”Pochi giorni fa si è svolta a Firenze una manifestazione antifascista
L’ANTIFASCISMO E L’OMINO DI BURRO
Pochi giorni fa si è svolta a Firenze una manifestazione antifascista, innescata da un modesto episodio di cronaca, una zuffa tra studenti di opposte fazioni davanti a un liceo. L’indignazione a comando è partita come sempre al fischio del padrone, con dichiarazioni infuocate e paragoni infondati, come la messa in guardia dall’ennesimo “rigurgito” (una delle parole-chiave della parrocchia antifà) di una preside fiorentina. La dirigente scolastica ha paragonato la scazzottatura – la reazione agli insulti di avversari usciti dalla scuola di ragazzi di FdI che stavano effettuando un volantinaggio – agli eventi che precedettero l’ascesa del fascismo. No, professoressa, il fascismo non nacque da bulletti di strada che sfogavano la violenza contro inermi cittadini, ma da una generazione che aveva fatto la guerra e, tornata a casa, si vide offesa e schernita. (1)
Comunque, tutti in piazza, e poco importa la conta dei presenti. L’istinto è mandare al diavolo i manifestanti del nulla, liquidarli con le parole del grande filosofo Costanzo Preve, che era comunista ma non stupido. “L’antifascismo in assenza di fascismo è un meccanismo ideologico pestifero per impedire la valutazione dei fatti attuali”. Ineccepibile. Il primo pensiero razionale fa ricordare una frase di Umberto Eco ne Il nome della rosa, una perla degli opportunisti di ogni tempo: meglio scegliersi un avversario debole. Se poi è inesistente, tanto meglio. Nessuna persona di normale quoziente intellettivo può pensare che alcuni giovanetti iscritti a FdI siano fascisti. Se anche uno di loro lo fosse – un sentimento più che una prospettiva politica – basterebbe ricordare che il loro partito è l’erede di Alleanza Nazionale, che quasi trent’anni or sono – non ieri – cancellò le sue radici dichiarandole negative e chiuse la storia del Movimento Sociale Italiano, casa dei neofascisti per cinquant’anni, benché frequentato anche da monarchici, ultraconservatori e semplici fautori di “legge e ordine”.
Quanto ai suoi dirigenti, dalla Meloni in giù, fanno a gara non per rinnegare – chi c’era lo fece trent’anni fa – ma per allontanare da programmi, simboli e ideario ogni riferimento a un trapassato remoto impossibile da resuscitare. Atlantisti, filo americani, devoti all’Unione Europea e alla Banca Centrale, liberisti in economia, attentissimi a non sfidare il progressismo sul terreno culturale, tutt’al più possono essere accusati di aver dimenticato il filone di destra sociale, uno dei riferimenti di ieri. Eventualmente, dovrebbero spiegare – non agli antifà, ma ai loro elettori – il repentino allineamento all’agenda Draghi, all’occidentalismo bellicoso, oltreché scelte di politica sociale, economica, migratoria opposte a quelle promesse.
L’antifascismo dei manifestanti è quindi strumentale, anacronistico, male indirizzato. Lo ha colto perfettamente l’umorista Osho, al secolo Federico Palmaroli, che sbeffeggia il potere in sapidi dialoghi romaneschi sulle immagini del giorno. La foto di famiglia della manifestazione fiorentina vede insieme Elly Schlein e Giuseppe Conte. L’una chiede all’altro se c’è davvero il fascismo e l’altro risponde: “no, ma ce campamo cinqu’anni”. Infatti è ancora abbastanza numerosa la clientela degli antifascisti di Pavlov, che sbavano rabbia alla semplice pronuncia della parola da parte dei loro burattinai. Costoro somigliano a certi mediocri intellettuali manzoniani di fine Ottocento, impegnati, secondo Giosuè Carducci a “tirare quattro paghe per il lesso”. Bisogna capirli, meglio fare i rabdomanti del fascismo eterno che lavorare o chiedere il reddito di cittadinanza.
Pensavamo, riflettendo sul presente articolo, di citare la teoria del capro espiatorio di René Girard(2). Secondo il sociologo e antropologo francese, il potere gestisce i conflitti emotivi incanalandoli in cerimonie e riti, in cui si individua un nemico simbolico e lo si sacrifica nel tripudio popolare, ricomponendo così le fratture della comunità. L’antifascismo odierno è certamente un rito di massa (o meglio, di quel che resta delle masse rosse, rosé, fucsia e arcobaleno) che evoca ed esorcizza un nemico che non c’è al fine di ricompattare le fila, ritrovare un’unità inesistente. L’antifascismo canale di deviazione dei conflitti permette di ritrovare una ricomposizione e pacifica i rissosi (ex?) compagni inventando un nemico comune, il mostro da abbattere, anche in forma di liceali ammiratori di Giorgia. E’ certamente vero, ma troppa grazia. Che interpretazione complessa, intellettualistica, specie tenendo conto che i sapienti sono per definizione dall’altra parte. Altrove, c’è solo egoismo, ignoranza, violenza, malvagità.
Sorridendo sotto i baffi, ci è venuto in mente, a proposito della manifestazione, Frate Cipolla, protagonista di una splendida novella del Decameron. Il furbo fratacchione arriva in un paese della provincia fiorentina (il genius loci) per mostrare una sacra reliquia, una piuma delle ali dell’arcangelo Gabriele, da egli stesso ritrovata. Si aspetta copiose offerte dai paesani, ma due di loro, che conoscevano da tempo gli imbrogli del monaco, sostituiscono le piume con dei carboni. Al culmine della cerimonia religiosa, Frate Cipolla apre il reliquiario ma non trova che carbone. Senza perdersi d’animo, grida al miracolo, sostenendo che è avvenuta una prodigiosa sostituzione: i tizzoni sono quelli su cui fu bruciato San Lorenzo. Tripudio popolare. L’antifascismo magico di Frate Cipolla scambia ragazzi di destra del 2023 con feroci squadristi di un secolo prima.
Anche questa interpretazione, tuttavia, per quanto divertente e con un notevole fondo di verità, non ci soddisfa. Gli antifà 2.0, infatti, sono sinceramente convinti dei loro slogan. Il problema è il cinismo dei loro capi, che non credono per nulla alla retorica che agitano, limitandosi a servirsene per scopi politici, saggiare il terreno per future mobilitazioni contro il governo Meloni, che è tante cose – per lo più mediocri – ma non è affatto un covo di fascisti. Tra qualche settimana parteciperanno commossi (fingono con lo stesso impegno degli avversari) alle manifestazioni per il 25 aprile e qualcuno, cautamente, intonerà Bella Ciao. Che cosa non si farebbe per allontanare da sé ogni sospetto.
Maschere: ognuno indossa una maschera e non si vergogna di cambiarla secondo occasione. Le maschere permettono di frantumare l’identità e nascondere l’essere con l’apparire. Teatro: Pirandello senza il genio del grande siciliano. Occorre scavare un po’ più a fondo sulla psicologia del neo antifascismo di risulta. La nostra tesi è che – lontano dalla dignità del passato – è un elemento in più dell’infantilizzazione e della domesticazione di massa perseguita dal potere. E’ l’antifascismo del Paese dei Balocchi in cui Lucignolo trascina Pinocchio. I cocchieri dell’antifascismo fuori tempo massimo, maschere pirandelliane, assomigliano all’Omino di Burro. Grazie alle sue maniere melliflue, alla vocina rassicurante, attrae i ragazzi più ingenui sul suo carro, portandoli nel Paese dei Balocchi dove ogni fanciullo può giocare, urlare e poltrire senza dover ascoltare i rimproveri. Il suo carro ha le ruote fasciate per non fare rumore e gli asinelli che lo trainano calzano stivali bianchi sopra gli zoccoli. In realtà, l’Omino di burro è un uomo violento, perverso, e il destino delle sue vittime è trasformarsi in asini da vendere sui mercati, il mestiere con cui si arricchisce.
Diciamola tutta. L’antifascismo di ultima generazione non soltanto non ha nulla di eroico o di moralmente forte: è un’arma di distrazione di massa come tante altre. Si basa su una confusione iniziale: non spiega mai che cosa significa oggi fascismo. I suoi pifferai lo identificano nei giovani militanti fiorentini e qualche Lucignolo ci crede. Troppa grazia, sant’Antonio, o meglio, che imbroglio gigantesco. L’Omino di Burro sceglie le sue vittime tra i ragazzi più pigri, svogliati e ignoranti. Poi se ne libera, vendendoli come animali. Non è diverso il destino di manifestanti in buona fede, tremendamente disinformati. Fascismo, infatti, è parola omnibus: buona per tutte le stagioni, per tutti gli usi, un’etichetta indelebile da appiccicare a qualunque cosa o persona che non piace. Si è trasformato in sinonimo di male – assoluto, per di più – come disse Gianfranco Fini nell’ansia di sbarazzarsi del suo passato personale. E sì che doveva la sua carriera da “vuoto incartato” (Craxi dixit) a un neofascismo retorico, spettrale, declamatorio, vuoto quanto lui.
L’equazione è semplice: se fascismo significa male, la sua negazione è un pensiero manicheo, puerile, un verso di Calderòn de la Barca: nada me parece justo, siendo contra mi gusto. Niente mi pare giusto se non mi piace. Una tautologia che non ha nulla di politico. Eppure ai manifestanti multicolori non dovrebbe piacere neppure la dittatura finanziaria, la sovranità monetaria delle banche, la privatizzazione di tutto, l’evidenza di una democrazia svuotata ostaggio di oligarchie che stravolgono leggi e costituzioni, il precariato di massa. Non dovrebbero gradire un’UE che emana migliaia di regolamenti annui – immediatamente esecutivi – non votati da nessuno, scritti da una Commissione, ossia, se le parole hanno il “loro” significato, da un gruppo di autocrati, ovvero fascisti.
Il concetto meno nebuloso di fascismo nella neolingua antifà è l’epitome di autoritarismo, frutto avvelenato della Scuola di Francoforte(3). Theodor W. Adorno teorizzò “la personalità autoritaria” a cui opporsi in quanto fascista. Non sono fascisti, in quel senso, i lockdown, gli obblighi vaccinali, le imposizioni del liberismo reale? Non sono fascisti – sempre in base ai significati antifascisticamente corretti – l’insicurezza sociale, i bassi salari, lo sfruttamento di massa? Non è fascista chiamare alla guerra? Non lo è imporre il linguaggio da usare, punire le idee non conformiste? Non è fascista affermare che al sistema economico, finanziario e sociale vigente non c’è alternativa”?
Non fu puro autoritarismo fascista picchiare i manifestanti di Trieste, Draghi regnante, il cui torto era non brandire le bandiere che piacciono agli antifà, o pretendere la giustificazione scritta – come per le assenze a scuola – per chi osava attraversare il confine comunale o perfino rionale? Eppure contro la finanza, contro chi ci torchia per dare ossigeno a banche “troppo grandi per fallire”, contro l’abolizione di libertà concrete e quotidiane, non un munito di sciopero, non uno slogan, non una manifestazione, nessuna preside sulle barricate, comode, su carta intestata, altro che andare in montagna e sfidare il nemico.
Ai ragazzi oggetto di feroce odio mediatico, un consiglio: la prossima volta a rischiare mandateci i capi, magari Crosetto, il ministro ex lobbista degli armamenti – pronti a mollarvi al primo stormire di fronda. Avete ancora ideali: non regalateli ai politici per tutte le stagioni. Vi odiano perché, nonostante tutto e tra esempi contrari, vi fanno fremere parole come identità, valore, patria, coraggio, onore, armonia, fedeltà, realtà, bellezza, famiglia, spirito. Avete ancora una fede non corrotta dal tornaconto. Alcuni di voi sono disposti a battersi per un principio, una bandiera. Non c’entra nulla il fascismo, sono le belle idee per le quali vale la pena vivere e lottare. Sono il bene, per questo sono tanto odiate dagli Omini di Burro, dal Gatto e dalla Volpe (“siamo in società, di noi ti noi ti puoi fidar”) e dai troppi Lucignolo che girano per il mondo. Non vi abbattete per l’odio che vi vomitano addosso: la vostra diversità è una medaglia al valore. “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”.
Roberto PECCHIOLI
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Il perno del pensiero di René Girard
Dice Heidegger che ogni vero pensatore pensa un solo pensiero: nel caso di René Girard è quello del «capro espiatorio». In questo saggio egli prende per mano il lettore e, passo per passo, illumina in modo definitivo quel meccanismo della persecuzione e del sacrificio a cui già aveva dedicato La violenza e il sacro. Ed è impossibile sottrarsi alla luce cruda e netta che in queste pagine viene gettata su alcuni temi che per forza ci riguardano tutti. In particolare, colpiranno per la loro radicale novità le interpretazioni di parabole ed episodi dei Vangeli, dove secondo Girard si compie quell’oscillazione decisiva per cui la vittima sacrificale non consente più alla colpa che le viene attribuita, ma diventa l’innocente che, come tale, si rivendica: così il capro espiatorio si trasforma nell’agnello di Dio.