Non è un pazzo né un cretino Justin Sun
L’ARTE SCIVOLÒ SULLA BANANA
di Marcello Veneziani
Non è un pazzo né un cretino Justin Sun, il collezionista cinese che ha comprato per oltre 6 milioni di dollari la banana di Cattelan.(1) Ha comprato in realtà uno spazio pubblicitario su tutti i media globali per quella cifra, ha avuto non solo il quarto d’ora di celebrità mondiale di cui parlava Andy Warhol, per restare nel campo, ma una notorietà e una rilevanza internazionali che gli daranno un ritorno, un profitto e una fama planetaria. Poi potrà perfino mangiarla, come ha annunciato, la banana, perché l’opera è il gesto, l’acquisto, la follia di una cifra così grande per un oggetto così banale. E non è un pazzo né un cretino Cattelan che vende banane a così caro prezzo e aggiunge fama a fama, con quel che segue sulle quotazioni di mercato. Il problema è il pianeta delle scimmie che abitiamo, che non sanno più distinguere l’arte dal suo contrario, riconoscono solo per decreto mediatico un’opera d’arte anche in un comune frutto venuto dalla natura e sospeso nel nulla. Gli ingredienti dell’operazione sono elementari, l’unico prerequisito è la riconoscibilità globale dell’artista; a un fruttivendolo non sarebbe andata altrettanto bene se avesse esposto una banana a sei milioni d’euro, e non solo per via della riproducibilità dell’opera d’arte, avendo caschi intere di banane e ritrovando banane a bizzeffe. L’opera d’arte è tutta nella testa dell’artista e nella sua decisione di chiamarla opera d’arte. Ma a decretare l’arte è il mercato. Poi che sia merda d’artista, pisciatoio o banana, va bene lo stesso.
Anzi, dirò che associare l’opera d’arte alla deiezione, alle feci o all’urina può essere perfino un messaggio estremo, se non una denuncia. Con la banana attaccata al vuoto siamo al nulla assoluto, il nirvana dell’arte, bananità come inanità. La bananità del male, per parafrasare Hannah Arendt.
Come mi capita di dire in altri campi, io non discuto l’operazione, la trovata, la libertà d’impresa, la notorietà derivata e perfino la vendita a quel prezzo. Discuto solo che si possa definire opera d’arte, e che possa essere affiancata o semplicemente denominata allo stesso modo della pietà di Michelangelo o all’ultima cena di Leonardo. No, è operazione meta-commerciale; surreale non è l’arte ma il marketing.
Non dirò nemmeno che l’arte è finita, siamo alla morte dell’arte. No, ormai le parole per annunciare la morte dell’arte sono finite.
Dico solo che è un’altra cosa. Il mercato si separa dall’arte, anzi si rende autonomo dall’arte medesima, e decreta il valore sulla base di fattori che con l’arte non hanno nulla a che vedere. Non è arte ma artite, come si dice dell’artrite; non è arte ma la sua infiammazione, cioè il suo stato patologico. Senz’arte l’importante è la circolazione del valore, la stima del mercato, le agenzie di rating dell’arte. Se l’arte o l’artista riconosciuto dice che questo chiodo è opera d’arte e decide di dargli un valore milionario, quel chiodo assume lo stesso valore della moneta virtuale, di un bitcoin o altra finanza scissa dalla realtà. Chiedo solo di non chiamarla più arte, ma Altra Roba, il totem di una fede provvisoria che regge sull’utenza, cioè sulla quantità di devoti, sull’episcopato degli operatori e sul mercato degli azionisti.
L’arte è un’altra cosa; l’arte è ispirazione, commozione, bellezza, trasfigurazione, simbolo, grazia, evocazione, significato, destino, copula mundi. E potrei ancora continuare. Un sottinteso è la speciale capacità dell’artista di esprimere qualcosa che tocca gli altri, che entra nella vita e nella mente degli altri, che evoca in loro qualcosa di inesprimibile. L’arte mette al mondo gli dèi. Un discrimine elementare tra ciò che è arte e ciò che non è, è l’inconfondibilità dell’opera d’arte con il resto. Non dev’essere l’artista, la galleria, il luogo e la firma a dirci che quella è un’opera d’arte e invece di essere un comune bidet, una banana o un chiodo. Ma la nostra elementare percezione.
Una volta dissi che la critica d’arte più efficace nei confronti delle opere d’arte moderne resta quella del film le vacanze intelligenti con Alberto Sordi, fruttarolo romano, e dunque intenditore di banane. I figli mandano i loro genitori ignoranti alla Biennale di Venezia nel vano tentativo di “acculturarli”; i due girano spaesati, la moglie stanca, coi piedi gonfi, a un certo punto si siede tra gli “stand” della Mostra; la gente si ferma a osservarla, discute, fotografa: viene scambiata per un’installazione, un’opera d’arte. Ecco, quando non distingui più tra un’opera d’arte e una fruttarola stanca che si siede perché ha i piedi gonfi, l’arte è sparita. Non può decretarla il luogo, il mercato e nemmeno la firma dell’artista, semplicemente non c’è arte. Più coerente fotografare l’estintore, ha la stessa funzione delle istallazioni: spegne il fuoco dell’arte.
Il pisciatoio di Duchamp spostato dalla galleria d’arte in una comune latrina, senza la targa con la firma dell’autore, verrebbe usato come cesso. La Venere del Botticelli in una latrina resta invece la Venere del Botticelli. Poi Duchamp è stato anche altre cose, e le licenze d’artista sono gite fuori porta, non c’entrano con l’arte, sono interruzioni, pause, provocazioni, secchiate d’acqua gelida per svegliare all’arte vera.
L’errore è il soggettivismo, o meglio il solipsismo d’artista, ossia la convinzione che sia l’artista a decretare ciò che è arte e a deciderlo sulla base del suo proposito: non è arte tutto ciò che l’artista decide che lo sia, non è arte la sua intenzione, è arte ciò che realizza un ponte tra la sua opera e gli occhi, la mente di chi osserva. Ogni opera d’arte è un’idea calata nel reale. È un incontro di sguardi, una connessione, un gioco divino tra chi dipinge, ciò che è dipinto, chi osserva e quel mistero che li unisce.
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