”“Nella Pianura Padana i personaggi sono ignari di tag, selfie, troll e spam: emergono da un Novecento maturo, ancora legato ai fenomeni” . Un’esistenza multipla e senza le pagine pari.
Il romanzo di fa ruotare intorno al protagonista pettegolezzi, riflessioni intermittenti, buchi vuoti: il lettore è accompagnato ad assistere alla deriva del racconto stesso, in un gioco di specchi. Perché così è la vita…
(Chiara Fenoglio da La Lettura)
La trama del romanzo.
La vita dispari: La pirotecnica, profonda ed esilarante parabola umana di un ragazzino che vede solo una metà del mondo, destinato a diventare un adulto che vive solo a metà. E se metà fosse meglio di tutto? Paolo Colagrande compie un prodigio, perché in queste pagine – dove Gianni Celati incontra Woody Allen – il godimento vivissimo di una scrittura straordinaria va a braccetto con un’allegria contagiosa.
La «vita dispari» è quella che – ridendo di noi stessi – conduciamo tutti noi a qualsiasi età quando tentiamo di indovinare la parte mancante delle cose |
Buttarelli legge il mondo come un libro a cui mancano le pagine pari o, se ci sono, rimangono indecifrabili. La sua vita, oscurata per metà e ristretta nello spazio elementare di una stanza e di una strada, è un tragicomico susseguirsi di inciampi e di intuizioni, di vessazioni e di casualità. Quando Buttarelli scompare – e intorno alla sua figura si crea un alone di mistero – non resta che raccogliere, per tentare di fare un po’ di chiarezza o forse per aumentare la confusione, la testimonianza del suo amico nullafacente Gualtieri. Tutti morti da almeno 15 anni, i protagonisti sono personaggi “zero punto zero”. Colagrande si impunta e si incrina. Infatti l’intero impianto è centrato sull’incerta apparizione di Buttarelli sull’autobus numero 12 in un momento che le cronache paesane riferiscono successivo alla sua morte presunta di almeno tre quarti d’ora. La vita dispari è dunque una ironica e divertente interrogazione sul mistero e sulla impossibile ricostruzione di un destino. E in effetti a certificare questa improbabile richiesta è il perentorio “No” che suggella l’opera stessa.
Ecco che allora si snoda una trama di malintesi e incastri rovinosi, sempre all’insegna del paradosso: la silenziosa guerra con la preside Maribèl, la passione per Eustrella, il fidanzamento simultaneo con otto – otto – compagne di scuola, gli strambi insegnamenti esistenziali impartitigli dal padre putativo, il matrimonio con Ciarma, l’infatuazione per una certa Berengaria. «Buttarelli provava a fare quello che vedeva fare agli altri, con enorme fatica. A volte riusciva a reggere la parte per un tratto breve, ma era come se a un certo punto si ritrovasse nel fitto di un bosco senza più il sentiero tracciato, e allora era più prudente tornare indietro». Il mondo, visto dagli occhi di Paolo Colagrande, è un posto in cui l’uomo è stato messo per sbaglio. O per far ridere qualcuno che, di nascosto e da lontano, lo sta osservando.
Come inizia.
Si ha sempre una seconda patria dove tutto quello che si fa è innocente.
MUSIL
Parte prima
La storia di Buttarelli sbanda un po’ nel finale e questo non per colpa mia. Cerco solo di mettere i fatti in processione con qualche sentimento e un po’ di carne sulle ossa, ma il problema sono le fonti: quella principale è Gualtieri, mio zio Vilmer Gualtieri detto Gualtieri, e già non è una bella partenza.
Gualtieri, come può confermare chi lo ha conosciuto di persona, raccontava le cose per intermittenze e ricadute, per così dire, con un andamento centrifugo che disperdeva il discorso in tanti temi satellite, magari interessanti, ma di poca economia d’insieme. Se è lui la fonte principale, come ho appena detto, non è per mia scelta, ma per la sua amicizia stretta con Buttarelli, di cui stiamo per parlare, e con Venanzio e Isaia Landemberger, titolari dell’omonima privativa di sali tabacchi e valori bollati in strada Furio Muratori, che terremo come fonte subalterna. Fra loro a dir la verità c’era più di un’amicizia stretta, diciamo che c’era comunione di ideologie e prospettive: si trovavano tutti i giorni dopo pranzo alla pubblica mescita Enterprise a bere l’Angers e scambiare riflessioni ad ampia visuale fino alle quattro di pomeriggio, quando Isaia andava a dare il cambio a Venanzio e Gualtieri restava fuori dal negozio a guardare il fluire del tempo e del transito e a fumare le Regal Macedonian alla menta svizzera, ritirate dal commercio per motivi sanitari ma che i Landemberger tenevano nascoste in magazzino per vendergliele a un prezzo da amico fino a esaurimento scorte. Il transito sulla strada Furio Muratori non presenta motivi di interesse e non ne presentava neanche ai tempi: è un senso unico di area sottourbana con traffico in accelerata ostile fra due semafori sincroni e due bande di marciapiede dove la gente cammina in fretta e senza sentimento. Ma per mio zio Vilmer, continuando questa parentesi che adesso poi giuro chiudo subito, il fermarsi fuori dalla Tabaccheria Fratelli Landemberger a guardare il fluire del tempo e del transito con una Regal Macedonian appesa all’angolo della bocca in posa ruffiana, era solo il retaggio di vecchie abitudini che risalivano a quando abitava ancora con mia nonna, cioè sua madre, qui a pochi chilometri in frazione Cavaliere, e passava i pomeriggi seduto sotto il portico del bar Nautilus a guardare il passaggio e magari parlare con qualcuno che aveva voglia di fermarsi, soprattutto uomini, per comunanza di argomenti e fluidità di conversazione, ma capitava ogni tanto che si fermasse anche qualche donna. E a proposito di donne mio zio Vilmer aveva poi sposato la Solimana Pescarolo, caposala al nosocomio Santa Redenta, diventata mia zia Solimana per legge di matrimonio, piú vecchia di cinque anni ma morta dieci anni dopo di lui, come spesso succede, sempre per legge di matrimonio.
Forse non l’ho ancora detto, ma Gualtieri è già morto da una quindicina d’anni, qualche giorno dopo l’esaurimento scorte delle Regal Macedonian; una coincidenza che lascerei come dato di cronaca, senza voler stabilire nessi causali.
Gualtieri e zia Solimana avevano avuto tre figli, oggi in buona posizione di impiego e che ai tempi frequentavano scuole tecniche commerciali di alta reputazione: Gualtieri diceva con orgoglio che dalla madre avevano preso il profilo culturale e da lui l’estro economico. E su questa frase possiamo chiudere la parentesi su mio zio Vilmer detto Gualtieri, non prima di aver detto che quando non era all’Enterprise a bere l’Angers o sul marciapiede di strada Furio Muratori a fumare le Regal Macedonian, girava per la città sull’Innocenti giardinetta color azzurro concordia, con una decina di scatole nel vano bagagli. Cosa ci fosse dentro non si sa, se glielo chiedevi ti rispondeva con ragionamenti ermetici, pieni di lessico mercantile e dottrine aziendali, che lasciava poi a metà perché diceva che bisognava essere del ramo. Sostiene il barista dell’Enterprise che dentro le scatole c’era quello che faceva lui tutto il giorno, cioè niente. Col passar degli anni e l’esposizione alla luce dei finestrini le scatole avevano preso un colore indeciso, e quando Vilmer è morto son state vendute al mitragliere insieme all’Innocenti giardinetta, per una cifra a forfait che la zia Solimana non aveva neanche voluto. Bisognerebbe quindi chiedere al mitragliere, cosa c’era dentro le scatole, ma si son persi i contatti e del resto forse aveva ragione il barista.
Il mitragliere è il rottamaio, si poteva capire dal contesto ma è sempre meglio spiegarsi. Non so perché lo chiamano mitragliere.
A ogni modo, per dare un senso di chiusura al discorso, mia nonna diceva che Vilmer era meglio annegarlo da piccolo, nel senso che l’umanità poteva far senza di lui in quanto inutile alla natura e alla collettività. La natura e la collettività sono mie aggiunte apocrife che servono a evocare il senso di un’epoca coi suoi stereotipi culturali; infatti mia nonna non nominava né l’una né l’altra, diceva solo che Vilmer era meglio annegarlo da piccolo. Anche i parenti e i conoscenti più intimi quando capitava che ne parlassero tra loro dicevano la stessa cosa, e hanno continuato a dirlo quando ormai era morto; quindi il concetto dell’annegamento diventava pleonastico, sia per la natura che per la collettività.
I Landemberger invece erano liberi di stato e abitavano sopra il negozio, due numeri dispari dopo l’Enterprise in una casa con sentore di cimitero dove loro facevano la parte dei morti, seppelliti insieme ai soldi accumulati in anni di parsimonia; e anche queste sono parole del barista. Molti di quei soldi sono stati trovati di recente, per caso, impacchettati in confezioni di sigari Jacksonville murate dietro le piastrelle della cucina. Del resto la privativa anche se un po’ anacronistica rendeva molto contante, grazie allo zoccolo duro dei tabacchi e dei valori bollati ma soprattutto del totocalcio e della lotteria, che nelle culture massimaliste dell’epoca incontravano il favore degli operatori finanziari.
I Landemberger non avevano né figli né parenti discendenti o ascendenti né fratelli o cugini né niente, e quindi i soldi arrotolati dentro le scatole di Jacksonville si spiegano solo come espressione del demone del contante e da un punto di vista macroeconomico come contributo al ristagno della crescita nell’economia reale, un tema trattato molte volte all’Enterprise partendo proprio dall’esempio dei Landemberger.
Sono morti anche loro, all’unisono, qualche mese dopo Gualtieri, in una caliginosa notte d’inverno, detto in forma letteraria, vittime delle scorie mortali di una caldaia mai messa in regola per ragioni di economia, quindi sarebbe piú corretto dire vittime del demone del risparmio, che è un ente derivato di quel demone del contante che abitava in tutti e due, infatti per questo son morti all’unisono, come aveva certificato il dottore dopo aver visitato i cadaveri trovati nei rispettivi letti in tradizionale postura da asfissia tossica.
E nel mesto riverbero di queste parole pesanti come pietre possiamo chiudere la parentesi anche sui Landemberger, non prima di aver puntualizzato che il barista dell’Enterprise non li chiamava quasi mai Landemberger: li chiamava Fosforo, senza distinguere Isaia da Venanzio, come fossero un sol uomo anche se non si somigliavano né fisicamente né di carattere. Erano fratelli gemelli dizigotici, non so se l’ho già detto, mi pare di no per via che nella scalmana del racconto le cose importanti alle volte sfuggono. Di conseguenza anche i clienti dell’Enterprise li chiamavano Fosforo, e col passaparola tutto il quartiere poco alla volta li chiamava Fosforo, perfino i forestieri di passaggio che dopo aver preso il caffè chiedevano al barista se vendeva le sigarette e lui rispondeva di no ma consigliava di andarle a comprare due numeri più avanti da Fosforo, che di solito era Venanzio perché Isaia nove volte su dieci era lí presente a bere l’Angers con Gualtieri.
Per dire che capiterà d’ora in avanti di chiamarli Fosforo. Il soprannome racchiude un destino, come spesso succede, e volendo approfondirne il senso si può pensare che il fosforo è una sostanza che diventa velenosa oltre una certa misura; oppure che il fosforo è una sostanza che produce effetto di luminescenza e sviluppa l’intuizione, e qui secondo me si affaccia del sarcasmo.
Quell’angolo di sobborgo mediopolitano che ha come cardine la strada Furio Muratori all’altezza della privativa Landemberger e della pubblica mescita Enterprise potrebbe essere la sintesi topografica della storia che adesso raccontiamo. Diciamo il proscenio virtuale che poi, tradotto in spazio fisico calpestabile, in una scala appena appena più piccola, riuscirebbe a stare davvero dentro un normale teatro di commedia, con le scene, le luci, i quadri e le quinte, dove però gli attori recitano sempre un po’ la stessa parte.
Chi non ci crede può venire a controllare.
Colpiamo la prima.
Partirei da un momento preciso, come fosse uno sparo, o una crepa che si apre pornograficamente sul soffitto dove puoi sbirciare le stelle del caos: quel giovedì pomeriggio, giorno di chiusura della privativa Landemberger, quando Isaia detto Fosforo, bevuto l’Angers e lasciato Gualtieri in strada a fumare le Regal Macedonian, sale sul dodici alla fermata Furio Muratori con l’idea di andare in centro città per disbrighi.
E per mettere meglio a fuoco dobbiamo provare a immaginare Isaia Landemberger già seduto comodo sul bus con il cappello in testa e lo sguardo spento nel vetro del finestrino, che all’improvviso sente una voce familiare salire da un brusio di conversazione, e prima ancora di mettere le cose in sequenza vede riflessa di traverso nel vetro la figura di Buttarelli. Ma non gli arriva come una visione esplicita, come si potrebbe pensare se si considera il contesto scenografico inter no-giorno del dodici in marcia verso il centro città: gli arriva, diceva Fosforo, soffocata nel buio della catastrofe.
Raccontava Fosforo che, seduto dottrinale su un sedile di coda, Buttarelli tirava fuori con premura da una tasca un quaderno dove scriveva qualcosa, poi lo rimetteva in tasca e con la stessa premura ne tirava fuori un secondo dall’altra tasca e ricominciava a scrivere per rimetterlo in tasca e ritirare fuori il primo e via discorrendo, e tutto questo mentre diceva ad alta voce cose che avevano solo la posa di parole ma che tutte insieme non formavano un discorso. In certi momenti sembravano parole dette alla rovescia, o in una lingua straniera dove a volte ti sembra di sentire dei suoni conosciuti, e il tono di voce era quello della risposta, come se qualcuno gli facesse in segreto delle domande.
Nello smarrimento di questa visione, accentuato dagli alti e bassi della cantilena a loro volta accentuati dalle scosse di marcia e frenata del dodici, Fosforo si era alzato, aveva chiesto permesso e gli era andato vicino: l’aveva guardato meglio in faccia per sicurezza, l’aveva salutato per nome, cioè per cognome, cercando la maniera piú naturale con cui si salutano di solito gli uomini fra di loro, complici e scanzonati. Ma Buttarelli non aveva risposto, aveva solo alzato la testa, accelerando lo sproloquio a una velocità che se invece di uno sproloquio fosse stato un discorso coerente neanche una persona di pronto intuito sarebbe riuscita a seguirlo, e non si può dire che Fosforo fosse una persona di pronto intuito.
Buttarelli, raccontava Fosforo, aveva la faccia impregnata di fatalità, chissà cosa vuol dire. Avrebbe potuto dire che aveva una faccia segnata dal tempo o dalla vecchiaia, ma Buttarelli non era vecchio almeno nel senso dell’età convenzionale; insomma Fosforo voleva spiegare qualcosa ma non sapeva bene come e da dove partire, perché era difficile cogliere i particolari dell’insieme: c’era solo l’insieme, come impasto di suoni e cellule in movimento, da cui però si staccava ogni tanto una frase, che invece si capiva, sempre la stessa:
COLPIAMO LA PRIMA E BEN PRESTO CADRÀ ANCHE L’ULTIMA.
Cosa volesse dire non si sa, ammesso che volesse dir qualcosa o non fosse uno scarto di frase incollata sul vaniloquio. La prima impressione che ne aveva tratta Fosforo, in mezzo all’imbarazzo dei passeggeri del dodici, era di aver davanti una persona disturbata, e fin qui sai che bella scoperta. La seconda impressione era piú profetica-escatologica: il sentore acido di una disgrazia che stava per consumarsi vicino a Buttarelli e che magari si era già consumata. Appunto quel buio di catastrofe dove la voce si spegneva su una faccia impregnata di fatalità.
E meglio di così non saprei come dirlo.
La frase però, rivista poi con calma e tutta intera, non era farina del sacco di Buttarelli: era stata pronunciata da Dwight David Eisenhower alla vigilia della drammatica capitolazione delle truppe francesi nella guerra di Indocina:
COLPIAMO LA PRIMA E BEN PRESTO CADRÀ ANCHE L’ULTIMA, SIAMO ALL’INIZIO DI UNA DISINTEGRAZIONE CON EFFETTI RADICALI.
Così avrebbe detto profeticamente il presidente degli Stati Uniti nel 1954 e cosí – nel racconto di Fosforo a Gualtieri e di Gualtieri a me – intercalava Buttarelli sul bus numero dodici, saltando la seconda parte, quella della disintegrazione con effetti radicali, che forse non gli interessava o considerava pleonastica o poco pertinente. E pur assecondando l’idea che la frase fosse solo una fila di parole con casuale incastro sintattico all’interno del vaneggiare, Gualtieri sosteneva che c’è un momento della vita di ognuno in cui scattano reazioni meccaniche indirizzate rapidamente alla fine, come dire alla morte, che è poi il nostro esito naturale o forse il nostro scopo involontario. Un messaggio estremo che nessuno, almeno tra l’utenza del dodici, aveva capito: perché è un mondo egoista, diceva Gualtieri, o quando va bene è pauroso e distratto.
A ogni modo, mettendo da parte Eisenhower e le ipotesi di mio zio, possiam dire che quel giovedì pomeriggio, nel breve tragitto del dodici fra strada Furio Muratori e centro mediopoli, Fosforo era stato spettatore inconsapevole di quello che, con le ragioni del poi, possiamo intitolare l’ultimo capitolo di Buttarelli, con l’impronta della tragedia già fissata sullo sfondo in una specie di inversione del tempo che come dicono i filosofi è solo l’immagine mobile dell’eternità. E se il tempo scorre dal passato verso il futuro, come si pensa convenzionalmente, in quel momento preciso il futuro aveva mandato indietro una specie di avviso che Fosforo, anche se era un po’ stupido, aveva capito.
Diceva Gualtieri che forse quell’ultimo capitolo non c’è neanche stato, non per dire che Fosforo non raccontava la verità, del resto Buttarelli l’han visto tutti, sul bus numero dodici: Gualtieri non metteva in dubbio il fatto in sé, ma la sua fenomenologia, perché in base ai suoi calcoli, rapportando il tempo individuale di Buttarelli e di Fosforo col tempo generale delle matematiche, in quel momento Buttarelli non poteva essere lí e doveva esser già morto da circa quarantacinque minuti. Per dimostrarlo Gualtieri prendeva un foglio, anzi se lo faceva portare dalla zia Solimana, dove riscriveva il calcolo dal vivo con l’aiuto anche di diagrammi e planimetrie.
Quindi possiamo dire che quello che aveva visto Fosforo doveva essere una specie di puntata postuma, un concentrato denso di una vita già spesa, la vita di Buttarelli, che secondo Gualtieri era ritornata per un istante, sul bus numero dodici, come per salutare. E Gualtieri parla a ragion veduta perché lo conosceva fin da piccolo.
Maribèl.
Fin da piccolo Buttarelli aveva l’ossessione per le differenze e per le divisioni, prima fra tutte quella biologica tra maschio e femmina, con tutte le sue complicazioni meccaniche. Questa ossessione nasceva da una specie di crisi genetica di confine fra due religioni in conflitto, che gli causava avversione per l’ibrido o la mescolanza, e quindi l’impurità: tutte paure segretamente condivise con la madre, vedova Buttarelli, e alimentate dai metodi didattici di matrice positivista del convitto scolastico Dioscoride Polacco, dove Buttarelli e Gualtieri erano entrati da piccoli ed erano usciti preadolescenti. E dove per esempio, in quarta elementare, studiando i molluschi marini, Buttarelli aveva scoperto che il maschio di cefalopode Argonauta Argo non superava i dieci millimetri di lunghezza mentre la femmina poteva arrivare a venti centimetri.
Dice la moderna psicologia che certe scoperte dell’infanzia possono creare falsi dogmi capaci di scompaginare, attraverso un uso improprio dei neuroni ridondanti, i meccanismi della cosiddetta mentalità, e infatti da quel momento Buttarelli aveva cominciato a vedere il mondo umano adulto con un metro sperequato, partendo da certi modelli d’autorità che non erano né la vedova Buttarelli, né il padre, morto da sempre e visto solo in fototessera, ma la direttrice Maribèl.
La direttrice Maribèl era alta due metri e aveva i capelli neri, la faccia accumulata di disgusto e una voce che a Buttarelli ricordava lo Shofar che suona in sinagoga il giorno dell’espiazione, ma poteva anche essere l’eco di una tromba normale dentro una cattedrale cristiana. Abitava all’ultimo piano della scuola Dioscoride Polacco insieme al marito Rafael che invece era molto piccolo, rosso di capelli e con la voce intonata su una specie di falsetto cantabile.
E guardando sul libro la foto del cefalopode Argonauta femmina Buttarelli aveva riconosciuto in trasparenza la figura di Maribèl, con tutta una serie di rimandi, pertinenze e attinenze. E certe idee, una volta sedimentate, diventano come delle deformità, impossibili da correggere. Ma bisogna mettere a fuoco il panorama, partendo proprio da qui.
Una caratteristica della scuola Dioscoride Polacco era che le lezioni venivano interrotte quasi tutti i giorni dalla direttrice Maribèl, che entrava nelle classi col passo della ronda militare, diceva buongiorno senza nessuna carità e poi cominciava a interrogare una decina di scolari presi alla rinfusa che di solito non rispondevano o rispondevano in modo sbagliato o inesatto, e quindi venivano mandati uno alla volta ad aspettarla nel suo ufficio per le punizioni dottrinali.
Dice Gualtieri che nell’ufficio di Maribèl non si vedeva il cielo e non arrivava l’aria perché l’unica finestra dava sulla palestra da dove saliva solo il fischio dei comandi militari del maestro di ginnastica. Le punizioni inflitte nell’ufficio di Maribèl consistevano di solito in mortificazioni verbali, pesanti ma senza violenza al corpo o con violenza al corpo solo promessa e poi condonata in extremis.
Una mattina si erano ritrovati in sette, per ultimo Gualtieri, entrato insieme alla direttrice che aveva chiuso la porta. Erano stati messi in fila contro il muro e passati in rivista da Maribèl che poi si era seduta dietro la scrivania, aveva acceso una sigaretta e dopo un po’ di boccate prospettiche aveva chiamato il capofila, partendo da sinistra: fa’ un passo avanti, gli aveva detto, e togliti la cintura. Il capofila aveva fatto un passo avanti e con un giro prudente di frase aveva spiegato che la cintura non ce l’aveva. In che senso?, aveva chiesto la direttrice. Porto le bretelle, aveva risposto l’alunno alzando dimostrativamente il grembiule. Maribèl aveva tirato un’altra boccata. Allora vieni tu, aveva detto al secondo, e togliti la cintura. Ma anche il secondo alunno, dopo un passo riguardoso, aveva alzato il grembiule e fatto vedere le bretelle, senza parlare. Maribèl aveva tirato una boccata più lunga e risentita, guardando il soffitto a invocare un simbolico e ipotetico Dio. Aveva quindi chiamato il terzo, che con parole di rincrescimento aveva spiegato che purtroppo la cintura non la portava neanche lui, per lo stesso motivo dei compagni. Idem col quarto, col quinto e col sesto. Quando era arrivata al settimo e ultimo, cioè Gualtieri, anche lui senza cintura e pronto con le bretelle esibite a scanso di malintesi, Maribèl aveva spento la sigaretta nel posacenere e col braccio rigido puntato alla porta aveva ordinato a Gualtieri di andare a cercare uno scolaro con cintura e di portarlo lí entro tre minuti, calcolati a partire da adesso, quindi già partiti.
Gualtieri era tornato di corsa in classe, e col fiatone che sbiadiva le frasi aveva chiesto se per favore c’era uno scolaro con cintura ai pantaloni da accompagnare con cortese premura dalla direttrice. Ma di compagni di classe con cintura nella sua classe non ce n’erano. Allora era andato a bussare alle altre classi, perdendo molto tempo non solo perché tutti quanti portavano le bretelle ma perché i maestri e le maestre volevano capire il senso della richiesta e Gualtieri sul senso della richiesta non era pronto a rispondere.
In questo modo, fra una porta e l’altra della scuola Dioscoride Polacco e tante parole inutili, i tre minuti erano finiti subito e dopo un po’ erano anche finite le classi e con le classi era finita la speranza, che è un margine instabile ai confini dell’abisso dove non si vorrebbe mai entrare e dove invece stava entrando Gualtieri ritornando nell’ufficio di Maribèl. Ma nel punto estremo e cedevole, all’inizio del corridoio con la porta in fondo che diventava a ogni passo sempre più grande, per una svista del destino l’alunno con cintura era saltato fuori, nella persona di Damaso Abatangelo detto Pulmino, scortato dalla bidella Cleofe che lo aveva prelevato dal bagno e ora lo stava riportando militarmente in classe abbottonandogli di forza i pantaloni; proprio in quell’istante fuggevole Gualtieri aveva visto luccicare sulla vita di Damaso Abatangelo una fibbia di ferro come un raggio di sole oltre l’uragano, direbbero i narratori, e cosí aveva strappato Pulmino dalle mani della bidella tirandolo a rimorchio fin dentro l’ufficio.
Seduta davanti a Gualtieri che boccheggiava vicino a Pulmino e alla Cleofe che ancora protestava, Maribèl aveva guardato l’orologio, aveva buttato fuori il fumo dalla bocca e dal naso, aveva ringraziato e congedato la Cleofe, e si era rivolta a Pulmino con quel disgusto didattico con cui le direttrici e i direttori guardavano gli scolari nel ventesimo secolo: ce l’hai la cintura?, gli aveva chiesto. Lui non aveva risposto subito perché doveva ambientarsi. Ce l’hai o no? E Pulmino aveva risposto di sì, ma con la voce smarrita nel dubbio. Non ho sentito, ce l’hai o non ce l’hai? Ce l’ho, aveva risposto Pulmino. Alleluia, aveva detto Maribèl alzando le braccia sempre verso quell’ipotetico, simbolico e ancora più immenso Dio; allora su, toglitela e dammela. Damaso Abatangelo aveva sollevato il grembiule e iniziato dei movimenti che, come più tardi avrebbe cercato di spiegare ai compagni quando ormai la tragedia si era consumata, dovevano servire a liberare il puntale della fibbia dal buco. Ma siccome l’addome di Pulmino era massivo e ridondante e l’ultima allacciatura era stata fatta dalla Cleofe, quei movimenti non davano risultati diversi dal far muovere la pancia sull’asse della vita creando un imbarazzante stato di attesa.
Spiegava Gualtieri che le manovre di Pulmino si alternavano tra fiducia e disperazione, con una più accentuata deriva verso la disperazione che a volte scatena energie insospettabili, ma quella volta non scatenava niente perché anche la forza massima spendibile non riusciva a superare la resistenza della cintura che a sua volta subiva l’opposizione della pancia, per via della terza legge della dinamica che, applicata a Pulmino e ai meccanismi di azione e reazione che si sviluppano nei corpi viventi, aveva formato una massa critica che consolidava la presa. Questo aveva fatto crescere l’insofferenza di Maribèl che a un certo punto sembrava aver perso di vista lo scopo iniziale e aveva cominciato a vilipendere Pulmino chiamandolo bigoncia di lardo, per poi dar dell’ignorante anche a Gualtieri che si era generosamente intromesso nelle operazioni provando con una mano a trattenere la cintura e con l’altra a spingere la pancia, mentre altri due scolari, intervenuti a rinforzo, lavoravano sui fianchi per favorire l’azione di Gualtieri che adesso stringeva Pulmino in un abbraccio da dietro come si fa nel wrestling; ma la cintura era ormai per così dire incorporata alla vita dei pantaloni che a sua volta era incorporata a Pulmino in un’unica entità organica.
L’operazione era durata un paio di minuti prima che Maribèl buttasse la sigaretta per terra, prendesse Damaso Abatangelo per un orecchio e lo accompagnasse nella sua classe per esibirlo alla pubblica infamia. La condizione di Pulmino si era ulteriormente compromessa subito dopo, quando la bidella Cleofe aveva trovato nel suo armadietto scorte alimentari non autorizzate, con tutta una catena di conseguenze sul piano disciplinare che avevano messo in secondo piano l’originario interesse punitivo di Maribèl verso gli altri sette scolari, il cui debito era stato pagato dall’incolpevole Pulmino, unico della scuola Dioscoride Polacco ad avere la cintura, anche se non si è mai saputo a cosa dovesse servire, se mai Pulmino fosse riuscito a togliersela.
Rimanendo in tema di regole di comportamento, nella scuola elementare Dioscoride Polacco c’erano molti divieti. Non c’è tempo per elencarli tutti, mi limiterei a due, che rappresentano la sintesi di un metodo: bere e sudare. Se durante le lezioni chiedevi di andare in bagno per bere, raccontava Gualtieri, i maestri e le maestre ti dicevano di no, non solo per una naturale inclinazione al divieto tipica dei detentori del potere, ma perché l’eccesso di acqua causa vomito, acetonemia e ipertensione. Se avevi sete potevi provare a chiedere di andare semplicemente in bagno, ma la risposta dipendeva dalle contingenze didattiche e dal livello di necessità, che per prassi doveva essere ai limiti dell’incontinenza secondo una stima equitativa del docente, e c’era anche un po’ di burocrazia perché per andare in bagno bisognava essere accompagnati dalla bidella Cleofe che aveva per l’appunto il compito di verificare il corretto magistero dei gabinetti e la veridicità dell’impellenza, con giudizio postumo. Ma siccome non sempre la Cleofe era nei paraggi bisognava farla chiamare e poi aspettare che arrivasse, accompagnasse l’alunno ai servizi eccetera eccetera.
Il divieto di bere era collegato a quello di sudare, nel senso che il primo diventava profilassi del secondo, perché con l’esperienza e la presa di consapevolezza del proprio corpo l’alunno impara che una certa spesa energetica alza la temperatura corporea fino alla soglia del sudore che a sua volta stimola la sete, e per questo la maggior parte degli alunni faceva la scelta utilitaristica di muoversi il minimo indispensabile, tenuto anche conto che in quell’epoca di culture massimaliste la regola igienica dettata dal governo era che comunque, al di là dei protocolli della scuola Dioscoride Polacco, bere da sudati nuoce all’organismo.
Uno scolaro sudato che veniva scoperto a bere commetteva due infrazioni contemporaneamente, quella di bere e quella di mettere a rischio la propria salute e quindi la finanza pubblica, perché il rischio per la salute individuale si ripercuote sui costi del sistema sanitario.
Un’altra regola di profilassi, collegata alle precedenti, era il divieto intransigente del gioco del calcio e in generale l’interdizione all’uso di palle o palloni o di qualunque oggetto adattabile a uso calcistico: nella ricreazione in cortile erano ammessi giochi statici o prudentemente dinamici, individuali e di gruppo, disturbati dalla presenza di un traliccio che reggeva un canestro da basket, ovviamente non utilizzabile ma che nell’immaginario degli scolari rappresentava la testimonianza di un’epoca piú liberale in cui era permesso l’uso del pallone, e si discuteva spesso su quale poteva essere stato il punto di svolta o di rottura. Erano pensieri rassegnati, lontani dalla realtà ma anche dall’utopia perché l’utopia contrastava con il taglio positivista viennese della scuola.
Il divieto di sudare e di bere, che era un po’ il cardine di una condizione di apprendimento, restava in vigore anche nelle lezioni di ginnastica dove si praticavano piú che altro esercizi retorici a corpo libero con controllo morale della sudorazione.
L’autore.
Paolo Colagrande nasce a Piacenza il 12 luglio 1960. Vive a Piacenza è sposato e ha due figli. Il suo romanzo d’esordio è Fìdeg, pubblicato per Alet edizioni nel 2007; come spiegato nel glossario posto alla fine dell’opera, il titolo del libro è un’esclamazione che vuol dire “fegato”.
Fìdeg ha vinto il Premio Campiello nella sezione Opera prima a un mese dalla pubblicazione, e ha ricevuto una menzione speciale al Premio Viareggio nella stessa sezione. Inizialmente, al Viareggio, il suo nome venne escluso dalla rosa dei finalisti, in quanto già vincitore del Campiello. Successivamente, Colagrande venne riammesso poiché, secondo quanto fatto notare da alcuni giurati, non vi era alcuna incompatibilità. Il premio, comunque, non è stato assegnato, e i finalisti, da regolamento, hanno ricevuto una menzione speciale. Il suo romanzo Senti le rane (Nottetempo 2015) ha vinto il Premio Selezione Campiello 2015.
- La vita dispari
- Paolo Colagrande
- Editore: Einaudi
- Collana: Supercoralli
- Anno edizione: 2019
- Pagine: 288.