L’apprendista è un romanzo in cui personaggi inventati si mescolano a figure storiche. Tutti gli avvenimenti e i dialoghi sono frutto dell’immaginazione dell’Autrice e non vanno considerati reali. È l’estate del 1922 e la giovane Paulien Mertens, il cuore a pezzi e duecento franchi in tasca, è in esilio a Parigi.

L’apprendista è un romanzo in cui personaggi inventati si mescolano a figure storiche. Tutti gli avvenimenti e i dialoghi sono frutto dell’immaginazione dell’Autrice e non vanno considerati reali. Sono state apportate alcune modifiche alla collocazione spaziotemporale di persone ed eventi in base alle esigenze della narrazione; i dettagli si trovano nella Nota dell’Autrice alla fine del libro. Sotto tutti gli altri aspetti, ogni somiglianza con persone vive o morte è assolutamente fortuita.

È l’estate del 1922 e la giovane Paulien Mertens, il cuore a pezzi e duecento franchi in tasca, è in esilio a Parigi.

Diseredata e ripudiata dai genitori a causa della truffa finanziaria messa in atto dal suo fidanzato George Everard, che ha condotto le Fabbriche tessili Mertens sull’orlo della bancarotta, Paulien vaga per la città chiedendosi come riuscirà a dimostrare la propria innocenza e a restituire al padre almeno una piccola parte di ciò che ha perso.

Dopo aver dato un taglio ai suoi lunghi capelli e cambiato il proprio nome in Vivienne Gregsby, la giovane donna decide di sfruttare le sue competenze nel campo dell’arte per rientrare in possesso della collezione di dipinti postimpressionisti di suo padre e ottenere, così, il perdono della famiglia.

Grazie alla sua intraprendenza, riceve la proposta di fare da assistente al dottor Edwin Bradley, collezionista d’arte americano con l’ambizione di creare un museo a Philadelphia.

Vivienne dovrà accompagnarlo nelle sue visite agli studi degli artisti, fargli da interprete, da segretaria, aiutarlo a fissare gli appuntamenti e a prendere accuratamente nota delle transazioni.

Un lavoro che la giovane accetta con entusiasmo, conscia del fatto che potrebbe consentirle non soltanto di venire a contatto con opere straordinarie, ma anche di incontrare gli artisti i cui dipinti la emozionano fin da quando era solo una bambina, come Henri Matisse, ad esempio, che col suo piglio giovanile, la barba folta e lo sguardo intelligente, non mancherà di far breccia nel suo cuore.

Un lavoro, tuttavia, non privo di rischi. Qualcuno potrebbe smascherarla, magari lo stesso George Everard, in vena di architettare uno dei suoi malefici raggiri…

   «Non doveva andare così, Edwin. Invece di te e della collezione, è la paura a tenermi compagnia. Mi si è insinuata da qualche parte tra lo stomaco e i polmoni; a volte allunga i tentacoli fino ai polpastrelli, altre resta in agguato, impedendomi di respirare profondamente o di ingoiare un solo boccone di cibo.»

 

La trama del romanzo

È l’estate del 1922 e la diciannovenne Paulien Mertens si ritrova a Parigi completamente sola e al verde. La sua famiglia, in Belgio, è finita sul lastrico a causa delle manovre finanziarie poco pulite di George Everard, il suo fidanzato, che ha successivamente scaricato tutta la colpa su Paulien. Per proteggersi dalla legge e dall’ira di coloro che la accusano di furto, la giovane crea una nuova identità, Vivienne Gregsby, e si prepara a recuperare la collezione d’arte di suo padre, per dimostrare la sua innocenza e vendicarsi di George. Quando l’eccentrico e ricco collezionista d’arte americana Edwin Bradley offre a Vivienne il lavoro perfetto nella sua galleria d’arte, la giovane non esita a calarsi nell’effervescente mondo parigino dei post-impressionisti e degli espatriati, tra cui Gertrude Stein e Henri Matisse, con il quale Vivienne vivrà una conturbante storia d’amore. Tutto sembra procedere a gonfie vele, fino a quando l’improvvisa morte di Bradley non metterà di nuovo in pericolo la vita di Vivienne, arrestata con l’accusa di omicidio. Barbara Shapiro torna con un nuovo, sorprendente thriller ambientato nel mondo dell’arte e lo fa con una storia che parla di ossessione, denaro, amore e vendetta.

 

Come inizia

  

   Parte prima

 

Il processo, 1928

 

   Non doveva andare così, Edwin. Invece di te e della collezione, è la paura a tenermi compagnia. Mi si è insinuata da qualche parte tra lo stomaco e i polmoni; a volte allunga i tentacoli fino ai polpastrelli, altre resta in agguato, impedendomi di respirare profondamente o di ingoiare un solo boccone di cibo.

   Seduta su questa panca dura del tribunale della contea di Montgomery, in attesa che la pausa pranzo finisca, chiudo gli occhi e immagino che dopo l’udienza di oggi tornerò nella mia villetta e tu sarai lì a versare un bicchiere di vino a entrambi e a dividere una sigaretta con me, ridendo delle affermazioni dell’accusa. Poi torno al presente e ricordo che non mi stai aspettando, che non sei più in grado di ascoltare o ridere. Sono passati sette mesi e mi capita ancora.

   Speravo che stamattina andasse meglio, che il mio avvocato Ronald Jesper – ha l’aria di un quindicenne! – tenesse testa a quel presuntuoso del procuratore distrettuale, G.W. Pratt. Inizialmente lo studio mi aveva assegnato uno dei soci ma, dopo avere persuaso il giudice a rilasciarmi su cauzione, è scomparso e mi sono ritrovata con questo ragazzino che puzza ancora di aula scolastica. Ronald ha tenuto a informarmi che la Pennsylvania condanna a morte più assassini di quasi tutti gli altri Stati del Paese. Eppure ero sicura che avrebbe convinto la corte che non ho nulla a che vedere con la tua morte.

   Il testimone chiave dell’accusa è il poliziotto giunto per primo sul posto. Ha descritto quello che il procuratore Pratt continuava a chiamare “evento fatale”, anche se qualunque persona intelligente avrebbe capito subito che si sarebbe dovuto dire “incidente”. Come altro definire lo scontro tra un camion e un’auto?

   Il poliziotto ha risposto scrupolosamente a tutte le domande del procuratore. Sì, era una sera tranquilla, buia, senza ghiaccio né neve per terra o nell’aria. Sì, c’era poco traffico. Sì, aveva raccolto la deposizione del camionista, che tuttavia era stato poco loquace; un vero peccato perché, pur avendo riportato solo un taglietto sulla fronte per l’impatto con il parabrezza, la ferita si era infettata e l’uomo è morto nel giro di due giorni.

   Poi sono state mostrate le fotografie, più di una dozzina, scattate da ogni angolazione, ed etichettate come Reperti 1-17. Ronald ha sollevato un’obiezione, affermando che quelle foto erano pregiudizievoli per l’imputata, ma il giudice l’ha respinta. Il poliziotto le ha identificate tutte, una dopo l’altra: la disposizione dei veicoli; la posizione del corpo; anche il povero piccolo Fidèle, che ringhiava e scopriva i denti, impedendo ai medici di venirti a soccorrere. Poi il procuratore distrettuale le ha passate alla giuria. Due degli uomini hanno distolto lo sguardo, e una delle donne è diventata così pallida che ho temuto svenisse.

   Il procuratore Pratt, l’aria assennata e signorile, con i folti capelli grigi e il costoso abito gessato, ha raccolto le fotografie, si è avvicinato al tavolo della difesa e ha avuto il coraggio di sorridermi. «Desidera forse vedere queste fotografie del dottor Bradley, signorina Gregsby?» Con un lieve inchino mi ha porto il mucchietto di foto, come se si trattasse di un regalo.

   Non mi sono mossa. Non riuscivo a guardarle. Era già tremendo immaginarti così, immaginare l’effetto di quel camion enorme sulla tua Packard. Su di te. Immaginare il tuo terrore quando ti sei accorto che non si sarebbe fermato.

   «Non prenderle, Vivienne» ha sibilato Ronald, poi si è alzato.

«Obiezione!»

   Questa volta il giudice l’ha accolta, e la corte è passata ad analizzare il movente. Sono la principale beneficiaria, la tua erede, e quindi sono quella che ha più da guadagnare dalla tua morte. Pratt ha insinuato che, non essendo io tua moglie, questo fa sospettare di me, anche se non capisco il perché. Due esperti d’arte hanno fatto una stima della mia fetta di eredità. Uno ha valutato i duemilacinquecento dipinti e sculture che mi hai lasciato attorno ai venti milioni di dollari, l’altro almeno venticinque milioni. Non è strano che opere d’arte derise da tutti solo dieci anni fa adesso valgano tanto? Come ho sempre detto, sei stato un vero precursore.

   Edwin, perché sei dovuto morire proprio ora? Ora che sei riuscito a dimostrare a tutti che hai sempre avuto ragione. Tu, un uomo tanto brillante e creativo, hai affrontato tanti ostacoli e sei riuscito a superarli tutti. Non meritavi di finire così.

   Ma del resto pochi di noi hanno la sorte che meritano.

 

1.

   Paulien/Vivienne, 1922

   Paulien si rende conto che trovarsi in esilio a Parigi con duecento franchi in tasca non è il peggio che potesse capitarle. Ma la città è grande e affollata e lei si sente sola, nonostante il baccano e la confusione. Non la ricordava così. Vorrebbe essere ancora a Bruxelles, piena di speranze per il futuro, con le braccia aperte mentre la sarta le fa gli ultimi ritocchi all’abito da sposa. Abbassa lo sguardo sul diamante dell’anello di fidanzamento. C’è ancora speranza. È un errore assurdo, al quale George rimedierà.

   Il suo telegramma diceva: NON È COME SEMBRA. STOP. STO DANDO LA CACCIA AL BANCHIERE SVIZZERO CHE HA RUBATO TUTTI I SOLDI. STOP. TORNERÒ DA TE QUANDO CI SARÒ RIUSCITO. STOP. TI AMO. Il giorno in cui prende il battello lungo la Senna piove a dirotto, e non prova nulla vedendo la torre Eiffel o camminando lungo gli Champs-Elysées. Perfino una visita al Louvre, luogo sacro ai suoi occhi, la lascia fredda come le sculture classiche che ospita. Si preoccupa per i suoi genitori e i suoi fratelli, si chiede come se la cavino, cosa facciano. È nervosa, ombrosa, sussulta al minimo rumore, cerca in ogni volto un segno di George o di suo padre.

   Ha bisogno di tenere la mente occupata, e le visite ai monumenti non le bastano, è chiaro. Decide di cercarsi un lavoro in una galleria, come a Londra dopo la fine degli studi, per fare un po’ di esperienza prima di lanciarsi da sola. George le aveva suggerito di mettersi in proprio. Perché non lì? Non importa se la sua galleria si trova a Londra, Parigi o Bruxelles. Sorride, immaginando di chiedere consiglio a suo padre sugli artisti da scegliere per la prima esposizione.

   È vero, sono stati papà e maman a mandarla via. Quell’uomo ha distrutto tutto quanto abbiamo costruito per generazioni, e sei stata tu a portarlo qui, gli hai permesso di farci questo, l’hai aiutato! Le pare ancora di sentire le parole di sua madre. Non ci è rimasto nulla. Ciò che avevamo, ciò che tu, i tuoi fratelli e i tuoi figli avreste avuto. Tutto ciò che siamo. Il nostro nome, di cui andiamo fieri…

   Il ricordo fa tremare le gambe a Paulien. Ma maman saprà presto che si sta preoccupando senza motivo. George troverà il banchiere corrotto che lo ha imbrogliato rubando i soldi di tutti. A quel punto i suoi genitori capiranno di aver avuto torto a credere che quel banchiere non sia mai esistito, o che George sia un truffatore della peggior specie. George non raggirerebbe mai loro né lei, di questo è certa. Paulien indossa l’unico completo elegante che è riuscita a infilare in valigia prima di andarsene, mette il cappellino sulle ventitré ed esce in cerca di una galleria d’arte.

   È un tardo pomeriggio ventoso di fine estate nella città più incantevole del mondo, e si sente rincuorata. Le strade sono affollate. Donne eleganti – scarpe col cinturino e vestiti corti – bevono caffè e fumano sigarette, con le teste vicine, sedute al Pure Café dalla facciata rossa. Tavolini minuscoli e sedie di vimini ingombrano i marciapiedi, le vetrine dei negozi esibiscono le ultime novità: gli stivaletti con le stringhe e i cappelli con la falda. Le boulangeries, le facciate di marmo, le cascate di fiori, le passeggiate.

   Da sotto il tendone verde smagliante di “Les Deux Magots” a Saint-Germain-des-Prés, un bell’uomo con baffetti sottili le fa segno di sedersi con lui. Lei gli sorride e tira dritto. Tra le carrozze e i carretti, Paulien vede una Studebaker Roadster che evita abilmente ciclisti e pedoni. Nota che è lo stesso modello di quella di George, anche se è giallo vivo invece che blu scuro, e ne segue con lo sguardo il percorso, finché non scompare dietro l’angolo. Forse arriverà oggi.

   Entra in una galleria la cui insegna dice “Arnold et Tripp” all’8 di rue Saint-Georges. Il nome della strada sembra di buon auspicio. Il proprietario ha almeno cinquant’anni, la barba folta e un accento che le pare polacco. Paulien si presenta e gli parla dell’esperienza alla Whitechapel Gallery, dei suoi studi all’Académie Royale des Beaux-Arts di Bruxelles e alla Slade School of Fine Art a Londra, dell’infanzia in una casa che ospitava una vasta collezione di opere d’arte.

   Lui sta ad ascoltarla volentieri, ma alla fine dice: «Mi dispiace, mademoiselle. Mi piacerebbe la compagnia di una ragazza colta e bella come lei, ma non ne ho i mezzi né l’esigenza». I francesi sono sempre i soliti cascamorti, anche quando sono avanti con gli anni.

   Passa da Brame et Lorenceau, una galleria che ha legami con la famiglia Manet. Ma neanche lì trova lavoro. Parla con Marcel Bernheim da Bernheim-Jeune e con Henry Bing alla Galerie Nunes et Fiquet, con lo stesso risultato. Si ferma in una galleria specializzata nei pittori antichi – li apprezza ma non sono i suoi preferiti – poi passa da Boussod, Valadon et Cie, che vende solo stampe dei celebri artisti del Salon. Non ha fortuna.

   Le ombre si allungano, e Paulien si avvia verso l’albergo. Passando davanti alla galleria Durand-Ruel esita a entrare, ma poi riconosce un Cézanne sul muro più lontano: le pennellate ricche, l’energia debordante, turbolenta, il fiume di giustapposizioni rare e di combinazioni cromatiche. Si sente a casa.

   Entra nella galleria silenziosa, che puzza di chiuso, e si avvicina a Leda e il cigno. Cézanne. La collezione di suo padre include le Cinque bagnanti, delle quali si è innamorata da bambina: i blu, verdi e gialli vivaci; la rugosità della corteccia; le donne morbide e dalle forme generose che giocano nella luce filtrata. C’era qualcosa di magico nel piccolo quadro di poco più di sessanta centimetri di lato, che la consolava ed emozionava per motivi che era troppo giovane per capire.

   Paulien studia la tela che ha davanti, indovinando che Cézanne l’ha dipinta poco dopo il 1880. Non conosce bene questo quadro in particolare e, anche se di Cézanne preferisce le opere della maturità, il cuore le fa una capriola. I blu opulenti che contrastano con il giallo-arancione del becco del cigno e dei capelli morbidi di Leda, la sessualità che trasuda da ogni curva del corpo, da ogni piega del tessuto, il desiderio nel modo in cui il cigno afferra il polso di Leda. Le si mozza il fiato. George le manca. Lo desidera, ora.

   «Vedo che sta ammirando la nostra Leda, mademoiselle». Una voce profonda interrompe le sue riflessioni.

   Si gira verso l’uomo al suo fianco, massiccio e con le spalle larghe. Anche se sta diventando calvo, la pelle senza rughe suggerisce che abbia al massimo dieci anni più di lei. «Sì».

   «È un’ammiratrice di Monsieur Cézanne?»

   «Sì, ma preferisco i dipinti dell’ultimo decennio della sua vita». Tanto vale essere onesta, visto che non troverà certo lavoro in quella piccola galleria. «Quando ha cominciato a costruire oggetti con il colore invece che con il tratto».

   Il suo interlocutore si inchina lievemente e tende la mano. «Alexandre Busler» dice. «Sono del tutto d’accordo con lei».

   «Mi chiamo Paulien Mertens, e sono un po’ sorpresa di sentirglielo dire».

   «Non tutti i mercanti d’arte sono così attaccati al passato da non riuscire a vedere il futuro».

   Si inchina anche lei. «Mi scusi se l’ho presa per uno di loro».

   «Scuse accettate». Busler si gira verso il Cézanne. «Ma questo dipinto non è privo di meriti, vero?»

   «No, affatto. È provocante, stimolante. Tutte queste curve – il bacino e il braccio della donna, il collo del cigno, perfino i capelli di Leda e lo schienale della sedia – hanno un movimento così…» Vorrebbe dire «erotico», ma lo sostituisce con «seducente».

   Lui socchiude gli occhi, divertito. «Esatto. Seducente, come dice lei».

   Paulien si sente avvampare, e maledice il proprio pallore, che la tradisce sempre. «Mi piace il modo in cui si può seguire l’evoluzione delle sue idee. Qui, per esempio». Indica il viso. «La pelle della donna non è liscia e uniforme secondo l’ideale classico, ma è a chiazze. Trattata a pennellate larghe. E con colori che non verrebbe mai in mente di usare per l’incarnato: verdi, viola, arancioni».

   Busler arretra un poco e incrocia le braccia. «Desidera una tazza di tè? O qualcosa di più forte, forse?»

   «Un tè andrebbe benissimo, grazie». Paulien si toglie il cappello. Forse esiste la possibilità di un lavoro.

   Busler la precede in una zona appartata in un angolo della galleria e prepara il tè, mentre discorrono di Cézanne, Van Gogh, Seurat, Picasso e il preferito di Paulien, Henri Matisse. Di quando, e a opera di chi, sia iniziato il postimpressionismo. Mezz’ora dopo si danno del tu.

   «A sentirti parlare» le dice Alexandre Busler, «si direbbe che sei un’artista. Ma hai le unghie troppo pulite».

   Paulien gli fa un sorriso fugace. «In questo momento sto cercando lavoro».

   Lui pare confuso.

   «Come assistente. In una galleria d’arte».

   «Ma sei solo di passaggio a Parigi, no? Sento dall’accento che non sei francese».

   «Belga. Di Bruxelles. Ma ho studiato a Londra e ci sono rimasta alla fine degli studi. E adesso… abito a Parigi. O ci abiterò presto».

   «Ti piacerebbe lavorare qui? Nella mia galleria?»

   «Sì, molto». E si lancia a recitare le sue qualifiche.

   «Perché te ne sei andata da Londra?» chiede.

   Non può dirgli la verità, e risponde invece: «Non mi piaceva. Tutta quella pioggia. E gli inglesi…» Sua madre una volta le ha detto che non è necessario scendere nei dettagli per confessare a un francese la propria antipatia per gli inglesi. «Insomma, sai cosa intendo».

   «Già».

   Alexandre si alza e prende una penna e un bloc notes dalla scrivania. Glieli porge. «Per favore, scrivimi tutti i dettagli, i tuoi contatti, gli anni esatti in cui sei stata alla Slade e hai lavorato a Whitechapel, e tutto quanto dovrei sapere».

   Quando Paulien finisce, gli riconsegna il notes e chiede: «Hai un lavoro da offrirmi?»

   «Non l’avrei detto prima che entrassi, ma forse si può fare qualcosa. Anche se non è a tempo pieno e lo stipendio è misero, almeno all’inizio».

   «Non importa» gli dice Paulien. «Mi va bene».

   Alexandre legge quello che lei ha scritto. «Stai al Meurice?» chiede. «Perché vuoi un lavoretto mal pagato, se puoi permetterti di alloggiare lì?»

   «Io, ecco…» La domanda l’ha colta di sorpresa, e abbassa lo sguardo sull’anello. «Ecco, il fatto è che sto per sposarmi. E il mio fidanzato non ha problemi di soldi. Quindi…»

   Alexandre la osserva incuriosito, poi fissa il notes. «Mertens, Mertens…» ripete pensieroso. «Belgio». Poi alza gli occhi. «Aldric Mertens? Sei parente di Aldric Mertens?»

   Paulien tace di fronte al suo tono brusco e alla luce fredda nei suoi occhi.

   «Sei la figlia» indovina Alexandre, la voce carica di disprezzo. «Quella che frequentava quel verme di Everard». La incenerisce con lo sguardo. «Ecco perché sei un’esperta d’arte».

   «Per favore, Alexandre, lasciami spiegare. Non è come…»

   «Mio fratello è morto per colpa di… di…» Non riesce a finire la frase, e diventa rosso in volto. «Tuo padre, che reputava un amico, l’ha convinto a investire e lui ha perso tutto. Joseph non ha sopportato l’imbarazzo, il fallimento. Ha lasciato una moglie e tre bambini piccoli senza un centesimo».

   Paulien balza in piedi e fa un passo verso di lui. «Oh, no! No, mi dispiace. Mi dispiace tanto. È…»

   Alexandre alza le mani, e lei ammutolisce. «Te ne devi andare». Ha la voce roca, sta per mettersi a piangere. «E se sei furba, te ne andrai anche da quell’hotel. Da Parigi. Questa città è più piccola di quanto sembri».

   «Ma non capisci. È tutto un equivoco. Mio padre non sapeva niente, e poi… non c’era niente da sapere. Sarà tutto chiarito non appena George troverà…»

   «Non dirmi che tuo padre voleva solo aiutare Joseph a guadagnare qualche franco. No, tuo padre si prendeva una fetta dei guadagni, non ci sono dubbi. E tu, pronta a sposare quel… quel delinquente!» Alexandre prorompe in una risata amara, gli occhi due pozzi neri di derisione. «Adesso capisco perché il tuo fidanzato non ha problemi di soldi».

   «Ma papà non ha fatto niente, e neanche George. Un banchiere svizzero gli ha rubato tutti i soldi, e George sta…»

   «Togliti di mezzo!»

   Paulien corre fuori. Si allontana in fretta dalla galleria, svolta al primo incrocio, si infila in un vicolo e si appiattisce in una rientranza tra due edifici. Merde. Nessuno l’ha mai guardata in quel modo. Con tanto disprezzo. Disgusto. Chiude gli occhi per non provare vergogna, ma la sensazione non se ne va.

   Quando si ricompone, si precipita all’ufficio telegrafico più vicino. DEVO TORNARE A CASA, PAPÀ. STOP. TI PREGO, VIENI A PRENDERMI. STOP. ADESSO. E torna al Meurice ad aspettarlo.

   Si rinchiude nella sua stanza d’albergo, spaventata all’idea di essere vista, mangia poco e dorme il più possibile. Mano a mano che passano i giorni e non si fanno vivi né suo padre né George, comincia a farsi in strada in lei il sospetto che né l’uno né l’altro verranno. Che è rimasta sola. Forse George ci sta semplicemente mettendo molto a trovare quel banchiere, ma la turba essere l’unica a credere alla sua esistenza. E dov’è papà? Gli scrive una lettera al giorno, a volte anche più di una, ma non riceve risposta. Si nasconde sotto le coperte e piange come una bambina.

   Ma non è una bambina. È un’adulta, ha quasi vent’anni. Quando non ha più lacrime, si trascina giù dal letto. Vorrebbe essere morta, ma al tempo stesso desidera anche vivere. Conta il denaro che le resta: una volta pagato il conto dell’albergo, non le rimarrà quasi più nulla. Che cosa farà? Come sopravvivrà? Non ha risposte, ma sa di dover impegnare l’anello e trasferirsi in un alloggio meno costoso.

   Per la prima volta da giorni, esce dall’hotel e si dirige in quartieri che non ha mai visto. La sua famiglia è venuta spesso in vacanza a Parigi, ma mai in queste zone dai vicoli contorti tra edifici di legno premuti gli uni contro gli altri. Le donne per strada sono pallide e magre, e hanno l’aria esausta. Indossano abiti di cotone grezzo, spesso un grembiule; abiti e grembiuli non sembrano più puliti delle donne che li indossano. Gli uomini paiono ancora più malandati, con i pantaloni logori e i cappelli macchiati di sudore.

   Che effetto farà vivere in una povertà simile? Avere così poco, e forse nutrire ancora meno speranze per il futuro? Le viene in mente che anche lei potrebbe finire così, ma nonostante il silenzio dei suoi e di George, non riesce a crederci. Però deve procedere come se così fosse.

   Dopo le visite a tre banchi dei pegni, torna da quello che le ha offerto di più. Il negozio è piccolo e puzza come l’interno di una valigia vecchia. Il proprietario la fissa malevolo mentre si sfila l’anello. Non piangerà davanti a lui, non vuole. Ma ha l’impressione di annegare. Immagina George che torna al negozio per riscattare l’anello e rimetterglielo al dito, al suo posto. Questa immagine la calma quanto basta a prendere il denaro che l’uomo le offre, una frazione del valore del gioiello, cento franchi. Non le dureranno per molto.

   Deve trovare una stanza che si possa permettere, un posto sicuro dove stare fino a quando non si sarà inventata una soluzione. Non può tornare a casa senza un invito, non dopo che i suoi famigliari sono balzati subito alle conclusioni peggiori su di lei e George. Come hanno potuto credere che proprio la loro figlia abbia voluto truffarli? La sua famiglia? Non ha neanche i soldi per andarsene da Parigi. Vaga per le strade, si chiede se stia camminando in cerchio, non trova nulla.

   Finalmente vede un cartello che offre un alloggio per sole donne in rue du Cardinal Lemoine. La freccia indica una porta di vernice blu scrostata, tra un macellaio e un negozio umido che sembra vendere materiale da equitazione. Sale una rampa di scale e si trova davanti un’altra porta, in condizioni non migliori della prima.

   Sul pianerottolo traballante dice a se stessa che anche questo è un ostacolo provvisorio. Un episodio che lei e George racconteranno ridendo ai loro figli: un giorno papà fece a maman uno dei suoi stupidi scherzi e lei se la cavò benissimo da sola. George è un tale burlone. Come il modo in cui le ha chiesto di sposarlo, facendole credere di stare programmando una cosa mentre ne stava architettando un’altra. Paulien bussa.

   Una ragazza magra, con i capelli dritti appiccicati al cranio dal sudore, apre e la guarda diffidente. «Ti sei persa?»

   «Sto cercando una stanza».

   La ragazza ride, rivelando un incisivo rotto. «Non qui».

   «Non ce ne sono di libere?»

   «Non per te».

   «Ma ci sono stanze sfitte?»

   «Sfit-te» la scimmiotta, squadrandola da capo a piedi, e soffermandosi in particolare sulle sue scarpe. «Abbiamo una stanza in soffitta. Non è abbastanza elegante per te».

   «Posso vederla, per favore?»

   «Calda d’estate» continua la ragazza, «gelida d’inverno. Acqua fredda al piano inferiore e un gabinetto, poco più di un secchio in uno sgabuzzino».

   «Quanto?»

   La ragazza socchiude gli occhi. «Un franco alla settimana». Cerca di trattenere un sorriso furbo e ci riesce, quasi.

   Paulien si chiede se mercanteggiare, perché è certa che sia più del prezzo normale, ma dice: «La prendo».

   «Ce l’hai un nome?»

   Un nome. Paulien esita. Le serve un nome nuovo. Uno che nasconda la sua vera identità, una nazionalità che non sia la sua. Un cognome inglese, un nome francese. «Vivienne» dice, usando quello della sua bambinaia preferita. «Gregsby» aggiunge, il cognome di un professore che ammirava alla Slade. «Mi chiamo Vivienne Gregsby».

   «Bene, Vivienne Gregsby, dammi abbastanza soldi per due settimane e la stanza è tua».

   Paulien è sicura che si sta facendo imbrogliare un’altra volta: poche delle donne che vengono a cercare rifugio qui hanno la possibilità di pagare tanti giorni in anticipo. Sa di non potersi permettere di essere tanto generosa, e che la ragazza probabilmente ha più soldi di lei, ma le consegna un franco. «Ti darò l’altra metà domani» dice, rinunciando a chiedere di vedere la stanza, temendo di perdere coraggio. «Torno domattina».

   Prima di fare ritorno al Meurice per la sua ultima sera come Paulien Mertens, manda ai genitori un telegramma con il suo nuovo nome e indirizzo. Poi si ferma da un parrucchiere, si fa tagliare a caschetto i lunghi capelli biondi e li tinge di castano scuro. Una persona completamente diversa la fissa dallo specchio. Immagina che sia Vivienne Gregsby.

 

2.

   Vivienne, 1922

   La stanza di Vivienne è minuscola, c’è appena spazio per un lettino e due casse di legno con i suoi pochi averi. I litigi delle due sorelle proprietarie della pensione e lo stridio dei polli nelle stie sotto la sua finestra sembrano costanti, così come l’odore di carne cruda, di cavallo e di cuoio. Non può tornare nei quartieri che conosce meglio, perché teme di imbattersi nell’odio e nel dolore di Alexandre o di qualcun altro, e trascorre le giornate camminando per le strade dei dintorni, fumando senza sosta e cercando di rendersi invisibile.

   Mangia poco, il suo stomaco ha ormai le dimensioni di un pugno, è contratto come la mano di una vecchia. Ha perso almeno cinque chili da quando è arrivata a Parigi. È sempre stata in carne, e il dimagrimento ha cambiato il suo aspetto più del previsto. Le permette anche di risparmiare, ma non abbastanza. Le restano ottantasei franchi, e deve trovare un lavoro.

   Non un incarico non remunerato, come a Londra, ma con uno stipendio sufficiente a mantenersi e a mettere da parte abbastanza soldi per andarsene dalla Francia. Non aveva mai riflettuto veramente su un lavoro stipendiato, né sulla necessità di guadagnare, se è per questo. Le lezioni del padre su come prendersi cura della collezione Mertens non toccavano mai gli aspetti economici, essendo stata cresciuta nella convinzione che occuparsene fosse volgare per una giovane donna. Ma ora si ritrova senza soldi e senza contatti, diseredata e ripudiata, sola in un mondo che non capisce e per il quale le lezioni di piano, arte e dizione non l’hanno minimamente preparata.

   Nubi nere oscurano le sue peregrinazioni. Papà, maman, Léon, Franck, sentono la sua mancanza? Sanno dov’è, il suo nuovo nome, come trovarla, ma non viene nessuno. Pensano a lei? Le vogliono ancora bene? Non avrebbe mai creduto che la risposta a quelle domande potesse essere negativa. Ha nostalgia della sua famiglia. Di George.

   Soffre quasi altrettanto per l’esclusione dal mondo dell’arte. Suo padre è il proprietario di quarta generazione delle Fabbriche e Tessuti Mertens, il maggior produttore di cotone in Belgio, ed è anche un collezionista d’arte. Lei sogna di diventare collezionista da quando era piccola, di prepararsi a ereditare il patrimonio artistico di famiglia, iniziato dal bisnonno Mertens, ignorato dal nonno e incrementato dal padre. Ma non aspira a custodire solo le opere d’arte di famiglia. Intende trasformare un vasto granaio all’estremità orientale della loro proprietà nel Museo Mertens dei postimpressionisti, il maggior centro artistico postimpressionista del mondo.

   La maggior parte della collezione Mertens, dipinti europei del XVII e XVIII secolo acquistati dal bisnonno, si trova oggi nell’elegante ala nord del loro castello, aperta al pubblico cinque giorni alla settimana. Ma i quadri che lei e papà preferiscono – i dipinti che ha acquistato lui nel corso degli ultimi decenni contro i consigli dei suoi amici, che li ritenevano di qualità inferiore, opera di artisti pazzi – sono riuniti in una stanza dell’ala est, tra due file di colonne corinzie. Tre sono di Henri Matisse, La lezione di musica, Piatti e anguria e Natura morta con zucche; due di Pablo Picasso, Testa di donna e Donna con sigaretta; Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte di Seurat e le Cinque bagnanti di Cézanne.

   In origine questi sette quadri erano nell’ala nord con le opere più tradizionali, ma visitatori poco inclini al progresso avevano protestato, sostenendo che non erano opere d’arte ma solo croste di impostori privi di talento, e suo padre li aveva trasferiti nel colonnato. Crescendo, Paulien vi trascorreva più tempo che poteva, sfuggendo alle tate e ai precettori per restare tra i quadri.

   La sala era arredata con pochi divani e poltrone confortevoli, e la sua postazione preferita era proprio di fronte a La lezione di musica di Matisse, il suo prediletto. Si rannicchiava sul divano azzurro argento con il blocco da disegno e le matite; talvolta disegnava e altre volte si limitava a osservare, vagare con la mente, sognare, permettendo ai dipinti di trasportarla in un mondo lontano.

   All’infuori del personale, da piccola non aveva avuto molta compagnia. La proprietà familiare si estendeva per chilometri in ogni direzione, e sua madre aveva insistito perché venisse educata in casa, dagli stessi insegnanti noiosi che avevano istruito lei e le sue sorelle un secolo prima. Suo fratello maggiore Léon era troppo serio per risultare divertente, e il minore, Franck, era troppo piccolo per essere un vero compagno di giochi, anche se Paulien lo adorava.

   Sua madre, tutta presa da pettegolezzi e feste, da gioielli costosi e dalla cura della propria bellezza, era delusa che l’unica figlia non condividesse i suoi interessi. Maman diceva spesso che, nonostante il bel faccino, se Paulien non avesse cominciato al più presto a comportarsi come una signorina a modo, si sarebbe «sposata male», avrebbe dovuto rassegnarsi a un matrimonio con qualcuno di classe sociale inferiore, il peggior destino possibile. I dipinti, invece, erano sempre lì, pronti ad accoglierla nei loro turbini di emozioni, che lei stessa esaltava con le sue fantasie. Solo lì si sentiva viva.

   Un giorno, quando aveva circa undici anni, suo padre l’aveva sorpresa a piangere davanti a La lezione di musica. Imbarazzata e temendo di deluderlo, era balzata in piedi e si era asciugata le lacrime con la manica dell’abito. «Ciao, papà».

   «Perché piangi, tesoro?» le aveva chiesto lui.

   Paulien non sapeva spiegare ciò che provava, ma lui non le rivolgeva quasi mai domande personali, e gli volle rispondere. Per avere la sua attenzione. Gli indicò il quadro. «Io… mi sento sempre triste quando le persone sono sole. Nel quadro c’è una famiglia come la nostra, una sorella e due fratelli, ma non c’è un padre, e la madre è tanto lontana. Come se non le importasse di ciò che fanno i figli. E forse non interessa neanche al padre».

   Lui le lanciò uno sguardo intenso che non riuscì a decifrare. «Che cosa ti fa pensare che siano soli? Sono a casa, insieme, e si divertono».

   «Non… non lo so» balbettò. Quando il padre diede un’occhiata all’orologio, Paulien si affrettò ad aggiungere: «Forse è perché non si guardano tra loro. Il fratello più grande legge il suo libro, la madre lavora a maglia dietro la casa e, anche se il fratellino e la sorella sono seduti insieme al piano, c’è qualcosa che li tiene lontani. Non voglio che la nostra famiglia diventi così».

   «Molto bene». Papà indicò una grande striscia dorata – la cornice di un quadro – che separava le teste dei due suonatori al pianoforte. «Molto bene, Paulie». Guardò la figlia, il quadro, di nuovo lei. «Sei una ragazzina molto intelligente. Non come i tuoi fratelli, che non sanno stare fermi per il tempo necessario a osservare qualcosa».

   Questo commento la stupì. Le volte in cui il padre era a casa, invece che in ufficio, riservava la sua attenzione ai fratelli e a lei lanciava solo qualche occhiata indulgente ma distratta. La sera prima, a cena, aveva interrogato Léon a proposito dei suoi studi di fisica, sottoposto problemi di matematica a Franck, ma a lei aveva detto che doveva sorridere di più se voleva trovare marito. Sua madre si era subito dichiarata d’accordo.

   Felice di essere considerata per una volta migliore dei fratelli, Paulien esclamò: «Questa sala è il posto che preferisco al mondo, papà!»

   Lui le si avvicinò e le stampò un bacio sulla testa. «Sono felice che sia a tua disposizione ogni volta che lo desideri».

   Da quella volta aveva cominciato a parlare con lei dei quadri e delle sue idee sull’evoluzione della creatività, sul futuro dell’arte. Paulien adorava ricevere le sue attenzioni, erano le ore migliori della giornata. Un pomeriggio il padre prese una sedia e la avvicinò al divano dove lei era seduta. «Ti piacerebbe se un giorno questo fosse tuo? Tutta la collezione?»

   «Mio?» Lei era la figlia femmina e, anche se sapeva che non le sarebbe mai mancato niente, aveva sempre creduto che le proprietà sarebbero andate ai suoi fratelli. «Léon e Franck…»

   «Léon e Franck non avranno nulla da obbiettare. Non sono interessati all’arte. E la collezione meritadi essere curata e arricchita da qualcuno che ci tiene».

   «Io posso farlo» gli assicurò. «Me ne occuperò. Mi prenderò cura di tutti i quadri, anche di quelli più scuri del bisnonno. E ne troverò altri, che tengano compagnia ai nostri sette più speciali e anche a me».

   Nei cinque anni successivi il padre l’aveva istruita, cambiando il tenore del loro rapporto, condividendo con lei il suo amore per l’arte e rendendo più profondo il rispetto reciproco. Il padre, imprenditore ossessionato dall’ordine, affermava che la corrente artistica definita postimpressionismo gli forniva una valvola di sfogo, un modo per sfuggire al suo mondo controllato. Paulien, d’altra parte, una ragazza che ignorava le regole e amava ciò che era irregolare e incostante, si sentiva attirata dalla sfida ironica alla prospettiva tradizionale e dall’uso del colore grezzo ed espressivo da parte degli artisti.

   Il padre le insegnò a conoscere non solo l’arte, ma l’arte di collezionare. A scegliere sempre ciò che amava, solo i pezzi che corrispondevano alla sua visione, che avrebbero reso l’insieme maggiore della somma delle parti. La portò in musei, gallerie, case d’aste. Le spiegò che un vero collezionista non acquista per sé o i familiari nel presente, ma solo per i posteri. Un collezionista è un curatore, un custode, perché l’arte non si può possedere come un mobile, ma è senza tempo e va condivisa.

   Ora quegli insegnamenti sembravano del tutto vuoti, e la famiglia Mertens le pareva un riflesso della famiglia Matisse in La lezione di musica: divisa, sconnessa, spezzata. Proprio ciò che aveva confessato al padre essere il suo più grande timore.

   Vivienne vorrebbe tanto camminare tra le gallerie e i musei che un tempo dava per scontati, visitare gli atelier degli artisti, discutere le novità, ciò che è bello e ciò che non lo è, pensare a quel che meglio si adatta alla sua visione. Vede il fienile trasformato in un museo aperto e pieno di luce, muri bianchi coperti di tonalità blu e astrazioni stilizzate. Le lacrime cominciano a scendere.

   Per qualche settimana si lascia prendere dall’autocommiserazione, spende soldi che dovrebbe risparmiare in sigarette e telegrammi a Bruxelles, ai quali non ha risposta. Un pomeriggio è così depressa che sperpera denaro in sei éclairs. Siede a un tavolino fuori dalla boulangerie e ne divora tre in fretta; poi li vomita tutti in un cestino. L’odore del vomito combinato con la spazzatura rancida la sommerge, e corre lungo la strada, ingoiando boccate di aria fresca.

   Guarda una donna con due bambine: sbuca da dietro l’angolo, entrambe le danno la mano. Portano vestiti lisi, quelli delle piccole sono sporchi di carbone, ma cantano tutte e tre Frère Jacques, le bambine deliziosamente stonate. Alla fine della canzone, la donna si china per dare un bacio sulla testa delle due piccoline. Loro ridono e guardano in su con aria adorante.

   Quando arrivano davanti all’épicerie, un uomo male in arnese con la barba incolta si toglie il cappello, si inchina e apre loro la porta con un gesto cavalleresco. La donna sorride, fa la riverenza ed entra nel negozio. Le risate delle bambine tintinnano come il campanello sull’uscio.

   Nel giro di una settimana Vivienne trova lavoro in un minuscolo negozio di modisteria, e serve donne che risparmiano centesimi per mesi, forse anni, per comprarsi un cappello. All’infuori del personale della tenuta di famiglia, Vivienne non ha mai conosciuto donne del genere, ed è sconvolta dalla vita privilegiata che ha condotto finora, da ciò che ha sempre considerato normale. Le piacciono le clienti, la loro fierezza discreta e il piacere timido che provano quando posa loro un cappello in testa.

   In quel quartiere povero non c’è molto lavoro, e la modista può permettersi la presenza di Vivienne solo per due giorni alla settimana, che a lei non bastano a pagare la stanza e un pasto al giorno. Ma è rischioso cercare un lavoro con una clientela più agiata in una zona più ricca; anche con il cambiamento di nome, la perdita di peso e la nuova pettinatura potrebbero smascherarla. Perciò Vivienne resta in quelle strade dove non conosce nessuno, e dove nessuna delle persone che conosce verrebbe mai.

   Scopre un caffè vicino a rue du Cardinal Lemoine dove cercano una cameriera per alcune sere alla settimana e incontra un pittore che le chiede di posare per lui; lo ha già fatto alla Slade School per i suoi amici, come favore invece che per denaro. Trova qualche altro artista che la ingaggia allo stesso scopo. Con i tre lavori riesce a sbarcare il lunario.

   Scopre, sorpresa, che lavorare non le dispiace. Anzi, le piace, soprattutto posare, perché torna nel mondo dell’arte e degli artisti. Le dà un piacere perverso pensare che i suoi genitori resterebbero inorriditi. Sua madre sarebbe ancora più scandalizzata, se scoprisse che ha stretto amicizia con alcune ragazze della pensione.

   Adélaïde, che vive per conto suo da quando ha dodici anni e riesce a trasformare uno straccio in un vestito che sembra uscito da un negozio elegante. La piccola, delicata Rachelle, scappata da un orfanotrofio cattolico e che vive con il terrore, ben noto a Paulien, di essere riconosciuta, picchiata e riportata indietro per essere punita ulteriormente. E Odette, che non ha paura di niente e porta Vivienne a ballare il sabato sera. Capiscono tutte che lei è diversa, ma non le fanno domande, e lei ne è grata.

   Quando uno dei suoi artisti le confida che un collezionista d’arte americano, il dottor Edwin Bradley, ha perso il suo interprete e ha bisogno di qualcuno per muoversi nel mondo dell’arte francese, Vivienne chiede i dettagli. Parla correntemente inglese, fiammingo e francese. Anche tedesco e spagnolo, ma con un po’ meno scioltezza.

   Ma può farlo? Deve? Un incarico come quello la collocherebbe al centro della società parigina. Le viene un crampo allo stomaco al solo pensiero, ma non è riuscita a mettere da parte dei soldi e quel lavoro pagherà sicuramente più di quanto stia attualmente guadagnando. Sono passati due mesi dal suo arrivo, e il fatto che non sembri e non si senta nemmeno più Paulien Mertens significherà pure qualcosa.

   Viene fissato un colloquio per il giorno dopo. Deve incontrare il dottor Bradley nella lobby del suo albergo a mezzogiorno. Lungo la strada Vivienne fissa lo sguardo a terra e tiene il cappello a tesa larga ben calcato in testa. Rasenta gli edifici, svolta con movimenti furtivi e scopre stupita che si sente più a suo agio nella casa dove vive con una dozzina di altre commesse e tre stie di polli che nei quartieri eleganti che ha sempre frequentato. Le viene la tentazione di tornare indietro, ma continua ad avanzare. Ha bisogno di quel posto e, pur non avendo esperienza con i colloqui di lavoro, sua madre l’ha formata nell’arte di piacere agli uomini.

   L’hotel è piccolo ed elegante, silenzioso e raffinato, l’ideale per una clientela di ricchi europei. Proprio il genere di persona che Vivienne non vuole incontrare.

   Fortunatamente il dottor Bradley la sta aspettando all’ingresso. «Signorina Gregsby?» le chiede in inglese appena varca la soglia.

   «Sì» risponde lei, sempre in inglese. Le fa uno strano effetto riconoscere che non è più quella di un tempo. Non si toglie il cappello finché l’uomo non la conduce in un angolo discreto della lobby, lasciandole il tempo di cercare volti noti. Volti che teme. Volti che le mancano.

   Vivienne pensa che il dottor Bradley abbia una sessantina d’anni, e probabilmente da giovane era un bell’uomo. Qualcuno lo definirebbe ancora affascinante: alto, imponente, con un naso patrizio e la capigliatura folta, sebbene brizzolata.

   «La prego, si sieda» dice, e per la prima volta la guarda in faccia. La forza dei suoi occhi color ghiaccio, che riflettono un’intelligenza viva, è così intensa che per un attimo le pare che le stia guardando dentro e leggendo il pensiero. Date le circostanze, la sensazione la turba non poco.

   Prende una sigaretta dalla borsa e lui gliel’accende prima di accenderne una per sé. Lei gli chiede cosa pensa di Parigi.

   «Mi piace molto, ma non credo che l’attrazione sia reciproca».

   «Perché?»

   «Sono americano e non sento il bisogno di nasconderlo. Se decido che voglio qualcosa, lo compro».

   È una descrizione calzante di ciò che i francesi più disprezzano negli americani, e lei dice: «È un uomo che sa capire bene chi ha di fronte».

   «Grazie, signorina Gregsby». Siedono su due poltrone diagonalmente opposte, e lui posa il piede destro sul ginocchio sinistro. «Qui vengono create le migliori opere d’arte al mondo – geniali, coraggiose, libere – e io sono disposto a qualunque cosa, o quasi, per procurarmene il più possibile».

   Vivienne gli fa un sorriso caloroso. «Se non sono indiscreta, come è diventato collezionista?»

   «Prima ho provato a dipingere» dice il dottor Bradley, «ma non ero bravo. Così ora colleziono. È quasi altrettanto bello».

   «È vero» conviene lei. «Lo fa da molto?»

   «Da circa dieci anni. Il mio caro amico Bill Glackens… Conosce le sue opere?»

   Vivienne ammette di no.

   «È normale. È americano. Ha molto talento. Un postimpressionista, direi, ma americano. Ho molte sue opere. Bill mi ha portato in giro per l’Europa e mi ha mostrato come guardare le opere d’arte, come distinguere ciò che è bello da ciò che non lo è, come scoprire ciò che è veramente straordinario. E mi sono appassionato».

   «Dev’essere meraviglioso».

   «Lei sa qualcosa di arte?»

   «Ho studiato pittura all’Académie Royale des Beaux-Arts e alla Slade School of Fine Art di Londra. Poi ho lavorato per quasi un anno alla Whitechapel Gallery, subito fuori città. È il mio sogno diventare, un giorno, collezionista».

   Mentre parla, si rende conto che non avrebbe dovuto dirglielo. È un colloquio di lavoro, e il dottor Bradley avrebbe tutti i diritti di verificare le sue affermazioni. Se lo fa, scoprirà che Vivienne Gregsby non ha mai frequentato quelle due scuole né lavorato a Whitechapel. E non avrebbe motivo di chiedere di Paulien Mertens, che invece vi aveva studiato.

 

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L’autrice

Barbara A. Shapiro, scrittrice americana, è stata docente presso la Tufts University e insegnante di scrittura creativa alla Northeastern University. Tra i suoi romanzi pubblicati in Italia: La falsaria (Neri Pozza, 2013) e L’artista (Neri Pozza, 2016).

 

 

 

 

  • L’ apprendista
  • Barbara A. Shapiro
  • Traduttore: Maddalena Togliani
  • Editore: Neri Pozza
  • Formato: EPUB con DRM
  • Testo in italiano
  • Cloud: Sì Scopri di più
  • Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
  • Dimensioni: 695,43 KB
  • Pagine della versione a stampa: 368 p.
  • EAN: 9788854520868.  [btn btnlink=”https://www.ibs.it/apprendista-ebook-barbara-a-shapiro/e/9788854520868?inventoryId=189705639″ btnsize=”small” bgcolor=”#eded00″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 9,99[/btn]

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