”Può un fiore con un nome tanto meraviglioso: Colchicum nascondere tossine mortali di cui non esistono antidoti e provocare la morte a chi non ne conosce esaurientemente le sue proprietà?
racconto
di
Mirillena Noali
Il mio nome è Enrico Pitigliano. Gestisco con relativo successo un’impresa di pompe funebri, più semplicemente, sono un becchino. La mia professione mi ha portato a conoscere gran parte del panorama sociale. Ho seppellito ricchi, poveri, vip, mafiosi, suore, vecchi, giovani e, purtroppo, bambini. Ho visto centinaia di persone dare l’estremo addio ai loro cari e, più spesso di quanto si possa pensare, ho assistito da solo all’intera funzione. Ho conosciuto i parenti prossimi del defunto in questione e sono stato presente ai loro lutti, confortandoli come potevo e rimandando il tutto alla misericordia di Dio. Intendiamoci, io non sono un picchiapetto, ma nel mio lavoro credere in un’entità superiore dà sollievo. Anche a me. Ma è inutile perdersi in meandri religiosi, adesso, perché ho una storia da raccontare.
Era un giorno di giugno quando conobbi Vittorina Bovolenta. Se “conoscere” sia appropriato. Era stesa sul lettino dell’obitorio, coperta da un lenzuolo. Ad una prima occhiata rimasi attonito di fronte a tanta bellezza. La signora Bovolenta, seppur sulla quarantina (trentasette e quattro mesi per l’esattezza) e con qualche chilo di troppo, era dotata di un’avvenenza non comune. Immaginai come dovesse essere stata dieci anni prima o quindici, anche se il tempo non sembrava essersi accorto di lei. Aveva dei lunghi capelli biondi, naturali, pensai, e un corpo ben proporzionato seppur appesantito. Fu la sua pelle ad attirare subito la mia attenzione perché sembrava di porcellana. Non un neo o una smagliatura in tutto il corpo. Si sarebbe potuta scambiare per una bambola a dimensioni naturali se non fosse stato per il lungo taglio che da sotto la gola fino al pube divideva il suo corpo in due. Suo marito mi aveva fatto avere il vestito per la sepoltura, un abito verde smeraldo con una profonda scollatura e uno spacco lunghissimo che avevo inizialmente considerato un po’ eccessivo per un morto. Cambiai idea non appena glielo misi. Era indubbiamente perfetto addosso a lei. Presenziai con rammarico a quel funerale. Amici e parenti erano numerosissimi e tutti piangevano o si stringevano al marito, Elvio, e ai suoi bambini. Quel pomeriggio mi lasciò una sensazione di amaro in bocca che non seppi spiegarmi e, finito il funerale, me ne andai diretto a casa con sottobraccio una bottiglia di Brandy che tenevo nell’armadietto del mio ufficio.
Non passarono molti giorni che il mio cellulare squillò e quando risposi rimasi sorpreso sentendo la voce del signor Bovolenta. Mi stava invitando per un caffè dopo cena a casa sua, per “ringraziarmi dell’eccellente lavoro che avevo fatto con sua moglie”. Ora, so che questa potrà apparirvi una stranezza ma in realtà mi è capitato a volte di partecipare a cene, buffet e caffè offerti in onore del defunto: ognuno interpreta il lutto a modo suo. Accettai senza pensarci su. Mi ritrovai quindi la sera stessa nel quartiere residenziale della città. Ville nascoste dietro siepi ben curate si affacciavano su vialetti simmetrici e ordinati. Quella dei Bovolenta era l’ultima sulla destra. Il cancello era diverso dagli altri che confinavano con la proprietà: era di ferro battuto, prima di tutto, e non di alluminio e seguiva un andamento ondeggiante fatto di foglie, fiori e spine. Anche il giardino presentava delle differenze con quelli attigui. Era pieno di fiori di ogni colore da una parte e alberi da frutto dai mille colori dall’altra. La siepe che definiva i confini era stata tagliata in modo asimmetrico e nel mezzo del vialetto di accesso ci si imbatteva in un laghetto artificiale. Dopo questa presentazione ero ben curioso di vedere cosa nascondesse l’interno della casa. Suonai il campanello e mi venne ad aprire Davide, il figlio più piccolo, cinque anni. Nonostante il visino delizioso e sporco di cioccolata, i suoi occhi tradivano il dolore enorme che doveva aver sopportato in quei giorni. Per un bambino perdere la mamma è un avvenimento terribile e inspiegabile.
«Chi sei? Sei il beccamorto?» il bambino non usò mezzi termini. Alle sue spalle apparve una donna magra e spettinata che frettolosamente si scusò e mi invitò ad entrare con un sorriso malfermo. Subito Elvio mi venne incontro e mi abbracciò come farebbero dei vecchi amici che non si vedono dal giorno del diploma. Il suo abbraccio fu talmente forte che fui costretto a farglielo notare, al ché lui subito si ritirò scusandosi e asciugandosi le lacrime sul bordo del polsino della camicia nera.
«Mi deve scusare signor Pitigliano. Mi lascio andare troppo spesso, ultimamente. Sa, mia moglie era tutto per me… tutto…io…» si interruppe e nuovamente asciugò le lacrime sul polsino. «Ma venga, si accomodi in salotto. La casa è un po’ affollata ma c’è tanto spazio…venga qui, sul divano. Sono felice che sia venuto, dovevo ringraziarla di persona, il lavoro che ha fatto con Vittorina è stato perfetto. Sembrava una diva con quel vestito e poi il trucco…pareva ancora viva!»
«Beh, non ho fatto un gran lavoro. Mi permetta di dire che sua moglie era così bella che non ho dovuto ritoccare molto» ribattei imbarazzato.
«Sì, era bellissima. Vorrei mostrarle delle foto, se me lo consente. Ma prenda un caffè e qualche pasticcino, prima! Scusi, sono davvero maleducato!»
Presi il mio caffè e mangiai dei deliziosi pasticcini, mentre Elvio si fermava a parlare qui e là con i suoi ospiti. La casa era gremita. C’era lo spazio sufficiente per respirare ma non per sentirsi a proprio agio, almeno non per uno come me, poco abituato ai vivi. Mi allontanai allora sul balcone per fumare una sigaretta, in attesa del momento buono per defilami. Osservavo quel mare colorato che era il giardino dei Bovolenta, quando una signora elegantemente vestita mi si avvicinò.
«Il signor Pitigliano? Sono Nicoletta Berti, la madre di Vittorina» si presentò. «Non abbiamo avuto occasione, al funerale. Bei fiori, vero? In questo giardino ci sono praticamente tutte le specie floreali che hanno la possibilità di sopravvivere con il clima di questa città. Mia figlia amava i fiori. Anzi, mia figlia amava praticamente ogni cosa. Era la donna più appassionata che si potesse trovare al mondo. Le spiace se le faccio un po’ di compagnia?» chiese educatamente. Poi continuò: «Mi mancherà molto.». La signora Nicoletta sedeva pensierosa e per rompere un po’ il ghiaccio le chiesi la prima cosa che mi venne in mente.
«Sua figlia era molto bella. Era una modella?». Rise. No, mi disse, non era mai stata una modella. Ma era stata moltissime altre cose.
Vittorina Berti era nata da una famiglia benestante. Figlia unica, era cresciuta viziata da tutti i parenti e amici più prossimi, complice anche la sua sfrontata bellezza. Sin da piccola, con un solo sguardo riusciva ad incantare chiunque, dal gelataio che le regalava coni senza prenderle mai una lira, alla maestra di scuola che trasformava per magia una sufficienza scarsa in un voto più alto al solo sentir la sua vocina che si lamentava per un mal di pancia tremendo che le aveva impedito di studiare. Anche gli animali erano affascinati dalla sua graziosa personcina e non era difficile vederla attorniata di gatti che, strusciandosi alle sue caviglie, le facevano le fusa. Dal canto suo, Vittorina non sembrava rendersi conto dell’effetto che produceva su persone e animali. Era una ragazza semplice. Non è difficile immaginare che appena crebbe cominciò ad appassionarsi ai vestiti, ai trucchi e alle sfilate di moda. Aveva appena dodici anni quando volle a tutti i costi partecipare ad un concorso di bellezza regionale, vincendolo, ovviamente. A soli sedici anni la sua stanzetta era costellata di fasce, medaglie e trofei conquistati in concorsi di varia natura. Si cimentò svariate volte nel canto, dimostrando per la prima volta la sua pertinacia. Dotata di bellezza ma non di doti canore, non appena se ne rese conto volle cercare di migliorarsi. Tanto fece e tanto pianse che un pomeriggio il padre, esasperato, la lasciò davanti alla scuola di musica, mentre lei lo salutava agitando la mano in aria e sfoderando quel sorriso dal fascino irresistibile. La signorina Adele, la sua maestra di canto, le disse subito che non sarebbe mai stata un’abile cantante, adducendo come scusa qualcosa su un difetto alle sue corde vocali. Ovviamente Vittorina non l’ascoltò e si allenò talmente tanto che dopo poco tempo anche la signora Adele dovette ricredersi: stava imparando a cantare, e molto velocemente, per giunta! Un miracolo, decretò. Dopo tre mesi di prove continue Vittorina adocchiò un concorso per dilettanti che si svolgeva poco lontano da lì. Non era certo Sanremo ma molte televisioni locali avrebbero trasmesso l’evento. Si iscrisse senza indugio con lo pseudonimo di Alyna. Quella sera Alyna ricevette una standing ovation oltre a un premio in denaro e alla possibilità di incidere un singolo con una famosa casa discografica. Vittorina si beò della sua vittoria, ma il suo interesse per il canto stava già scomparendo e non incise alcun disco. Tornò invece ad occuparsi dei suoi vestiti.
Come ho già detto il suo corpo era bellissimo, longilineo, aggraziato. Voleva metterlo in evidenza più possibile senza sembrare volgare, ma gli abiti di moda a quel tempo le sembravano tutti uguali, sformati e imperfetti. Un giorno si stava provando alcuni jeans davanti allo specchio ed ebbe l’idea di personalizzarli un po’. Prese quindi le forbici e li “ritoccò” in alcuni punti. Venne fuori un vero disastro. I jeans ormai erano da buttare e sua madre era al colmo del furore. Le disse, senza mezzi termini, che da quel momento avrebbe dovuto pagare da sé i suoi vestiti. Vittorina ebbe un’idea migliore. Spolverò alcuni vecchi libri di cucito di sua madre e si fece regalare qualche scampolo dalla merceria in centro. Iniziò così a cucire dapprima solo qualche fazzoletto e poi passò a lavori più complessi, grazie anche all’aiuto di una Singer comprata a buon mercato dal rigattiere. Non aveva ancora completato un abito, che già ne aveva in mente un altro e ricominciava a cucire. I suoi non erano capolavori, anche perché i prezzi delle stoffe più pregiate erano molto alti e siccome sua madre non aveva cambiato idea riguardo al proposito di farla lavorare, Vittorina decise che si sarebbe fatta assumere da un atelier della zona.
La porta si aprì, catapultando istantaneamente la ragazza nel favoloso mondo della moda. Il proprietario e designer era il famoso Federico Verro. Al tempo curava i guardaroba delle persone più facoltose della città e tra i suoi clienti annoverava spesso anche qualche celebrità. Lì Vittorina imparò le tecniche più raffinate del cucito e lavorò tessuti che solo in sogno poteva immaginare. L’iniziativa come si può pensare non le mancò e disegnò lei stessa alcuni abiti che poi, la sera, quando le porte dell’atelier si chiudevano, aveva il permesso di cucire utilizzando gli avanzi delle bellissime stoffe che Federico ordinava. Contrariamente a quanto si può pensare, la ragazza non creò mai invidie tra le sue colleghe. Le bastava sfoderare quel suo sorriso inconsciamente ammaliante che tutti le perdonavano tutto.
Trascorse quasi due anni a lavorare lì. Nel frattempo aveva creato una sua piccola collezione di abiti e lingerie di alta classe che Federico non smetteva mai di lodare. Ma non era una vera stilista, così le propose di studiare per qualificarsi. Poteva avere un futuro. Vittorina però aveva adocchiato ormai da qualche tempo, in un angolo del suo studio, il disegno di un abito da sposa. Era una delle creazioni più belle e innovative del giovane designer e la ragazza ne rimase abbagliata. Fu quella sera che comunicò a suo padre la decisione di sposarsi. Quando lui chiese, stupito e un po’ impaurito, con chi aveva intenzione di convolare a nozze, Vittorina rispose:
«Non saprei. Di certo con un bravo ragazzo.»
Iniziò così la caccia al marito perfetto. Essendo una delle ragazze più attraenti della città e forse dell’intera regione, Vittorina non aveva mai avuto problemi a trovare un accompagnatore per le feste o per vedere un film al cinema. Ma non aveva lasciato spazio a storie importanti, spezzando così decine di cuori. Per il suo progetto di matrimonio quindi si impegnò moltissimo e arrivò a stilare una lista dei requisiti che il futuro sposo avrebbe dovuto avere: intelligenza, dolcezza, eleganza e così via. Furono mesi divertenti anche per sua madre che aiutava la figlia nella scelta, scrutando da dietro una tenda il malcapitato di turno che aveva il compito di riportarla a casa.
«È troppo brutto!» diceva la signora Nicoletta, oppure
«È alto come una sequoia!». Ma Vittorina non badava all’aspetto fisico. Era una ragazza semplice, come ho detto. Capitò un giorno all’atelier Verri, per la prova di un completo in gessato, Elvio Bovolenta, industriale, scapolo e anche belloccio. Come accadde non si sa, ma Vittorina capì subito che era quello giusto e se ne innamorò perdutamente. Dopo sole tre settimane di corteggiamenti Elvio si presentò a casa Berti con un solitario grosso come un pistacchio e la chiese in moglie. La signora Nicoletta tirò un sospiro di sollievo a quella notizia avendo in cuor suo temuto, un po’ come tutte le madri, che la figlia potesse finire in cattive mani, per così dire.
Era tempo di preparare ogni dettaglio per la cerimonia e per la casa. Vittorina dedicò anima e corpo a organizzare il banchetto e a scegliere fiori e bomboniere. Il lavoro era molto, ma la ragazza non si intimorì. Passava a vedere ogni casa dai patinati cataloghi delle agenzie, valutandone attentamente pregi e difetti. Poteva parlare per ore al telefono con un arredatore svedese che proprio non riusciva a capire cosa lei intendesse per “tavolo in arte povera”. Discuteva sommessamente con il parroco della chiesa per cercare di fargli cambiare idea sulla musica da suonare durante la cerimonia. Ma tutto quel darsi da fare non si notava mai sul suo viso, sempre splendente e fresco. Il lavoro infine dette i suoi frutti: il matrimonio tra Vittorina Berti e Elvio Bovolenta fu uno dei più belli e appariscenti tra quelli che la città ricorda ancora oggi. Il vestito da sposa e quello dei testimoni furono interamente realizzati dall’atelier Verri sotto la stretta supervisione della futura sposa e questo aggiunse il tocco di eleganza finale. Il signor Berti, stretto nel suo doppiopetto blu, piangeva come un bambino quando lasciò il braccio della figlia all’altare. Ai festeggiamenti si imbucarono addirittura fotografi di quotidiani nazionali di gossip, convinti che tanto sfarzo fosse opera dell’estro di una stellina nascente del cinema.
A questo punto del racconto la signora Berti rivolse lo sguardo all’interno della casa e osservò con gli occhi umidi i nipotini e il genero abbracciati sul divano discutere con il medico di famiglia, il dottor Sonato. Lo avevo conosciuto al funerale e mi era parso estremamente commosso per la precoce dipartita della signora Bovolenta. La signora Nicoletta si scusò con me dicendomi che doveva rientrare e che era stato un piacere parlare con me. La guardai allontanarsi con passi rapidi e prendere posto sul divano, accanto a Gioia, la figlia maggiore dei Bovolenta. Non ve lo nego, il racconto della signora Berti aveva lasciato un pizzicorino nel mio animo. Ero curioso di sapere di più. Nel frattempo l’interno della casa si stava lentamente svuotando. Osservai sfilare gruppetti di persone con i soprabiti sottobraccio intenti a salutare Elvio e la signora Nicoletta e baciare sulla fronte i piccoli Davide e Gioia. Riuscii a scorgere solo allora un po’ dell’arredamento della casa, finora ostruito alla mia vista dalla folla.
Ogni pezzo differiva dall’altro, ma si accostavano con molta armonia. Notai un finto barocco e, di fianco, un dondolo in vimini. Dalla parte opposta una credenza moderna si trovava vicina ad una pendola in stile settecento. I tappeti erano l’uno persiano e l’altro certamente peruviano. Di fronte al divano minimale c’era un tavolino basso, in stile giapponese, sul quale poggiava un vaso di vetro di Murano. Elvio in quel momento mi vide e si sbracciò, invitandomi a entrare. Mi accomodai quindi accanto a lui e presi l’album fotografico che mi stava porgendo.
«Le voglio far vedere alcune foto. Questi sono i ricordi più belli che ho di lei.» mi spiegò aprendolo alla prima pagina. L’album cominciava con le foto del loro matrimonio. La mia immaginazione non aveva sbagliato poi molto, pensai osservandole. Elvio puntò poi il dito su una foto un po’ sbiadita in terza pagina: si vedeva Vittorina elegantemente vestita con un abito anni cinquanta, di quelli con i pois grossi, e un grembiule ricamato con la scritta “La moglie perfetta”. «Quel grembiule è stato un regalo scherzoso che le ho fatto tornando a casa dalla luna di miele. Era incantevole, vero? Anche lei mi aveva preso in giro indossando quel vestito. Giocavamo molto, sa? Era molto spiritosa e piena di vita, la mia Vittorina.»
Elvio pronunziò un lungo elogio sulle innumerevoli qualità della defunta moglie. Mi raccontò poi dei primi mesi di matrimonio. Vittorina adorava curare la casa e imparò molto in fretta a cucinare i piatti preferiti di Elvio, tenendo un calendario dei cibi che doveva cucinare nell’arco della settimana per variare la sua dieta.
«Una dieta varia è alla base della salute e io voglio che tu sia il marito più sano del mondo!» era solita ripetere. Inamidava e stirava le camicie del marito in modo perfetto e poi, altrettanto perfettamente, le riponeva nel suo armadio, separando le chiare dalle scure. Non un granello di polvere riusciva a posarsi sui mobili o sulle mensole. Quotidianamente batteva tappeti, disinfettava bagni e stendeva biancheria con un’eccellenza tale da far invidia a Martha Stewart. Nonostante tutto questo, il tempo a sua disposizione rimaneva per lei illimitato. Il marito era a casa solo la sera e, si sa, quando si vive in due in una casa non c’è poi molto da fare. Non voleva ricominciare a lavorare, vuoi perché le entrate del marito erano considerevoli e più che sufficienti per far vivere agiatamente una squadra di calcio, vuoi perché il lavoro non rientrava nella sua idea di matrimonio. Per passare il tempo cominciò a noleggiare alcune videocassette. Dapprima si appassionò ai grandi classici americani. Parlava per ore al marito di quanto fosse straordinario Gregory Peck in “Le chiavi del paradiso” o “Io ti salverò”. Poi cominciò a noleggiare film di produzione francese, per approdare infine al cinema giapponese. Fu guardando per la terza volta “L’estate di Kikujiro” di Takeshi Kitano che scoprì di essersi innamorata del Giappone. Per prima cosa volle comprare quel tavolo che vi ho descritto poco fa e che adesso ospitava la mia seconda tazza di caffè. Poi si procurò decine di libri sulla cultura, la storia e l’arte del paese del Sol Levante. Particolarmente la entusiasmò la cerimonia del tè tanto che volle allestire a tal fine un padiglione esterno, che i giapponesi chiamano “Chashitsu”, e personalmente ne curò i dettagli sia interni che esterni.
Va da sé che la meditazione Zen e il sushi entrarono a far parte della vita dei signori Bovolenta. Vittorina progettò e cucì addirittura un kimono, ordinando le stoffe direttamente da Tokio. Si iscrisse persino ad un corso di lingua giapponese. Aveva appena imparato i saluti formali e informali quando scoprì di essere incinta.
La gravidanza donò moltissimo alla futura mammina. Il suo viso pareva più luminoso e le forme si ammorbidirono. Cominciò, però, ad accusare alcuni malesseri tipici dei primi mesi di gestazione. Mentre Elvio trottava per casa come un cavallino alla sua prima uscita, ricoprendola di regali, Vittorina cominciò ad incupirsi. Elvio ricorda quel periodo come il più triste del loro rapporto. Si sentiva sola e incompresa. Aveva la nausea la mattina e non riusciva a dormire bene la notte. Anche la signora Nicoletta cominciò ad impensierirsi tanto che costrinse la figlia ad iscriversi ad un corso di yoga pre-maman, che due volte a settimana la obbligava a mettere il naso fuori di casa. La gravidanza comunque procedeva bene e il corso di yoga fece letteralmente miracoli, non tanto per le strane posizioni che ormai Elvio vedeva assumere alla moglie sul tappeto accanto al letto prima di dormire, tanto perché Vittorina conobbe altre donne nelle sue stesse condizioni. Questo per lei fu un fatto determinante.
Invitava decine di future mamme nella sua splendida villa, offriva tisane al finocchio o di tiglio e preparava piccoli snacks di verdure fresche e frutta. Discutevano sul modo migliore per evitare le nausee mattutine, sul sesso in gravidanza, sul nome del nascituro; oppure si pesavano, confrontando i vari risultati, o facevano gli esercizi per la respirazione. Vittorina cominciò in seguito ad invitare anche il dottor Sonato a queste riunioni, il quale fu felice di presenziarvi, dando piccoli consigli medici in cambio dei dolcetti e del caffè che la donna preparava apposta per lui. Fu il dottore a consigliare a Vittorina di aprire un centro per le donne in stato interessante. Al tempo non esistevano i vari blog che trattano dell’argomento e che oggi affollano il web, e in città l’iniziativa fu presa con entusiasmo. Vittorina riuscì a farsi affittare una vecchia palestra (il suo sorriso aveva effetto più che mai anche allora) e chiese ed ottenne dal comune le sovvenzioni di cui aveva bisogno per ristrutturarla. Il centro, che lei chiamò “Ambarabaciccicoccó”, aveva lo scopo di riunire le donne incinta e le neo mamme fornendo sevizi medici (ginecologo, ostetrica, pediatra, psicologo) o semplicemente un luogo dove incontrarsi, confrontarsi e discutere dei propri dubbi riguardo la gravidanza e il bambino. Il tutto ovviamente in modo gratuito. Riuscì ad inserirsi in un’associazione a scopo benefico che le permise di creare una sede proprio nel suo centro. Chiese al dottor Sonato di diventarne presidente e questi accettò, commosso e onorato. Il giorno dell’inaugurazione Vittorina fece appena in tempo a tagliare il nastro e farsi scattare una foto davanti al colorato ingresso, che Elvio dovette correre in mezzo al traffico di mezzogiorno, per far sì che Gioia nascesse in ospedale invece che sulla poltroncina posteriore del suo station wagon.
Notai la foto che il neo papà aveva scattato a solo poche ore dal parto. Sotto, una semplice didascalia: “Vittorina & Gioia, 3 Ottobre”. Mi ricordai di aver scattato una foto simile quando aveva partorito mia sorella e rammento bene le sue occhiaie violacee e lo sguardo perso dovuto agli analgesici. Vittorina invece era perfetta: guance rosee, sorriso brillante, capelli perfetti. Avrebbe fatto rabbia a qualunque altra donna. In braccio teneva la piccola, che già mostrava il faccino fascinoso all’obiettivo. La loro stanza d’ospedale fu letteralmente ricoperta di fiori e piante di ogni genere e colore, doni quotidiani di amici e parenti, tanto che un’infermiera di turno vietò che gliene regalassero altri.
Circondata da tutto quell’affetto e bellezza Vittorina cominciò ad amare i fiori e decise che avrebbe portato anche nel suo giardino la grazia floreale. Così l’inizio del lavoro di mamma coincise con la nuova passione per il giardinaggio. Se da una parte non mancava di organizzare compleanni meravigliosi per Gioia o non dimenticava una visita pediatrica o un vaccino, dall’altra ordinava fiori dall’Olanda e li piantava con cura. Anche le piante sembravano subire il fascino di Vittorina e crebbero rigogliose in tutto il giardino. Acquistò anche diversi alberi da frutto e ricevette in omaggio un laghetto da giardino in vetroresina (aveva speso per curare il giardino quasi la stessa cifra che era servita per arredare l’intera casa!), che decise di sistemare nel mezzo del vialetto per poterlo vedere ogni volta che entrava e usciva di casa. La sua vita proseguì spensierata per diversi anni. Curava la casa, accudiva figlia e marito, si rilassava nel suo giardino e spesso si recava al centro che aveva contribuito a creare. Si appassionò a diverse cose contemporaneamente tra cui l’arte contemporanea, il decupage, l’uncinetto, il restauro di mobili antichi e i lavori in ferro battuto. Aveva appena cominciato un corso serale di Karate che scoprì di essere rimasta incinta per la seconda volta e dovette rinunciare. La seconda gravidanza fu diversa dalla prima, come accade quasi sempre. Vittorina aveva una fame da lupi praticamente ad ogni attimo della giornata e le sue voglie erano talmente bizzarre (ma mai disgustose) che Elvio si ritrovò spesso in giro per supermercati cercando quel frutto particolare o quel formaggio francese che non si trova più. Si sentiva inoltre molto stanca e abbandonò molti dei suoi hobbies rifugiandosi spesso davanti alla televisione. Guardava in particolar modo alcuni canali di cucina della pay tv e, contrariamente a quanto mai fatto prima d’allora, cominciò a seguirne uno show dove gente comune veniva invitata a cucinare piatti innovativi che venivano poi giudicati e premiati da un team di esperti. Provava tutte le ricette che venivano proposte e ne inventava di nuove. Ma le sue papille gustative non volevano collaborare distinguendo i sapori (inconvenienti della gravidanza, si dice), così spesso creava dei guazzabugli al limite del commestibile. Dopo pochi mesi nacque Davide, un bambino bellissimo e sano.
La passione per la cucina in Vittorina crebbe sempre più e non erano rare le occasioni in cui a cena Elvio e i figli fossero costretti ad assaggiare più manicaretti per volta giudicandone la bontà con carta e penna. Alla fine, dopo alcuni mesi di preparazione Vittorina si decise a partecipare allo Show inviando la ricetta delle “Lasagnette al pesto di carciofi”, decorate con finocchietto selvatico. Fu un successo vero e proprio: la puntata ebbe uno share da record anche perché Vittorina, seppur già rotondetta, bucava lo schermo, come si dice. La conduttrice la invitò a tornare e in poco tempo le fu assegnato un piccolo spazio all’interno del programma, dove presentava passo passo alcune ricette classiche o della nouvelle cuisine. Adorata dai telespettatori, riuscì piano piano a introdurre nello spazietto a lei riservato, che nel frattempo prese lo spazio di gran parte della trasmissione principale, anche alcune ricette di sua creazione. A casa Vittorina era spesso ai fornelli, non trascurando comunque mai la sua famiglia, che metteva sempre in cima alla lista delle priorità.
La mattina in cui morì, Elvio si svegliò presto. Scese in cucina dove la colazione a base di torta fresca e caffè già lo aspettava. Vittorina lo baciò e gli chiese se poteva andare a prendere lui i ragazzi a scuola quel giorno: doveva provare una nuova ricetta per il programma del giorno successivo e le sarebbe piaciuto farlo con calma. Aveva in mente di realizzare una ricetta strepitosa, che avrebbero assaggiato tutti insieme quel giorno a pranzo. Elvio acconsentì senza problemi e uscì di casa. Dopo aver accompagnato i bambini allo scuolabus, Vittorina indossò il suo grembiule “La moglie perfetta” e iniziò a cucinare. Dapprima fece due o tre tentativi con ingredienti esotici, poi, insoddisfatta, puntò su un risotto. Sfogliò freneticamente i quaderni dove annotava le ricette che più la colpivano, in cerca della giusta ispirazione e si soffermò sul “Risotto con petali di rosa”. Ricordava di aver cucinato quel piatto durante il suo show e di averlo trovato sublime, così volle elaborare una variazione sul tema. Il suo giardino traboccava di fiori e ne scelse un mazzetto variopinto che lavò con cura e sistemò sul piano di lavoro. Dopo un’attenta osservazione, ne scelse un tipo e iniziò a darsi da fare. A mezzogiorno e mezzo tutto era pronto: la tavola era elegantemente apparecchiata, il risotto emanava un buon profumo e a Vittorina non restò che aspettare il resto della sua famiglia. Attese per dieci minuti chiedendosi il perché di quel ritardo; sapeva che Elvio era un uomo molto puntuale. Passarono altri cinque minuti. Vittorina decise di telefonare al marito per sapere dove si trovasse ma alzandosi si accorse che il risotto aveva davvero un profumo invitante e lei era affamatissima. Scelse un cucchiaio dal cassetto delle posate e lo assaggiò. Era delizioso! Ne prese altri due cucchiai poi si sentì in colpa: voleva aspettare l’arrivo dei tre e giudicare il piatto insieme a loro come sempre, così si avviò in soggiorno per prendere il cordless.
Non arrivò mai al soggiorno. Dopo due passi rovinò a terra in preda alle convulsioni. Il telefono squillò, ma ormai era troppo tardi: nonostante i suoi sforzi Vittorina non riuscì a raggiungerlo. Elvio mi disse che se solo avesse telefonato cinque minuti prima o non avesse trovato quell’ingorgo in centro, forse… Già, forse. Quell’ingorgo fu la salvezza del resto della famiglia Bovolenta. Il medico legale non ebbe dubbi sulla causa della morte: avvelenamento da colchicina, una sostanza contenuta in un fiore noto come Colchichio o Colchicum. Nessuno, per prima sua madre, seppe spiegarsi il perché Vittorina avesse scelto quel particolare fiore. Ci fu anche una mini inchiesta tesa a cercare di capire se potesse trattarsi di omicidio-suicidio, ma poi il caso fu archiviato come “morte accidentale”.
Quando Elvio fini il suo racconto la casa ormai si era svuotata. I bambini dormivano già nei loro letti e tutti gli ospiti se ne erano andati via. Silenziosamente presi il mio soprabito e silenziosamente uscii, lasciando Elvio al suo lutto privato. Non rividi mai più nessuno della famiglia Bovolenta, ma ancora oggi, dopo quattro anni, mi ritrovo spesso a passeggiare nel cimitero e a prendere inconsapevolmente il viottolo che porta alla tomba di Vittorina. E a lasciarvi un fiore di Colchichio.
Pinuccia
4 Febbraio 2020 a 5:45
Ma che racconto carino mi è piaciuto una lettura leggera ma scritta in maniera deliziosa
Riccardo Alberto Quattrini
4 Febbraio 2020 a 12:04
Grazie signora Pinuccia. Il suo commento è piaciuto molto all’autrice.