L’eterno ritorno di Nietzsche
LA TANGENTE
There is no alternative, Non c’è altro modo. La tatcheriana formula che stiamo vivendo all’ennesima potenza è stata una specie di oracolo. Il cui culmine però non è quello proclamato
L’eterno ritorno di Nietzsche(1)(2)è una riformulazione dell’iperuranio di Platone. In quest’ultimo risiedono tutte le idee che gli uomini ritengono proprie, credendo sorgano in loro. Non serve alcuna dimostrazione sull’attendibilità di quanto detto, basta guardare la storia in grande e in piccola scala, per riscontrare che in tutti noi passano le medesime idee. Da qui la necessaria conclusione del filosofo tedesco.
Il quale non si è fermato a piangere su quel concetto, né sull’umanità che lo realizza. Formulandone un altro, detto volontà di potenza, offriva la prospettiva per emanciparsi dal vincolo dell’eterno ritorno, il cui primo significato allude alla condizione di sofferenza e ipocrisia in cui versiamo. Infernale, direbbero i cattolici, il cui eterno ritorno prende il via dalla mela appena colta.
La volontà di potenza – al di là di quanto affermano in merito i suoi più modesti esegeti – è tratto peculiare di quel tipo di persona che lui chiamava übermensch che, tradotto in oltreuomo, significa di un uomo evoluto rispetto all’attuale e, in superuomo, in uno, che dispone di una forza vitale e creatrice, impossibile all’ultimo uomo, ovvero a colui inconsapevole di ciò che lo ha generato, slegato dalla sua origine, convinto proprietario di se stesso, come delle proprie idee.
Sul sudore e il dolore del piccolo uomo è stata eretta la torre di Babele, in cima alla quale sta la politica aremanica alla quale stiamo assistendo, una specie di convoglio, condotto da pazzi, la cui inerzia, che pare irrefrenabile, ci condurrà necessariamente al deragliamento catastrofico. E che ognuno lo commisuri al proprio gradiente di consapevolezza spirituale.
È del carattere dell’ultimo uomo la ricerca della sicurezza elevata a valore primario. Per la quale è disposto, di buon grado, a versare il massimo tributo. Un atteggiamento che lo porta dritto nel regno dei pusillanimi, sotto la bandiera del buon senso. Parola d’ordine con la quale l’ultimo uomo ritiene di risolvere i misteri del mondo.
Anche il benessere è un suo tratto distintivo. Ma non quello che scende dalle cime delle consapevolezze. Bensì quello acquisibile nelle profondità dei centri commerciali. Un tratto che trascina con sé altri vizi, tra cui quello dell’abbondanza, dell’invidia, dell’avidità. Anche questo una sorta di trenino il cui capolinea è biforcuto: nichilismo e alienazione. Entrambi patologie del progresso materialisticamente inteso. E praticamente presente tanto da sembrare un mare senza rive, in cui, come naufraghi non possiamo che restare aggrappati e difendere, costi quel che costi, il nostro brandello di fasciame.
L’ultimo uomo spicca in tutte le dimensioni dell’egoismo. Preferisce se stesso alla nobiltà che potrebbe indossare. La sua vocazione è la replicazione di qualche modello che la storia di altri piccoli uomini – così anche li chiamava Nietzsche – gli ha offerto.
È una figura, il cui campo d’azione è limitato dai propri desideri e dalle proprie passioni. Giardinetti dai quali stila classifiche, redige categorie, impone il giusto e condanna lo sbagliato. Un’attività che svolge con naturalezza dal suo scranno razionalista. La cui statura, che crede massima, non arriva invece a vederne i limiti, l’autoreferenzialità, l’arbitrarietà, l’assurdità, la violenza, l’abuso, la miseria.
Se il carattere dell’ultimo uomo è replicativo, il suo destino sta nell’affardellarsi di saperi – che chiama progresso –, di dati, per fare la punta sempre più fine alla lancia della sua specializzazione. Un fatto per lui insostituibile e positivo, che lo proietta per la tangente, nello spazio nero, lontano dal centro della vita, della bellezza, dell’unione con il tutto.
Tanto l’übermensch ha ancora da venire, quanto senza il suo avvento resteremo nella tirannia di chi ha la lancia più appuntita.
Lorenzo Merlo
Approfondimenti del Blog
(1)
(2)
La concezione dell’eterno ritorno viene proclamata per la prima volta da un demone ne La gaia scienza del 1882:
«Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!»
Uroboro, il serpente che si morde la coda, simbolo esoterico della ciclicità del tempo. Un chiaro riferimento a questo simbolo è il “serpente” di cui scrive Nietzsche in Così parlò Zarathustra: «Un’aquila volteggiava in larghi circoli per l’aria, ad essa era appeso un serpente, non come una preda, ma come un amico: le stava infatti inanellato al collo» [L’aquila è l’oltreuomo per il quale il tempo come “eterno ritorno” non è un ostacolo alla sua volontà di potenza che domina il tempo. (N.d.R.)][1]