i suoi occhi, e quando papà la raggiunse e le mise un braccio intorno ai fianchi, mi sentii veramente felice. Poi arrivò Daisy per aiutarmi a indossare l’abito nuovo che aveva ricavato per me da un paio di vecchie tende verdi. Mentre mi spazzolava i capelli e li legava con un nastro dello stesso colore, decisi che avrei evitato di pensare al fatto che papà se ne sarebbe andato il giorno dopo, quando un silenzio simile a quello che si sente appena prima del rombo del tuono sarebbe calato su Admiral House e su di noi.

   «Pronta, Posy?» mi domandò Daisy. Era rossa in viso e sudata, e sembrava stanchissima, forse perché faceva un gran caldo e da sola aveva dovuto preparare da mangiare per tutte quelle persone. Le rivolsi il mio sorriso più tenero.

   «Sì, Daisy, sono pronta.»

   Il mio vero nome in realtà non è Posy. Mi chiamo come mia madre, Adriana. Ma dato che questo avrebbe creato confusione, avevano deciso di usare il mio secondo nome, Rose, ereditato dalla mia nonna inglese. Daisy mi aveva detto che papà aveva cominciato a rivolgersi a me come “Rosy Posy” quando ero piccola, e a un certo punto quel nomignolo era rimasto. Mi andava bene, di sicuro era più adatto a me degli altri due nomi che avevo.

   Certi parenti anziani di papà mi chiamavano ancora “Rose”, e io rispondevo, perché mi avevano insegnato che agli adulti si risponde sempre educatamente. Alla festa però tutti sapevano che ero Posy. Mi abbracciavano e mi baciavano, mi consegnavano dei pacchettini di dolciumi legati con un nastro. Gli amici francesi della mamma preferivano le mandorle caramellate, che a me non piacevano un granché, ma sapevo quanto fosse difficile trovare del cioccolato. Colpa della guerra.

   Mi accomodai al lungo tavolo che avevano appoggiato su dei cavalletti in terrazza, e mentre il sole picchiava sul mio cappellino (che mi faceva sentire solo più caldo) e gli ospiti chiacchieravano, desiderai che ogni giorno a Admiral House fosse come quello. Mamma e papà seduti uno di fianco all’altra al centro della tavolata, come un re e una regina con la loro corte. Avevano un’aria così felice che mi veniva da piangere.

   «Va tutto bene, Posy, tesoro?» mi domandò lo zio Ralph, che era seduto accanto a me. «Fa un caldo tremendo, qui fuori» aggiunse, asciugandosi la fronte con un fazzoletto immacolato che aveva tirato fuori dal taschino.

   «Sì, zio Ralph. Stavo solo pensando che i miei genitori sembrano davvero felici, oggi. È triste che papà debba tornare in guerra.»

   «Già.»

   Guardai Ralph che osservava i miei genitori, e mi parve che anche lui all’improvviso si fosse rabbuiato. «Be’, con un po’ di fortuna però presto sarà finita» disse poco dopo. «E potremo riprenderci le nostre vite.»

Dopo pranzo mi fu permesso di giocare a croquet, e me la cavai incredibilmente bene, forse perché quasi tutti gli adulti avevano bevuto parecchio vino e riuscivano a malapena a colpire la palla. Poco prima papà aveva detto che per l’occasione avrebbe svuotato la cantina, e a quanto pareva gli ospiti ne avevano approfittato. Non capivo bene perché gli adulti si volessero ubriacare, diventavano solo più chiassosi e socchiusi gli occhi. Ad ogni modo forse da adulta avrei fatto anch’io così. Mentre attraversavo il prato in direzione del campo da tennis, vidi un uomo sdraiato sotto un albero con due donne sottobraccio. Dormivano tutti e tre. Qualcuno stava suonando il sassofono sulla terrazza e pensai che fosse una fortuna che non avessimo dei vicini di casa.

   Sapevo di essere privilegiata ad abitare a Admiral House. Quando avevo cominciato a frequentare la scuola, Mabel, una mia compagna, mi aveva invitato da lei per il tè, e io ero rimasta sbalordita nel vedere che la porta d’ingresso dava direttamente sul soggiorno. Sul retro c’era un cucinotto, e il gabinetto era fuori! Oltre a Mabel, erano in quattro tra fratelli e sorelle: dormivano tutti di sopra, nella stessa stanzetta. Quella era stata la prima volta in cui mi ero resa conto che la mia famiglia era ricca, che non tutti vivevano in una grande casa con un giardino delle dimensioni di un parco. Era stata una doccia fredda. Quando Daisy era venuta a prendermi le avevo chiesto perché.

   «È come quando tiri i dadi, Posy» mi aveva spiegato. «Alcuni sono fortunati e altri no.»

   Daisy teneva molto ai suoi modi di dire. Metà delle volte non capivo cosa intendesse, però ero contenta che i dadi mi avessero fatto nascere in una famiglia agiata, e decisi di pregare di più per tutti quelli che non se la passavano altrettanto bene.

   Ero convinta di non piacere molto alla mia maestra, la signorina Dansart. Era stata lei a incoraggiarci ad alzare la mano quando sapevamo la risposta a una domanda, ma siccome ero sempre la prima a farlo, alzava gli occhi al cielo e arricciava le labbra dicendo «Sì, Posy», con voce stanca. Una volta, mentre saltavo la corda con le mie compagne, l’avevo sentita parlare in cortile con un’altra maestra.

   «Figlia unica… cresciuta in mezzo agli adulti… precoce…»

   Di ritorno a casa avevo cercato “precoce” sul dizionario. Da quel momento in poi avevo smesso di alzare la mano, anche se la risposta mi bruciava in gola.

Alle sei si svegliarono tutti e andarono a cambiarsi per la cena. Io andai in cucina, dove Daisy mi indicò un vassoio.

   «Per te stasera tè, pane e marmellata, signorinella. Io devo occuparmi di questi due salmoni che mi ha portato il signor Ralph.»

   All’improvviso mi dispiacque per lei, poverina, che doveva lavorare tutto il tempo.

   «Vuoi che ti aiuti?»

   «Me la caverò. Più tardi vengono le due figlie di Marjory per apparecchiare e servire a tavola. Grazie di avermelo chiesto, però» disse, e mi sorrise. «Sei proprio una brava bambina.»

   Finii il mio tè e uscii dalla cucina prima che Daisy mi ordinasse di andare di sopra e prepararmi per dormire. Era una bellissima serata, volevo tornare fuori e godermela. Appena misi piede in terrazza, vidi che il sole indugiava appena sopra il profilo delle querce, proiettando sull’erba chiari fasci di luce. Gli uccelli cantavano ancora come se fosse pieno giorno, e faceva abbastanza caldo per stare all’aperto senza maglione. Mi sedetti sulle scale, lisciai l’abito di cotone sulle ginocchia e osservai una Vanessa atalantache si era posata su una pianta nel pendio pieno di fiori che portava al giardino. Ero convinta che casa nostra si chiamasse così per via delle farfalle che svolazzavano tra i cespugli, e ci ero rimasta malissimo quando la mamma mi aveva detto che portava il nome del mio bis-bis-bisnonno (mi pare che i bisfossero tre, o forse quattro), che era stato in marina col grado di ammiraglio. La storia così perdeva tutto il suo romanticismo!

   Papà diceva che le vanesse erano “comuni” da quelle parti (la stessa parola che la mamma usava per definire alcuni dei miei compagni di classe), ma per me erano le farfalle più belle di tutte, con le loro splendide ali nere e rosse, e le macchie bianche sulle punte che mi ricordavano i motivi dipinti sugli Spitfire che pilotava papà. Ma quel pensiero mi rattristò ricordandomi che l’indomani se ne sarebbe andato.

   «Ciao, bella bambina, che ci fai qui fuori tutta sola?»

   Il suono della sua voce mi fece sobbalzare, perché stavo pensando proprio a lui. Alzai lo sguardo e lo vidi venire verso di me sulla terrazza, fumando una sigaretta, che poi gettò per terra e schiacciò col piede. Sapeva che detestavo la puzza di fumo.

   «Non dire a Daisy che mi hai visto, per favore. Altrimenti mi manderà a letto» dissi in fretta, mentre lui si sedeva accanto a me sullo scalino.

   «Promesso. E comunque come si fa a dormire in una serata da sogno come questa? Per me giugno è il mese migliore in Inghilterra. Tutta la natura si è ormai ripresa dal lungo sonno invernale, si è stiracchiata, ha sbadigliato e ha tirato fuori le ali, le foglie e i fiori per rallegrare noi uomini. Ad agosto invece il caldo consuma ogni energia e la natura si prepara già a rimettersi a dormire.»

   «Proprio come noi, papi. A me piace stare a letto d’inverno» dissi.

   «Esatto, tesoro. Non dimenticare mai che siamo profondamente legati alla natura.»

   «La Bibbia dice che è stato Dio a creare tutto quello che c’è sulla Terra» aggiunsi, con aria solenne. L’avevo imparato a catechismo.

   «È vero, anche se mi riesce difficile credere che ci sia riuscito in appena sette giorni» ribatté lui, ridacchiando.

   «È magico, papi, vero? Come Babbo Natale, che riesce a portare i regali a tutti i bambini del mondo in una sola notte.»

   «Sì, esatto, Posy, proprio così. Il mondo è un posto magico e dobbiamo considerarci fortunati a poterci vivere. Non dimenticarlo mai, d’accordo?»

   «Sì. Papi?»

   «Dimmi, Posy.»

   «A che ora parti domani?»

   «Devo prendere il treno dopo pranzo.»

   Rimasi a lungo a fissarmi le scarpe di vernice. «Ho paura che ti farai di nuovo male.»

   «Non aver paura, tesoro. Come dice tua madre, sono indistruttibile.»

   «Quando torni a casa?»

   «Appena mi congedano, non dovrebbe volerci molto. Bada alla mamma mentre non ci sono, okay? Lo so che quando è sola diventa triste.»

   «Ci provo sempre, papi. Ma è triste solo perché le manchi e ti ama, vero?»

   «Sì, e accidenti, Posy, anch’io la amo. Pensare a lei, e a te, è stata l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti quando ero in volo. Sai, quando è scoppiata questa stupida guerra non eravamo sposati da tanto.»

  «Dopo che l’hai sentita cantare in quel locale a Parigi e ti sei innamorato di lei all’istante, l’hai portata in Inghilterra per sposarla prima che cambiasse idea» dissi con aria sognante. La storia d’amore dei miei genitori era molto più bella di tutte le favole dei libri.

   «Sì. È l’amore che fa nascere la magia nella vita, Posy. Anche nelle giornate più uggiose, è capace di illuminare il mondo e farlo sembrare splendido com’è adesso.»   

   Papà fece un sospirone, poi mi prese la mano. «Promettimi che quando troverai l’amore, lo prenderai al volo e non lo lascerai più andare.»

   «Te lo prometto, papi» dissi, guardandolo intensamente.

   «Brava piccola. Ora devo andare a cambiarmi per la cena.»

   Mi diede un bacio sui capelli, si alzò e rientrò in casa.

   Ovviamente all’epoca ancora non lo sapevo, ma quella sarebbe stata l’ultima vera conversazione che avrei avuto con mio padre.

Papà partì il pomeriggio successivo, e con lui gli ospiti. Quella sera faceva caldissimo e l’aria che si respirava era densa e pesante, come se non contenesse più neanche un filo d’ossigeno. Sulla casa calò il silenzio. Daisy era partita per la sua uscita settimanale: andava dalla sua amica Edith a prendere il tè, quindi non si sentiva neanche lei che borbottava o canticchiava (tra le due onestamente preferivo che borbottasse), o sciacquava i piatti, che erano tanti, tutti impilati su dei vassoi nel retrocucina in attesa di essere lavati. Mi ero offerta di dare una mano, ma Daisy aveva detto che le sarei stata più d’impiccio che altro, e la cosa mi aveva ferito.

   La mamma era andata a letto non appena la macchina era scomparsa dietro i castagni. Pareva che le fosse venuta una delle sue emicranie, che secondo Daisy era un modo elegante per riferirsi ai postumi della sbronza, qualunque cosa fossero. Ero in camera mia, rannicchiata sul davanzale della finestra che dava sul portico di Admiral House. In quel modo, se fosse arrivato qualcuno, sarei stata la prima a vederlo. Papà mi chiamava la sua “piccola sentinella”, e da quando Frederick, il maggiordomo, era partito per la guerra, di solito ero io che andavo ad aprire la porta.

   Da lì vedevo alla perfezione il vialetto, ricavato tra le file di antichissimi castagni e querce. Papà mi aveva detto che alcuni di quegli alberi li avevano piantati quasi trecento anni prima, quando il primo ammiraglio si era costruito la casa con le sue mani (trovavo questa storia affascinante, perché significava che gli alberi vivevano quasi cinque volte più a lungo delle persone – se l’Encyclopaedia Britannica che c’era in biblioteca diceva il vero – e tenendo conto che l’aspettativa di vita media era di sessantuno anni per gli uomini e di sessantasette per le donne). Se aguzzavo la vista, nelle giornate limpide riuscivo a scorgere tra le cime degli alberi e il cielo una striscia sottile color grigio-azzurro. Era il Mare del Nord, che si apriva ad appena otto chilometri da Admiral House. Mi faceva spavento pensare che un giorno di questi papà l’avrebbe sorvolato a bordo del suo minuscolo aereo.

   «Torna sano e salvo, e torna presto» sussurrai verso le nuvole plumbee e minacciose che circondavano il sole ormai calante, simile a una succosa arancia (ah, da quanto tempo non ne mangiavo una…). L’aria era immobile e non tirava neanche un alito di vento. Sentii il rombo di un tuono in lontananza, e sperai che Daisy si sbagliasse e che Dio non fosse in collera con noi. Non capivo mai se Dio fosse quello arrabbiato descritto da Daisy o quello gentile di cui parlava il parroco. Forse era come un genitore, e poteva essere tutte e due le cose.

   Appena le prime gocce iniziarono a cadere, trasformandosi ben presto in una pioggia torrenziale man mano che la furia di Dio divampava nel cielo, sperai che papà fosse arrivato sano e salvo alla base, altrimenti si sarebbe bagnato tutto, o peggio, avrebbe potuto essere colpito da un fulmine. Chiusi la finestra perché stava piovendo sul davanzale, e in quel momento mi resi conto che la mia pancia faceva un rumore simile a quello del tuono. Scesi di sotto a prendere il pane con la marmellata che Daisy mi aveva lasciato per cena.

   Mentre percorrevo la grande scalinata di quercia nella luce del tramonto, mi accorsi che rispetto al giorno prima la casa era molto silenziosa, come un alveare che per un po’ avesse ospitato delle api chiacchierone poi volate via all’improvviso. Un altro tuono ruggì sopra di me, infrangendo il silenzio, e mi resi conto di essere molto coraggiosa a non farmi spaventare né dal buio, né dai tuoni, né dal fatto di essere sola.

   «Oh, Posy, la tua casa fa paura» aveva detto Mabel una volta che l’avevo invitata a prendere il tè. «Guarda quante foto di gente morta, con quei vestiti fuori moda! Mi fanno venire la pelle d’oca, altroché» aveva affermato, rabbrividendo, mentre indicava i ritratti della famiglia Anderson allineati sulla parete delle scale. «Non ce la farei neanche a uscire dalla mia stanza per andare in bagno. Avrei troppa paura dei fantasmi.»

   «Sono i miei antenati, e scommetto che si rivolgerebbero a te con gentilezza, se per caso saltasse loro in mente di tornare a farci un saluto» avevo detto, infastidita dal fatto che non si fosse innamorata all’istante di Admiral House come era capitato a me.

   Io, invece, mentre attraversavo il pianerottolo e seguivo il lungo corridoio che portava in cucina, non avevo nessuna paura, anche se era buio e sapevo che la mamma – che probabilmente dormiva ancora al piano di sopra – non mi avrebbe mai sentito se mi fossi messa a urlare.

   Ero certa di essere al sicuro e che tra le robuste pareti della casa non sarebbe potuto accadere niente di male.

   Provai ad accendere la luce in cucina, ma pareva che non ci fosse corrente, quindi accesi una delle candele appoggiate sullo scaffale. Ero diventata brava a farlo, perché a Admiral House non potevi mai fare conto sull’elettricità, specialmente da quando era cominciata la guerra. Adoravo il bagliore delicato delle candele, che illuminava soltanto l’area intorno a te e poteva regalare un aspetto piacevole perfino alla persona più brutta del mondo. Presi la fetta di pane che Daisy mi aveva già tagliato (mi facevano accendere le candele, ma mi era vietato toccare i coltelli) e ci spalmai sopra uno spesso strato di burro e marmellata. Poi, con la fetta già tra i denti, raccolsi il piatto e la candela, e tornai in camera mia a guardare il temporale.

   Mi sedetti sul davanzale a masticare il pane e riflettei sul fatto che Daisy si preoccupava moltissimo per me, tutte le volte che lasciava la casa. Soprattutto quando papà non c’era.

   «Non sta bene che una bambina rimanga da sola in una casa tanto grande» borbottava. Io le spiegavo che non ero sola, che c’era anche la mamma, e che poi non ero così piccola, avevo sette anni!

   «Mmm!» faceva lei, togliendosi il grembiule e appendendolo al gancio sulla porta della cucina. «Non badare a quello che ti dice tua madre, svegliala se hai bisogno di lei.»

   «Va bene» rispondevo sempre, ma chiaramente poi non l’avevo mai fatto, neanche quella volta che avevo vomitato sul pavimento perché mi faceva male la pancia. Sapevo che mamansi sarebbe arrabbiata se l’avessi svegliata, perché aveva bisogno di dormire. E in ogni caso non mi dispiaceva starmene per conto mio: da quando papà era partito per la guerra, mi ci ero abituata. In biblioteca poi avevamo l’Encyclopaedia Britannicacompleta, e potevo leggere tutto il giorno. Ero già arrivata alla fine dei primi due volumi, ma ne mancavano altri ventidue, e immaginavo che ci avrei messo diverso tempo a leggerli tutti, almeno fino a che non fossi diventata grande.

   Quella sera, senza corrente, era troppo buio per leggere e la candela era ormai ridotta a un mozzicone; quindi decisi di rimanere ad ammirare il cielo, cercando di non pensare a papà, altrimenti avrei pianto tanto da fare invidia alla pioggia.

   Guardai fuori e, in alto nella finestra, scorsi qualcosa di rosso che attirò la mia attenzione.

   «Oh, una farfalla! Una Vanessa atalanta

   Mi avvicinai e vidi che la poverina faceva del suo meglio per ripararsi dal temporale sotto lo stipite della finestra. Dovevo salvarla. Con molta cautela sbloccai il saliscendi e misi una mano fuori. Anche se era immobile, impiegai un po’ ad afferrarla, tenendola tra pollice e indice, perché non volevo farle male alle ali, che teneva ben chiuse ed erano bagnate e scivolose.

   «Presa» sussurrai, e tirai dentro la mano con grande attenzione, prima di richiudere bene la finestra.

   «Ecco, piccolina» mormorai, e presi a studiarla sul palmo della mia mano. «Adesso come faccio ad asciugarti le ali?»

   Provai a pensare a come lo facesse lei di solito: viveva all’aperto e sicuramente si bagnava ogni volta che pioveva.

   «Un venticello caldo» dissi, e mi misi a soffiarle piano sulle ali. All’inizio la farfalla non si mosse, ma dopo qualche istante, quando ormai ero vicina a finire il fiato, la vidi sbattere piano le ali. Non mi era mai capitato di tenere una farfalla sul palmo della mano, così mi chinai per osservare meglio i colori e i motivi intricati che aveva sulle ali.

   «Sei una vera bellezza» le dissi. «Stanotte però non puoi tornare fuori, annegheresti. Che ne dici se ti lascio qui sul davanzale, così puoi vedere le tue amiche e domattina ti libero?»

   Con grande delicatezza presi la farfalla con la punta delle dita e la posai sul davanzale. Rimasi a guardarla chiedendomi se le farfalle dormissero con le ali aperte o chiuse. Ormai però erano i miei occhi che stavano per chiudersi, quindi tirai le tende per evitare che quella piccola creatura cadesse nella tentazione di svolazzare per la stanza e posarsi sul soffitto: non sarei mai riuscita a tirarla giù da lì e sarebbe potuta morire di fame o di paura.

   Presi la candela, attraversai la stanza e mi misi a letto, soddisfatta di essere riuscita a salvare una vita. Forse era un buon presagio, magari papà stavolta non sarebbe tornato ferito.

   «Buonanotte, farfallina. Dormi bene» sussurrai. Spensi la candela e mi addormentai.

Al mio risveglio, da sopra la tenda filtravano sul soffitto dei raggi di luce. Erano dorati, il che significava che fuori c’era il sole. Mi ricordai della farfalla, mi alzai dal letto e aprii con cautela le tende.

   «Oh!»

   Rimasi senza fiato vedendola con le ali chiuse, riversa su un fianco, con le piccole zampe per aria. La parte inferiore delle ali era diventata marrone, e in quella posizione più che una farfalla sembrava una grossa falena. Morta. Mi vennero le lacrime agli occhi e, per averne certezza, la toccai. Non si mosse, allora capii che la sua anima era già volata in paradiso. Forse, decidendo di non lasciarla libera, l’avevo uccisa. Papà diceva sempre che dovevano essere lasciate andare il prima possibile, e io, anche se non l’avevo messa in un barattolo, l’avevo comunque trattenuta al chiuso. Magari era morta di polmonite o di bronchite, considerato quanta acqua si era presa.

   Rimasi lì impalata a fissare la farfalla senza vita, e capii che si trattava davvero di un pessimo presagio.

Continua a leggere…

 

L’autrice 

Lucinda Riley.

Lucinda Riley è nata in Irlanda e ha esordito come scrittrice a 24 anni. Vive tra il Norfolk e il Sud della Francia, con il marito e i quattro figli. I suoi romanzi sono dei bestseller internazionali che hanno venduto 8 milioni di copie nel mondo e sono tradotti in 39 Paesi. Per Giunti sono usciti con enorme successo: Il giardino degli incontri segreti (2012), La luce alla finestra (2013), Il segreto della bambina sulla scogliera(2013), Il profumo della rosa di mezzanotte(2014), L’angelo di Marchmont Hall(2015), Il segreto di Helena(2016) e i primi due volumi di una saga di sette libri, Le Sette Sorelle(2015) e Ally nella tempesta(2016). La saga diventerà una serie TV prodotta a Hollywood.

 

 

 

  • La stanza delle farfalle
  • Lucinda Riley   
  • Traduttore: Leonardo Taiuti
  • Editore: Giunti Editore
  • Testo in italiano
  • Dimensioni: 2,12 MB
  • Pagine della versione a stampa: 608.

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