Un tempo, giocavamo a biglie

LE BIGLIE


Un tempo, giocavamo a biglie. Soprattutto in spiaggia, nelle lunghe giornate estive. Per ingannare la noia.
Ed erano biglie di plastica. Metà colorate, metà trasparenti. Per vedere l’immagine di un ciclista, più o meno, famoso. Perché, allora, il ciclismo, sport di fatica e solitario, era popolare ancora quanto, e forse più del calcio. Non erano ancora intervenuti i grandi scandali del doping, e, soprattutto, la mercificazione a rovinarne l’immagine. Che ancora aveva quell’alone romantico che risaliva alle generazioni precedenti. Quella di Bartali e Coppi, e, più indietro, di Binda e Guerra.

Ai miei tempi, però, le figure nelle biglie erano quelle di Adorni, Gimondi… e di Eddy Merckx.
Noi costruivamo una pista con la sabbia bagnata. Complicata. Tutta curve, dossi, gallerie. E si ingaggiavano interminabili giri e tour, sotto il sole. Tanto che la sera si rientrava con le spalle scottate. Che bruciavano da maledetti…

In città, invece, il gioco era diverso, ricordava più quello delle boccette sul tavolo verde del biliardo. Si doveva bocciare quella dell’avversario. E la si mangiava. Ovvero, diventava tua. E a seconda della tua abilità, il sacchetto delle biglie si svuotava. O diveniva più pesante.

Le biglie erano, essenzialmente, di vetro colorato. Ricordo anche biglie di ceramica dura, ma erano meno… belle. E quindi meno ambite. Perché, in questo gioco, la bellezza aveva un ruolo fondamentale. Quelle sfere iridescenti che ruotavano vorticose, si scontravano, cozzavano e allontanavano, esercitavano un fascino che andava ben oltre il gioco in sé. Erano di dimensioni diverse, grandi, medie, piccolissime alcune…sembravano disegnare un misterioso e ignoto sistema planetario. Conquistarle nella partita ti dava una sensazione di… potenza. Come se avessi acquisito, anzi meritato un tesoro prezioso. Che serbavi nel tuo sacchettino con orgoglio.

Eravamo bambini, naturalmente. Il gioco delle biglie veniva dimenticato alla fine dell’infanzia. Scontravano altri interessi. Lo sport, la politica, le ragazze… E il sacchetto di biglie veniva dimenticato sul fondo di qualche cassetto…

Anni dopo, però, mi capitò fra le mani un libro. Un vero e proprio tomo, centinaia di pagine. Mi faceva un po’ di paura, anche se, verso i sedici anni, ero già abituato a leggere dei veri e propri mattoni. Ma questo era veramente grosso…
Però l’autore lo conoscevo già. E mi piaceva. Hermann Hesse. Avevo già divorato “Pellegrinaggio in Oriente”, “Narciso e Boccadoro” e, soprattutto, “Siddhartha”. Che mi aveva colpito profondamente.
Con il senno d’oggi, potrei dire che Hesse è certo, un grande. Ma è anche uno scrittore che riesci davvero ad amare solo quando sei molto giovane. O, per lo meno, per me è stato così. Siddhartha è la storia di una ricerca spirituale. Che si traduce, dopo molte vicende, in una…illuminazione. Per me è stato importante. Anche se poi abbandonai Hermann Hesse per altri autori. Di ben altra sostanza. Meno… sentimentali. Thomas Mann. E, su tutti, Ernst Jünger.

Comunque, il grosso tomo, era ovviamente “Il gioco delle perle di vetro”, l’ultima opera, e la più importante di Hermann Hesse . Un romanzo filosofico. Ambientato in un futuro indefinito, come per altro sempre, in Hesse, le ambientazioni restano sospese. Mai definite. Men che meno realistiche.
In questo futuro, vi è un luogo separato dal mondo. La Castalia. Una specie di repubblica platonica, dove degli strani monaci senza una fede precisa, si dedicano esclusivamente all’arte e alla astrazione filosofica. Castalia è una sorta di scuola… magica. L’Hogarth di Harry Potter ne è, con ogni probabilità una derivazione. In chiave di racconto per ragazzi.

Nella Castalia questi “monaci” – educati sin dall’infanzia come il protagonista, Joseph Knecht – perseguono la pura astrazione. Estetica e intellettuale. Dedicandosi a discipline come la Matematica e la Musica, fra loro strettamente connesse. Cosa che, oggi, ci potrebbe apparire alquanto strana, vista la scissione sempre più netta fa sapere scientifico ed arte. Scissione di cui sono riflesse le nostre scuole, che inducono sempre più verso una cultura tecnica. E tremendamente arida.
Ma quando Hesse scriveva il suo capolavoro, a ridosso della II Guerra Mondiale, non era ancora così. Era ancora viva una visione sinergica delle arti e delle lettere. Di un sapere che era bellezza. Il retaggio di Platone, se vogliamo, un pensiero che è presente in sottofondo in tutto il romanzo. E poi, all’epoca, arti e scienze andavano ancora a braccetto. Come nel Rinascimento. La passione per il violino di Einstein. Che suonava, però, male, spesso fuori tempo. Tant’è che il suo amico Rubinstein una volta lo riprese: “Albert, uno, due tre…impara a contare…”
E poi un poeta come Valery. Che era un matematico. E il genio poliedrico di Pavel Florenskij. E, anche, una figura come Julius Evola. Pittore dadaista, filosofo reazionario e tradizionalista. Cultore di scienze esoteriche. Ma, di formazione, un matematico.

 

Torniamo, però, in Castalia. Su tutte le arti, tutte le discipline domina il Giuoco delle perle di vetro. Tant’è che il Magister Ludi è colui che governa la comunità. L’autorità suprema.
Però, per centinaia di pagine, Hesse mai ci spiega in che cosa consista questo giuoco. Cui si allude di continuo. Perché è il vero fulcro del romanzo.
E di questo giuoco ci viene detto che è costruito su un sistema di relazioni, analogie. Che implica, guarda caso, musica e matematica. Pur non essendo riducibile a nessuna delle due
Veniamo a sapere che, in antico, veniva praticato usando dei tasselli, o meglio perle, di vetro iridescente. Ma che, ormai, è trasformato in pura astrazione. Tuttavia una astrazione capace di incantare. E di donare momenti di intenso piacere.

Insomma del giuoco Hesse parla di continuo. Quasi ad ogni pagina. Ma non ci dà mai la più pallida idea di cosa, concretamente, sia. Delle sue regole. Delle sue strategie.
Una furbata da grande scrittore. Se avesse spiegato, il romanzo avrebbe perso fascino. Anzi, avrebbe corso il rischio di divenire una sorta di manuale di giuoco. Ben scritto, certo. Ma pur sempre un manuale.

E poi Hesse non aveva la più pallida idea di cosa fosse il Giuoco delle perle di vetro. Lo aveva, probabilmente, inventato mettendo insieme suggestioni letterarie. E memorie personali.
Si è parlato degli scacchi. E del Go cinese. Si è pensato al bridge e ai tarocchi. Che, prima che strumento divinatorio erano un giuoco di carte. Raffinatissimo. E complesso. Sino a qualche decennio fa veniva praticato ancora nelle Romagne.

Probabilmente nell’invenzione di Hesse vi è un po’ di tutto questo. E anche altro.
Tuttavia a me ha sempre colpito una cosa di questo romanzo. Il senso di meraviglia di fronte al giuoco delle perle di vetro. Alla sua bellezza. Alla sua capacità di dare forma transitoria a qualcosa che urge nel profondo. Il destino, forse… Il mistero del rapporto tra vita e astrazione intellettuale.
Il tutto, però, vissuto con un incanto poetico che sembra lo sguardo di un bambino…
Beh, credo che anche Herman Hesse avesse, nell’infanzia, un sacchetto di biglie. E fosse solito giocarvi per strada….

Andrea Marcigliano

 

 

 

 

[btn btnlink=”https://electomagazine.it/le-biglie/” btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Fonte: ElectoMagazine del 18 agosto 2022[/btn]

 

 

 

 

 

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