L’obiettivo della dilagante cultura della cancellazione è la distruzione di ogni identità
L’ABOLIZIONE DELLA DONNA
Verso l’unico neutro? L’obiettivo della dilagante cultura della cancellazione è la distruzione di ogni identità sino a degradare l’essere umano a homunculus a taglia unica mostriciattolo uniforme senza carattere: né uomo né donna
Sotto i portici della via principale di una città di provincia nota per il chinotto e la squisita farinata, c’è un bar nel quale ama intrattenersi il vostro scrivano. È gestito da donne e si vede. La pulizia, i
soprammobili, la cura della vetrina e dell’esposizione, le belle poltroncine sempre linde, il gusto estetico nella disposizione, la scelta sapiente dei prodotti, belli da vedere quanto deliziosi al palato, la cortesia mai affettata, ne fanno una meta apprezzata e, per quanto ci riguarda, una sorta di ultima Thule della femminilità in un tempo nel quale assistiamo all’abolizione della donna.
Strano, penserà il lettore, l’autore è lo stesso che attacca il femminismo radicale, deplora l’umiliazione dell’uomo e la decostruzione dell’universo maschile, e ora parla di abolizione della donna(L.C.). Ce ne siamo convinti, in attesa di leggere in italiano il libro dello stesso titolo di Fiorella Nash, americana. L’obiettivo della dilagante cultura della cancellazione è la distruzione di ogni identità, sino a degradare l’essere umano a homunculus a taglia unica, mostriciattolo uniforme e senza carattere, né uomo né donna.
Allo smantellamento del mondo maschile non può che corrispondere analoga operazione al femminile. Simul stabunt, simul cadent. Abolito l’uomo, non vince la donna, ma un triste Unico neutro, un po’ androgino e un po’ ermafrodito, niente affatto umano. A un deputato spagnolo è stato cancellato il profilo Twitter per aver scritto che esistono uomini e donne, a uno psicologo americano è toccata l’esclusione da un congresso per aver sostenuto la differenza costitutiva tra uomo e donna.
L’abolizione della donna sta avvenendo in forme più subdole di quelle utilizzate contro l’esemplare maschio della specie umana. All’uomo è stata riservata l’aperta demonizzazione: stupratore, violento, molestatore, e tutto il resto dell’armamentario del progressismo “risvegliato”. In contemporanea, hanno aizzato le donne contro gli uomini – anche contro i “loro “uomini – padri, fratelli, mariti, persino figli – fingendo di lavorare per l’uguaglianza. Equivoco passepartout ereditato dalla modernità, declinata ormai come rancoroso inseguimento, rivendicazione non di pari opportunità, ma di privilegi legali (quote rosa, azione affermativa e simili), l’uguaglianza è tornata all’ intenzione iniziale, alimentare una guerra dei sessi dalla quale escono sconfitti entrambi, uomini e donne.
Acutamente, Silvana De Mari fa rilevare che la definizione di genitore 1 e 2, tenacemente richiesta e imposta dalla teoria del genere per decostruire in un sol colpo l’immagine e il ruolo paterno e materno, corrisponde, nelle lingue in cui non esiste il neutro, a un nuovo grottesco privilegio maschile che esclude la donna. Esiste infatti il termine genitrice, sinonimo di madre, per cui “genitore”, numerato secondo la voga gender, finisce per essere una sfumatura psicologica favorevole all’omosessualità. Due padri, una mostruosità logica e biologica che sfugge per la diffusione di panzane uscite dai laboratori ideologici infernali – e del tutto anti scientifici – di facoltà universitarie che una volta si definivano “umanistiche”, definizione che suona adesso orwelliana, capovolta.
L’abolizione della donna avviene in molteplici modi: il più brutale è quello del disprezzo della maternità. Gli alchimisti/e del gender non si vergognano di affermare che la maternità è un costrutto sociologico e culturale. Non esiste la possibilità di rispondere: il codice – linguistico, culturale, antropologico – è troppo diverso e la forza degli argomenti irrazionali sta precisamente nella loro irrazionalità. Si diffonde il modello della donna “child free”, ovvero libera dai bambini, che rinuncia al privilegio immenso della maternità – la facoltà divina di dare la vita! – in nome di un’idea astratta di libertà, una gelida, programmatica assenza di vincoli. La donna child free ha innanzitutto orrore della gestazione, i nove mesi ingombranti in cui la nuova vita (o il grumo confuso di cellule!) si forma all’interno del suo corpo. Eventualmente, se proprio non riesce a ridurre al silenzio la voce interiore che la vuole madre, applaude la GPA, gestazione per altri, espressione più elegante del sordido, ma veritiero utero in affitto.
La giustificazione della volontà di non generare figli si inserisce in un individualismo rapace, miope, lo stesso rimproverato agli uomini: l’amore per la carriera, la cosiddetta “realizzazione”, che spesso consiste nell’essere costretta a turni in fabbrica o lavori ripetitivi. Tutto per conseguire l’agognata indipendenza soggettiva, lo stipendio che libera dal giogo maschile, paterno o coniugale. L’indipendenza non è certo un male, ma si trasforma in un’arma e in un elemento di dissoluzione comunitaria se è brandita come rifiuto dell’altro, individualismo estremo, rigetto dell’interdipendenza naturale tra le persone, le generazioni e i sessi che è la logica dell’essere umano, animale sociale e politico. Eliminati gli aggettivi, resta il sostantivo: animale, impegnato nella guerra di tutti contro tutti.
Se chiediamo a una ragazza quali siano le sue aspirazioni, risponderà che ambisce alla realizzazione personale, al denaro e alla “libertà”, un concetto omnibus, che significa tutto e niente. Di avere figli e di intrattenere una relazione stabile, non se ne parla: lo sguardo diventa scandalizzato, stupefatto, l’interlocutore è trattato come un nemico stravagante. Non ci sono più giochi con le bambole, così come si evitano i soldatini per i maschi. I modelli dominanti, sociali, televisivi e pubblicitari, sono altri: la donna in carriera, dominatrice e – a orari stabiliti – mantide sessuale. In uno sceneggiato della televisione pubblica, il protagonista – un simpatico commissario napoletano tra le nevi altoatesine – è abbandonato sull’altare da una veterinaria che preferisce una spedizione in Alaska, il suo sogno nel cassetto.
Altri personaggi imposti al pubblico sono poliziotte e soldatesse armate sino ai denti, generalmente nubili (scusate, single) e senza figli, prive di legami stabili, implacabili tutrici dell’ordine in carriera, comandanti di uomini deboli, fiacchi, incapaci di risolvere le situazioni. Non manca la giovane donna in tailleur e borsa ventiquattro ore, idealtipo del consulente finanziario. Se il sistema di intrattenimento presenta figure materne, sono “madri coraggio” contro le mafie, figure positive ma attempate, figlie di altre generazioni che trovano la forza di opporsi al male, che è – inevitabilmente – maschio. Si nega l’esistenza di attitudini specificamente femminili o maschili, eppure non conosciamo molti aspiranti maschili al ruolo di baby sitter e, al contrario, non esistono file di ragazze che ambiscono alla professione di minatrice o operaia edile.
La profonda vocazione femminile per la cura in senso lato, è nascosta, negata o ridicolizzata, eppure ha avuto per secoli – millenni – il ruolo di tessuto connettivo della vita sociale, non solo familiare. Tra i ricordi di chi scrive c’è la mamma che imponeva la pulizia e il decoro del corpo e dell’abito. Se uscivamo di casa disordinati, spettinati o malvestiti, diceva: la gente penserà che non hai una madre e una famiglia. Il modulo femminile più vistoso oscilla oggi tra l’aspirante velina iper truccata, abbigliata come le signore che praticano un antico mestiere (parliamo da appartenenti a una generazione al tramonto…), l’executive tutta lavoro, ambizione e niente sentimenti e la sciamannata “coatta”, copia peggiorativa di analogo esemplare maschile. Logico: bisogna tendere verso l’Unico, l’unisex al più basso livello. Il corrispettivo speculare è il ridicolo “mammo”, imitazione malriuscita della madre. Si cominciano a vedere uomini che tengono i figlioletti non per mano (il modello di sempre, il padre che guida, accompagna e protegge) o in braccio, ma sul petto, in un fagotto a imitazione del ventre materno. Uomo e donna sono diversi anche nel modo in cui tengono a sé i figli: da una parte la cura, il calore fisico, dall’altra la protezione e la guida.
Chissà se alle neo femministe piace il tipo neo-maschile del mammo, l’ausiliario impacciato. Non crediamo, al di là del furore vendicativo di alcune. Gran parte delle ideologhe femministe è apertamente lesbica. Qualcuna arriva a teorizzare il rifiuto generalizzato di rapporti con l’altro sesso (pardon, il genere maschile, giacché ora sappiamo, illuminati dal verbo progressista, che ne esistono decine), prospettando un’omosessualità femminile di massa. Nel frattempo, i peggiori difetti maschili si estendono alle donne: cinismo, carrierismo, mancanza di sentimenti. Vizi come il fumo, l’alcolismo, le dipendenze (gioco, droga, sesso) allargano il mercato e diventano sempre più comportamenti femminili. Persino il voyeurismo si è diffuso alle donne, come dimostrano gli spettacoli di spogliarello maschile e molte allusioni televisive e giornalistiche.
L’aborto non è più una triste decisione, un’extrema ratio di fronte a drammi e disagi esistenziali, ma un’ideologia, il diritto più intangibile di tutti, il totem davanti al quale inchinarsi. Non c’è più una vita che nasce, ma un grumo di cellule fastidiose da asportare senza problemi. Non c’è neppure un padre, il tizio presente al momento del concepimento; non ha diritto di parola e per questo talora si cruccia. Più spesso – ahimè – si frega le mani, alimentando l’irresponsabilità maschile – una delle accuse femminili più ricorrenti – e la solitudine della donna, che quasi sempre è una giovane dalla personalità ancora incerta, bisognosa di sostegno.
Sola davanti alla scelta di abortire, sola – sempre più spesso incompresa – se fa la scelta opposta. Disprezzata la madre, è abolita la donna e resta l’esemplare femmina di una specie animale tra le altre, con l’immensa contraddizione di non credere più alla natura e alla biologia, ma solo alla “cultura”. Una conseguenza negativa è l’affido dei pochi figli che sfuggono all’aborto, alla contraccezione e alla sottocultura della realizzazione individuale ad agenzie esterne: la scuola, lo Stato. L’esito finale è la riproduzione di una società confusa, fatta di maschi fragili, impauriti e pieni di sensi di colpa, e di femmine aggressive, incapaci di amare, spesso nemiche di se stesse, come attestano gli atti di autolesionismo, la bulimia e l’anoressia.
Nella società dello spettacolo, in cui la verità è l’immagine, la stessa insistenza sulla violenza contro le donne, con immagini di umiliazione e degrado, finisce per alimentare da un lato l’imitazione perversa di comportamenti spregevoli, dall’altra timori assoluti, rancori, diffidenze che impediscono l’alleanza naturale tra i sessi e generano una società di nemici e la tendenza a un orrendo apartheid di genere.
In più, è falsa l’affermazione iniziale e indiscutibile, quella dell’uguaglianza. Sappiamo di esporci al ludibrio ufficiale, ma osiamo negare, per coerenza con quanto vedono i nostri occhi e ciò che constata l’esperienza della vita, che donne e uomini siano uguali. No, non lo sono, e non soltanto per la diversa conformazione fisica. Ovvio è rivendicare l’isonomia, l’uguaglianza davanti alla legge, per il resto la diversità balza all’evidenza. Basta osservare sin dalla prima infanzia il diverso comportamento dei maschietti e delle femminucce, e, in ogni età e circostanza, verificare differenze di attitudine che non si possono attribuire alla società eteropatriracale, al dominio maschile e ad altre invenzioni degli stregoni postmoderni, ma alla natura, che sia opera di Dio, del caso o dell’evoluzione.
Modificare l’ordine dei fattori, manometterli, negarli, significa abolire la verità. Uomo e donna non sono intercambiabili; le differenze possono determinare uno sviluppo comunitario e sociale armonioso, l’alleanza che trova nella famiglia il suo luogo privilegiato, o enfatizzare lo strappo, la polemica, il rancore, utilizzato per procedere a tappe forzate lungo il piano inclinato dell’Unico, dell’uniforme, dell’indistinto.
Una donna che manifesta dolcezza d’animo è etichettata come stupida o sottomessa; le ragazze chiamano spregiativamente “suora” quella tra loro che non pratica i nuovi precetti femminili di ascendenza maschile: turpiloquio, volgarità, promiscuità.
Abolito il maschio, è cancellato l’uomo. L’operazione si ripete, con altrettanto successo, nei confronti della femmina, ex donna. Il risultato della devastazione non è l’uguaglianza, ma la cancellazione dell’uno e dell’altro sesso, seguita dalla rapida – meritatissima – fine della civiltà umana occidentale. I promotori sono a un passo dal conseguire la vittoria finale, una tragica sconfitta per tutti.
Noi coltiviamo la speranza che le donne rifiutino di essere degradate, derubricate a femmine in marcia verso l’Unico e innalzino la bandiera della ribellione, strappandola – in nome di se stesse e dei figli – dalle mani infiacchite dei loro compagni, di cui in passato mai hanno apprezzato la piagnucolosa debolezza. Hanno sempre voluto al loro fianco uomini forti, padri, compagni di vita. A loro e ai figli hanno offerto cura, amore, sprone, spesso a prezzo della vita. Non sappiamo fino a che punto vi abbiano cambiato, ma non permettete, voi donne, meravigliose alleate, luminosa metà del cielo, che vi aboliscano con la facilità con cui hanno cancellato noi, maschi bianchi occidentali.
Roberto Pecchioli
Libri Citati
- L’ abolizione della donna. Come il femminismo radicale tradisce le donne
- Fiorella Nash
- Traduttore: Emanuela Bringheli
- Curatore: Maurizio Brunetti
- Editore: D’Ettoris
- Collana: Focus
- Anno edizione: 2021
- In commercio dal: 25 marzo 2021
- Pagine: 238 p., Brossura
- EAN: 9788893280884. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/abolizione-della-donna-come-femminismo-libro-fiorella-nash/e/9788893280884?inventoryId=289802987″ btnsize=”small” bgcolor=”#eded00″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 19,86[/btn]
Descrizione
L’autrice di questo libro si definisce una «femminista pro-life», il che sembra una contraddizione in termini, data la forza con cui viene propugnato un presunto «diritto di abortire» in certi ambienti femministi. Fiorella Nash si fa paladina di una tesi apparentemente contro-intuitiva: più una donna ha a cuore la parità fra i due sessi dei diritti nei rapporti civili, economici, giuridici, politici e sociali e più dovrebbe impegnarsi per la tutela pubblica di ogni vita. L’autrice, inoltre, pungola chi è sempre in piazza per difendere i «diritti civili», chiedendo loro come mai la loro indignazione svapori dinanzi alle donne cinesi indotte alla sterilizzazione o all’aborto forzati; dinanzi alle migliaia di bambine uccise ogni anno prima di nascere semplicemente per il fatto di essere donne; dinanzi alle migliaia di donne che ricche coppie occidentali «cosificano» utilizzandole come madri surrogate. Il libro però interpella anche il fronte pro-life, richiamandolo a un approccio più sensibile e realistico alle gravidanze problematiche, e a una maggiore attenzione allo sfruttamento e all’abuso delle donne all’interno di una società sessualizzata.
Approfondimenti del Blog
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