”Come nei romanzi di Paula Hawkins e Fiona Barton, un thriller su quel grande mistero che è l’amicizia femminile, spesso più simile a un campo di battaglia in cui ogni arma è permessa: tra invidie, rancori, piccole grandi bugie, una storia spaventosamente vicina alla realtà, in cui la tensione è palpabile a ogni pagina, e il colpo di scena sempre dietro l’angolo.
E se potessi conoscere i segreti sussurrati tra amiche? Ti stupiresti. Perché possono essere molto, molto pericolosi. Peonie fuori stagione, difficilissime da trovare. Una chiesa di Londra gremita di gente elegante. La musica comincia e le porte si aprono. Ma a entrare non è una sposa: è una bara. Dentro c’è una di loro. Una delle tre amiche: Lila, Nancy, Georgia. Amiche da sempre, dai tempi del liceo. Un’amicizia strana: fatta di dispetti più che di affetto, di piccoli tradimenti più che di lealtà, di tante bugie e pochissima verità. Eppure le tre donne sono complici, da sempre: nel proteggere qualcosa che solo loro sanno, e che non deve venire allo scoperto. Qualcosa che è accaduto molto tempo fa, e che ancora le terrorizza. Ma quella complicità è anche la loro condanna, il legame che non possono spezzare. E quando una di loro minaccerà di farlo, di rendersi finalmente libera, per lei non ci sarà scampo. Perché, come si suol dire, certe amicizie durano fino alla morte, e certi segreti si portano nella tomba. Come nei romanzi di Paula Hawkins e Fiona Barton, un thriller su quel grande mistero che è l’amicizia femminile, spesso più simile a un campo di battaglia in cui ogni arma è permessa: tra invidie, rancori, piccole grandi bugie, una storia spaventosamente vicina alla realtà, in cui la tensione è palpabile a ogni pagina, e il colpo di scena sempre dietro l’angolo.
La trama del romanzo.
Peonie fuori stagione, difficilissime da trovare. Una chiesa di Londra gremita di gente elegante. La musica comincia e le porte si aprono. Ma a entrare non è una sposa: è una bara. Dentro c’è una di loro. Una delle tre amiche: Lila, Nancy, Georgia. Amiche da sempre, dai tempi del liceo. Un’amicizia strana: fatta di dispetti più che di affetto, di piccoli tradimenti più che di lealtà, di tante bugie e pochissima verità. Eppure le tre donne sono complici, da sempre: nel proteggere qualcosa che solo loro sanno, e che non deve venire allo scoperto. Qualcosa che è accaduto molto tempo fa, e che ancora le terrorizza. Ma quella complicità è anche la loro condanna, il legame che non possono spezzare. E quando una di loro minaccerà di farlo, di rendersi finalmente libera, per lei non ci sarà scampo. Perché, come si suol dire, certe amicizie durano fino alla morte, e certi segreti si portano nella tomba.
Come inizia.
Le peonie non sono di stagione, quindi trovarle è stato un incubo. Per non parlare del prezzo: il doppio rispetto agli altri fiori. Ma erano i suoi preferiti, ed è questa l’unica cosa che conta. Dopotutto è un evento unico. Deve essere tutto perfetto.
Quando le porte si spalancano la navata sembra quasi sospirare, riempiendo la chiesa di aria gelida. L’organo sibila le note di un inno familiare, già cantato migliaia di volte: a scuola, ai matrimoni che un tempo avevano riempito i loro fine settimana e ai successivi, inevitabili battesimi.
Si alzano in piedi all’unisono. Scarpe lucide su superfici di legno, incastrate tra i banchi stretti. Quando è stata l’ultima volta che uno di loro è entrato in una chiesa?
Duecento occhi si voltano di scatto verso l’ingresso.Entra prima un prete, seguito da un uomo con il viso pallido e una cravatta annodata male.
Infine, il feretro.
Sembra impossibile che lei sia lì dentro, che la stessa persona che fino a poco tempo fa era così reale e piena di vita sia qui, eppure non ci sia più.
Chissà cosa penserebbe se si vedesse. Le andrebbe bene il completo che hanno scelto? Il compito di selezionare quegli abiti tristemente definitivi – la biancheria intima, le sue scarpe preferite con i tacchi vertiginosi, la sottile catenina d’oro al collo – era ricaduto su di loro. Tutti gli altri si erano rifiutati.
La processione si muove lenta. Poi, finalmente, la musica si ferma. La bara viene abbassata.
Si siedono.
C’è parecchia gente per essere un mercoledì mattina. Un centinaio di persone, in eleganti abiti neri. Cappotti invernali che avrebbero bisogno di un passaggio in lavanderia. Vestiti che stazionavano da tempo in fondo agli armadi e sono troppo stretti sulle braccia. Completi da ufficio. Camicie bianche. Cravatte.
La fotografia esposta per la funzione è davvero bella. L’hanno scelta loro. Era sembrato macabro passare in rassegna le sue pagine social, scorrere vecchi scatti di matrimoni, vacanze e feste, in cerca di una foto in cui apparisse sana e felice. Ma ne è valsa la pena. È un’immagine che consolida la bugia che tutti i presenti in questa chiesa si sono impegnati a ripetere. Che shock. Che tragedia inaspettata.
Quanto durano di solito queste cose? Non più di un’ora, giusto?
E poi quanto altro tempo dovranno restare? Sarà tutto molto triste e sgradevole. Tutti gli ingredienti di una festa – tanto cibo e buon vino –, ma nessuna leggerezza. Sembra quasi ingiusto riunire tante persone che non si vedono dall’ultimo grande evento comune e poi farle sentire in colpa per essersi lasciate andare a una risata.
Sono troppo giovani per tutto questo.
E poi c’è il problema di scegliere cosa dire. Le solite frasi di circostanza in questo caso non bastano.
Non si può affermare che abbia vissuto una lunga vita, né che abbia finalmente smesso di soffrire. Non si può attingere a nessuna forma di conforto.
Anche definirla una tragedia in fondo è inesatto. Nessun incidente di cui parlare, nessuna malattia con cui prendersela, perlomeno non una che un gruppo di persone beneducate potrebbe mai decidere di nominare in una simile situazione.
Sembra tutto sbagliato. Ogni banalità suona come un’accusa, come se fosse colpa di qualcuno se se n’è andata. Come se avessero potuto fare qualcosa. Come se la sua morte si fosse potuta evitare.
Adesso
Georgia
Lo smalto sull’unghia dell’indice sinistro di Georgia era scheggiato.
Il semipermanente non si sarebbe dovuto sbeccare. Quando era uscita dal salone era perfetto, altrimenti avrebbe chiesto di rifarlo, e adesso era già rovinato. Nancy se ne sarebbe accorta, naturalmente. Le avrebbe preso la mano fingendo di ammirare l’anello di fidanzamento e avrebbe inarcato un sopracciglio con un sorriso. Le sue unghie, invece, sarebbero state impeccabili. Smalto rosso scuro, quasi nero, come sempre.
Infastidita, Georgia affondò le dita nel composto dentro la ciotola, mescolando l’imperfezione delle sue mani alla carne, alle cipolle e alla salvia. Si chiese se qualcuno lo avrebbe mangiato. Sicuramente non Lila. Negli ultimi tempi sembrava seguire una dieta liquida a base di Coca-Cola Light di giorno e vino di sera. Il che significava sempre più lacrime, vomito e cose dette senza pensare. Georgia iniziava a temere che quella “alimentazione” dipendesse non tanto dal tentativo di perdere dei fantomatici chili presi durante la gravidanza quanto piuttosto da quello che stava succedendo nella sua testa.
Non aveva molto tempo. Avrebbe voluto finire di cucinare prima dell’arrivo degli ospiti, in modo da riempire la casa di aromi deliziosi. Ma non ce l’avrebbe fatta, a meno che non fossero in ritardo. Non avrebbe dovuto fare il test. Sarebbe dovuto durare appena tre minuti, ma inevitabilmente l’intero, triste processo era stato più lungo. Stare in attesa, lavarsi le mani, attendere ancora. Chiamare Charlie, fingere di non notare il tono accusatorio mentre metteva giù in modo sbrigativo, incastrando la sua amara delusione fra un appuntamento e l’altro con i suoi clienti. Era sempre così.
Ma sapeva che Nancy non sarebbe stata in ritardo. Non lo era mai. Arrivava direttamente dall’aeroporto, e nessun volo con lei a bordo avrebbe mai osato tardare. Ogni dettaglio della sua vita, dall’ordinato caschetto che portava da quando aveva venticinque anni alle scarpe di vernice, era perfettamente organizzato. Puntuale. Preciso.
Almeno la cucina era bella. Charlie aveva provato a opporsi, quando lei aveva insistito per trasformare metà del piano terra in quell’immenso open space. Ma adesso, con la luce del crepuscolo che filtrava
dalle portefinestre e la tavola apparecchiata per sei con fiori, candele e tovaglioli di lino inamidati, nessuno avrebbe potuto mettere in discussione il suo buon gusto. Nemmeno i suoi amici. Georgia, la ragazza con la borsa di studio, l’uniforme scolastica di seconda mano e le scarpe di Primark era morta e sepolta.
Il rumore di una chiave che girava nella serratura la distolse dai suoi pensieri. Scosse via i residui di carne tritata dalle dita e si girò verso il lavandino, aprendo il rubinetto con il gomito per sciacquarsi le mani. Charlie era uscito prima dal lavoro per tornare a casa ad aiutarla?
Sentì gli angoli della bocca che si piegavano in un sorriso. A volte sapeva essere molto dolce.
«Gee? Sono io.» Dall’ingresso arrivò la voce trafelata di Lila. «Scusa, sono in anticipo.»
Lila non era mai stata in anticipo in tutta la sua vita. Era la persona meno puntuale che avesse mai incontrato. Cosa ci faceva qui? Non si stava mica dando una regolata proprio adesso che lei aveva convocato Nancy da Boston per cercare insieme di farla ragionare?
Georgia le aveva dato una copia delle chiavi di casa per gentilezza e perché viveva a dieci minuti di macchina da loro. L’aveva fatto per le emergenze, non per consentirle di entrare quando voleva, ma evidentemente il messaggio non era passato. Georgia sfoderò un sorriso forzato e aprì le braccia per accogliere Lila.
«Pensavo che tu e Roo sareste arrivati alle otto.»
Non la vedeva da appena qualche settimana, eppure Lila era cambiata tantissimo. Era stata male? Aveva sempre avuto gambe e braccia snelle e toniche, ma adesso il viso sembrava scavato e, pur sfoggiando ancora il genere di abbronzatura che si ha soltanto se si passano otto settimane all’anno in vacanza sotto il sole, sulla sua pelle si intravedeva una sfumatura quasi giallastra. Per la prima volta da quando la conosceva, Georgia pensò che aveva un aspetto tremendo.
La guardò tirarsi su i jeans. Sarebbero dovuti essere aderenti, ma le ballavano intorno alle cosce. Indossava un top bianco largo e svolazzante, ma che continuava a scivolarle sulla spalla spigolosa.
«Lo so, mi dispiace per l’improvvisata, ma passavo di qui e Roo è tornato a casa presto, quindi può occuparsi lui del bambino e del resto. E poi volevo stare un po’ da sola con te prima che arrivassero gli altri. Va bene?» Il viso di Lila si contrasse e per un terribile istante Georgia temette che potesse scoppiare a piangere. «Ho fatto male? Vuoi che vada via? Posso chiamare un Uber, non è un problema. Passo da casa e poi ritorno… Vuoi che torni più tardi?»
Sì, lo voleva eccome. Anticipo significava arrivare alle sette e quarantacinque, quando l’invito era per le otto. Non alle sei, quando lei aveva ancora le mani sporche di carne tritata e una macchia di caffè sul vestito.
Stava per dirglielo, ma l’espressione sconsolata di Lila le strinse il cuore.
«Non dire sciocchezze, resta. Puoi darmi una mano.»
L’amica si rianimò immediatamente.
«Sei troppo carina a prenderti un giorno libero per preparare la cena a Sua Altezza» commentò Lila, seguendola in cucina. «A proposito, a cosa si deve questa visita? Siamo nei guai?»
Georgia continuò a sorridere, chiedendosi se la crema idratante colorata sarebbe bastata a nascondere il rossore sulle sue guance. «Certo che no. E poi non mi sono presa un giorno libero per lei, oggi non dovevo andare al lavoro.»
«Come mai?» chiese Lila, dirigendosi verso la cucina.
«L’ufficio è chiuso per un corso di aggiornamento, qualcosa del genere.»
Era stata una vera fortuna, il suo posto di lavoro era chiuso per un corso di formazione del personale e lei era potuta rimanere a casa: era quella la versione ufficiale dei fatti. L’aveva persino fatta ripetere a Charlie quella mattina e la sera prima, ma non era sicura che se ne sarebbe ricordato. Lui aveva alzato gli occhi al cielo come se fosse la cosa più stupida che avesse mai sentito. «Perché non possono sapere la verità?» le aveva chiesto. «Non c’è nulla di cui vergognarsi.»
E invece sì. Ci si vergogna sempre dei fallimenti. E, comunque la si voglia rigirare, non riuscire a restare incinta era un fallimento.
«Molte persone chiedono un congedo per questo motivo» aveva aggiunto. Ma non era vero. Era la prima dipendente dell’azienda a sfruttare la possibilità di congedo per la fecondazione in vitro. Sei settimane di ferie non retribuite mentre affrontava un calvario fatto di iniezioni, ecografie, procedure fastidiosamente invasive e – ed era questa la cosa peggiore – speranze brucianti destinate a venire continuamente deluse. Tutti sapevano che quella clausola non era pensata per essere veramente usata, era più uno dei tanti specchietti per le allodole aziendali con lo scopo di attrarre brillanti giovani laureate. Di certo non era destinata al personale amministrativo, a persone sostituibili. Come lei.
Ma Georgia lo aveva fatto lo stesso. Aveva chiesto un appuntamento con il capo, un essere centenario, gli aveva ricordato l’esistenza di quella postilla, spiegato tranquillamente la situazione e comunicato che
avrebbe trovato una sostituta che la coprisse durante la sua assenza. Gli aveva lasciato il tempo di sbattere le palpebre stupito, ma senza mai dargli modo di dubitare che sarebbe successo, a prescindere dalla sua approvazione. Nessuno sembrava aver pensato a come affrontare il problema più ovvio, ovvero che se al tuo ritorno in ufficio non eri incinta, chiunque ti avrebbe guardata come se tutta la tua famiglia fosse morta in un incendio. Ma quella era una possibilità che lei si rifiutava di prendere in considerazione.
Forse avrebbe potuto dirlo a Lila. Forse sarebbe stata una liberazione, lei avrebbe potuto capirla. Aveva avuto un bambino, sapeva cosa significava desiderare una gravidanza. Quando era sobria, Lila sapeva essere comprensiva. Ma non discreta, quello mai. L’avrebbe raccontato a Nancy.
Georgia si sforzò di non sussultare quando la vide gettare l’enorme borsa di pelle sul tavolino, sfilarsi le ballerine con un calcio nel bel mezzo della stanza e dirigersi verso il lato opposto della cucina. Senza alcuna esitazione prese un calice dalla credenza e tirò fuori dal frigorifero una bottiglia di vino. Georgia si concesse un silenzioso sospiro di sollievo: la preoccupazione che Lila potesse comportarsi bene convincendo Nancy che i suoi timori fossero esagerati era infondata.
«C’è solo roba sana qui dentro!» commentò Lila, che non aveva ancora chiuso l’anta del frigorifero e teneva il bicchiere appoggiato alle labbra. «E ho visto in giro anche del pane. Mangi carboidrati, adesso?»
Le faceva quella domanda almeno una volta al mese, quindi sapeva già la risposta, ma era una piccola routine nata durante il primo anno di scuola insieme, quasi vent’anni prima.
«No. Quello è di Charlie.»
«Quindi ancora non li mangi?»
«No, di solito mi limito ai frutti di bosco e a un po’ di yogurt greco. Non mi mancano» mentì Georgia.
«E la pizza?» chiese in tono provocatorio. «Non ti manca neanche quella?»
Dal canto suo, Lila non mangiava una pizza da qualcosa come dieci anni. Forse ne aveva rubato un morso a Roo mentre sedeva sulle sue ginocchia facendo la gatta morta, ma le probabilità che una significativa quantità di carboidrati raffinati avesse attraversato le sue labbra erano fra lo scarso e il nullo.
«Sì, mi hai scoperto» ammise Georgia. «E mi sei mancata anche tu. Mi spiace di essere stata così impegnata negli ultimi tempi.»
«Non c’è problema» disse Lila, abbassando lo sguardo. «È solo un periodo un po’ difficile. Inigo non dorme praticamente mai, Roo è sempre al lavoro, e io continuo a pensare a…»
«Credevo che Inigo stesse meglio» la interruppe in fretta Georgia. Non voleva sentire la fine di quella frase, non prima dell’arrivo di Nancy. «A cena con gli Henderson avevi detto che era un piccolo tesoro.»
Era stata una serata strana, a ripensarci. Lila li aveva accolti con gli occhi rossi e un sorriso tirato e aveva passato tutto il tempo a ripetere quanto fosse meraviglioso suo figlio. Aveva servito una zuppa tiepida e un pollo arrosto troppo secco, poi Roo si era allontanato dicendo di avere una chiamata di lavoro che non poteva rimandare. Gli ospiti se n’erano andati alle undici, ringraziando e dicendo di essere stati benissimo, mentre in realtà non vedevano l’ora di tornare a casa e dimenticare che quella serata malriuscita avesse mai avuto luogo.
Lila tirò fuori uno degli sgabelli, facendo stridere le gambe sul pavimento di marmo, e si sedette all’isola. Georgia si sforzò di non irritarsi.
«Sì, è vero, ho detto che era un piccolo tesoro… Ma credo di aver parlato troppo presto» rispose, versandosi altro vino. Se si fosse ubriacata prima del suo arrivo, pensò Georgia, Nancy l’avrebbe senz’altro ritenuta responsabile. Tipico di Nancy, che si era trasferita a Boston dieci anni prima, lasciandola da sola a Londra a prendersi cura di Lila. «Il più delle volte è un piccolo stronzo.»Georgia rise. A forza di guardare i suoi amici diventare genitori, aveva imparato che non era il caso di assumere un’aria sconcertata quando qualcuno definiva il suo bambino un “piccolo stronzo”.
«Dopo starà con la tata?»
«Babysitter. Anna se n’è andata, e non penso che la sostituiremo.»
«Davvero? Come mai?»
«Secondo Roo non ha senso avere una tata. Dato che anche prima non lavoravo molto e le mie entrate non erano granché, pensa che potrei rimanere a casa con Inigo. Risparmiamo ed è anche meglio per il piccolo.»
Fra loro scese il silenzio. La domanda: “Ma tu cosa vuoi davvero?” sembrava inevitabile. D’altra parte, però, erano Lila e Roo a dover scegliere come crescere il loro bambino, e un fondo di verità c’era, in effetti: l’attività di stylist di Lila non era mai decollata. Qualche scatto qua e là, un paio di video musicali per cantanti minori. Niente di sensazionale. E comunque non abbastanza da giustificare la sua assenza nella vita del figlio. Ad ogni modo, una volta che Georgia fosse rimasta incinta e avesse partorito, si sarebbero senz’altro date una mano a vicenda con i piccoli, in caso di necessità.
«Penso che sia un’ottima idea» disse Georgia con decisione. «Scommetto che un sacco di madri sarebbero invidiose di te, puoi stare tutto il giorno a casa con Inigo. E probabilmente fra poco avrai un altro bambino, non credi?»
L’espressione di Lila cambiò di colpo, come se l’amica avesse toccato un nervo scoperto.
«Che c’è?»
«Niente.» Il suo sguardo si abbassò sul bicchiere di vino.
«Scusa, era tanto per dire… Inigo ha quasi tre anni, pensavo che volessi un altro figlio.»
Lila si alzò puntellando i piedi sulla base dello sgabello e si sporse sul bancone. Afferrò il telefono di Georgia e illuminò il display. Lei si irritò per l’invadenza, ma non disse nulla. Non c’era motivo di rimproverarla, non così presto almeno.
Lila sollevò il cellulare e indicò l’ora. «Sei pronta?» le chiese.
Georgia avrebbe voluto insistere. Adesso voleva saperlo, voleva sentirle dire che lei e Roo non avrebbero avuto un altro figlio. Ma aveva perso l’attimo.
«No, certo che no. Devo cambiarmi» rispose invece, indicandosi i vestiti. «E devo anche farmi una doccia.»
«Davvero? Nance arriva fra un’ora e mezza. Lo sai, è la donna più puntuale del mondo. Anzi, tende all’anticipo. È una di quelle persone che non capiscono che arrivare prima a volte è molto peggio che presentarsi in ritardo.»
Ah, quindi Lila conosceva l’importanza dell’essere in orario. «Ti dispiace se vado a prepararmi?» chiese.
«Vengo con te» rispose subito Lila. Era la prima volta che sembrava felice da quando era arrivata. «Prepariamoci insieme. Perché la gente smette di farlo quando cresce? È divertente!» Si versò altro vino e si alzò. «Andiamo di sopra?»
La gente smette di prepararsi insieme quando cresce perché non ha più tanto tempo da perdere, pensò Georgia. E perché è bello avere un minimo di privacy quando ci si veste. Pensò ai lividi che le iniezioni le avevano lasciato sulla pancia. Charlie trasaliva quando le infilava l’ago nel ventre e poi faceva sempre la stessa battuta: «Sei bucherellata come una pesca della Georgia». Se Lila se ne fosse accorta le avrebbe fatto delle domande. E condividere i dettagli più intimi del suo matrimonio non era mai stato nello stile di Georgia, nemmeno nei tempi migliori.
«Potrei scegliere io i tuoi vestiti» propose Lila, aprendo il guardaroba e facendo scorrere le dita sui tessuti. «Per stasera, intendo. Questo tappeto è nuovo? È fantastico, mai sentito niente di tanto morbido.»
Era nuovo, in effetti. E anche le pareti erano state ridipinte, un grigio tenue che a quanto pareva veniva ricavato da conchiglie vere. La stanza era perfetta. L’unica ragione per cui aveva permesso a Lila di seguirla era che adorava entrare nella sua camera e vedere l’alto soffitto e il legno color crema con gli occhi di un’altra persona. Sembrava di essere in un albergo di lusso.
Dando le spalle a Lila per nasconderle la pancia, Georgia si sfilò il vestito e lo buttò sul letto, ripetendosi per la centesima volta che non era troppo grande per quella stanza. Suo marito era ancora convinto che lo fosse, nonostante lei e l’interior designer gli avessero spiegato che non era così. Dopo essersi messi insieme, Georgia e Charlie avevano cominciato a dormire da lei, nel suo letto singolo, in un appartamento condiviso a Fulham, perché i genitori di lui non volevano che dormissero nella stessa stanza in casa loro. All’epoca Georgia pensava che fosse perché i suoi suoceri disapprovavano il sesso prima del matrimonio, ma adesso sapeva che disapprovavano lei. Se Charlie avesse cercato di infilarsi nelle mutande di una con il background “giusto” probabilmente non avrebbero avuto problemi nemmeno a cedere il loro letto. Ma all’epoca non ci aveva pensato più di tanto, e comunque non le importava. Intrecciavano i corpi e riuscivano a dormire nonostante il poco spazio. Adesso invece Charlie tornava a casa così tardi che aveva perfezionato l’arte di scivolare nel letto senza far rumore mentre lei dormiva. O meglio, quando pensava che dormisse.
Prima si costringeva a stare sveglia, bevendo un caffè dopo l’altro e guardando repliche di Friends sul divano finché lui non tornava a casa. Ma alla fine aveva capito che non era quello che voleva lui. Dopo una giornata passata ad argomentare, gridare e discutere al lavoro, era come se avesse esaurito le parole, mentre lei aveva a malapena aperto bocca. La postazione di Georgia in ufficio era vicina all’ingresso, quindi era la prima a salutare chiunque arrivasse, ma poi andavano tutti al piano inferiore. A volte sentiva le risate provenire dal seminterrato e avrebbe voluto chiedere cosa stesse succedendo, ma sapeva per esperienza che non appena fosse andata di sotto tutti avrebbero smesso di ridere e nessuno avrebbe avuto voglia di spiegarle la battuta.
Dopo la proposta di matrimonio di Charlie, Georgia aveva cercato di trarre tutto il possibile da quella nuova situazione. Da anni le altre le chiedevano come mai avesse smesso di fare provini e quando avrebbe ricominciato a recitare. Adesso aveva la scusa perfetta.
«Per ora sono felice alla Greenlowe» spiegava a Lila e Nancy, ben sapendo che quest’ultima era soltanto gelosa perché… be’, chi avrebbe immaginato che sarebbe stata lei la prima a sposarsi? «Mi piace» mentiva. «E poi presto avremo dei figli. Non ha senso riprendere con il cinema o il teatro e poi dover mollare perché aspetto un bambino. Le attrici non hanno il congedo di maternità, lo sai.»
Nancy aveva fatto una smorfia, sottintendendo che lavorare nell’ufficio amministrativo di un’agenzia immobiliare non fosse all’altezza di Georgia. Come se la cosa danneggiasse anche lei per associazione. E in effetti, un impiego lì non era certo il sogno della sua vita.
Non c’era stato nessun bambino. Non ancora, almeno. E Nancy aveva avuto ragione, come sempre. Georgia si annoiava. Si annoiava terribilmente. Così tanto che si era offerta volontaria per delle attività di beneficenza e si era messa a ristrutturare le stanze di una casa che non aveva alcun bisogno di ristrutturazioni.
«Non mi serve una personal stylist» disse a Lila, che nel frattempo era scomparsa nella cabina armadio e continuava a far scorrere le dita sui suoi vestiti.
«Come fai a tenerla così in ordine?» rise l’altra, stringendo ancora il calice di vino. Se lo avesse rovesciato probabilmente sarebbe riuscita a macchiare in un sol colpo il tappeto e qualche costoso capo di cachemire.
«Non lo so. Mi viene naturale. Davvero, non preoccuparti, ho già scelto cosa mettere.»
Lila stava sfilando i vestiti dalle grucce, posandoseli sul braccio. «Rilassati, un tempo ti piaceva. Ricordi l’armadio di quando andavamo a scuola?»
Certo che se lo ricordava. Avevano riunito i loro vestiti in un unico, immenso armadio – avevano tutte la stessa taglia minuscola – per poterseli scambiare. Lo facevano persino con le uniformi. Georgia lo odiava. Ogni capo scelto accuratamente con sua madre durante le vacanze, acquistato in negozi di seconda mano centellinando il denaro, tornava indietro sformato, ristretto, macchiato o con una bruciatura di sigaretta. Lila e Nancy arricciavano il naso alla vista delle etichette sui suoi vestiti, ma poi li prendevano lo stesso e, non essendo abituate a dare valore alle cose e a prendersene cura, li rovinavano. Non sarebbero più stati soltanto suoi. Come ogni altra cosa nel suo mondo, sarebbero stati divisi per tre.
«A Georgia non piace condividere» la canzonava Nancy quando suggeriva di prendersi ognuna due o tre capi in esclusiva. «È perché non ha sorelle.»
«Nemmeno tu hai sorelle!» ribatteva lei, a voce un po’ più alta del dovuto. «Anzi, tu sei proprio figlia unica.»
«È diverso» replicava l’amica, senza sentirsi in dovere di spiegarne il motivo. Lei era così, allora come adesso. Tranne in questa occasione. Questa volta Georgia le aveva inviato un’e-mail per dirle che doveva tornare a casa: Va male. Sono preoccupata. Penso sia il caso che tu venga.
E Nancy, per la prima volta in tutta la sua vita, aveva fatto come le era stato chiesto. Lila l’avrebbe di certo uccisa se l’avesse saputo.
Lila emerse dal guardaroba e gettò sul letto una montagna di seta, in varie sfumature di bianco, crema, grigio e beige.
«Gee?»
«Sì?»
«Dobbiamo parlare.»
Lo stomaco di Georgia si contorse. Glielo ripeteva da settimane, e lei le aveva promesso che quella sera lo avrebbero fatto, consapevole che, se avesse agito diversamente, Lila avrebbe potuto inventare una scusa dell’ultimo minuto e non presentarsi alla serata, e in quel caso il viaggio di Nancy sarebbe stato inutile. E senz’altro Nancy si sarebbe infuriata e sarebbe tornata a Boston mollandola da sola in mezzo a quel casino. Aveva fatto di tutto per evitare quella conversazione, a parte coprirsi le orecchie con le mani e urlare. Nancy stava per arrivare. L’avrebbe aiutata, avrebbero affrontato il problema insieme.
«Certo, ma prima devo fare la doccia e vestirmi. Va bene?»Lila sembrava delusa. «Per favore…»Georgia prese un vestito di seta e un cardigan dal letto. «Pensavo di mettere questi, che ne pensi?»
Lila era come una bambina. Distrarla era fin troppo facile. I suoi occhi si spalancarono per l’orrore alla vista di quell’abbinamento. «Sei pazza? Vedi, te l’avevo detto che hai bisogno del mio styling!»
Georgia sospirò, rimettendo nell’armadio l’abito stampato di J. Crew, comprato all’inizio della settimana appositamente per quella cena. Il vestito che Nancy le avrebbe invidiato.
«Hai ragione, è una pessima idea. Mi aiuti a scegliere qualcosa?»
Prima
Lila
«Lila, ti prego, abbassa il volume. Solo un po’» disse Clarissa.
«Mia la macchina, mie le regole» rise Lila, alzando ancora di più in modo che la voce di Rihanna sovrastasse le lamentele. La moglie di suo padre non avrebbe voluto farla guidare fino a scuola, ma come sempre Lila l’aveva spuntata. «Altrimenti perché le avremmo preso una macchina?» aveva detto il padre a cena la sera prima, chiudendo la discussione senza lasciare scelta a Clarissa. Lila si era quasi dispiaciuta per lei. Era evidente che stava facendo di tutto per allontanarsi dallo stereotipo della “matrigna cattiva”, favorendo Lila rispetto ai suoi figli.
Sterzò bruscamente, dimenticando la freccia. Con la coda dell’occhio notò che Clarissa aveva aperto la bocca per protestare, ma poi ci aveva ripensato. Teneva una mano stretta alla portiera e l’altra contro il cruscotto. Se Lila avesse accelerato e si fosse fermata di botto probabilmente si sarebbe rotta il braccio. L’idea era allettante.
La macchina era uno dei vantaggi dell’essere più grande degli altri studenti del suo anno. Adesso tutti l’avrebbero invidiata. Sorrise dolcemente a Clarissa e staccò entrambe le mani dal volante, premendo l’acceleratore. Proprio mentre rimetteva a posto le mani una Volvo verde un po’ malconcia girò l’angolo ed evitò Lila di un soffio, sterzando sull’erba. Era troppo per Clarissa. Allungò un braccio. «Camilla! Devi tenere le mani sul volante sempre. Tutte e due!»
Lila sorrise e strinse il volante mentre il tettuccio lasciava posto al cielo. Clarissa l’aveva chiamata con il nome completo. Faceva un po’ tenerezza nel suo tentativo di esercitare una qualche autorità su di lei.
Erano quasi in fondo al viale, che sembrava infinito. A Lila tornò in mente la teoria di Nancy secondo cui era stato fatto così lungo apposta per scoraggiare chiunque volesse tentare la fuga: ci sarebbe voluto un secolo per raggiungere la strada principale dal collegio, talmente tanto tempo da farti perdere la voglia di vivere. Ma a Lila piaceva guidare sulla ghiaia, si sentiva a casa.
Le colline, i prati, il campo da lacrosse e quelli da tennis, il complesso di edifici color miele. Era tutto uguale, identico a come l’aveva lasciato due mesi prima, quando era tornata a casa per l’estate. L’unica differenza era che quando era partita a luglio ogni cosa aveva un aspetto logoro, mentre adesso l’insieme sembrava diverso. L’aria era più fresca, i vestiti nel suo baule avevano ancora le etichette e l’atmosfera era carica di possibilità. Tutto era pronto per ricominciare. Stanza nuova, libri nuovi, vecchi amici. Novità e sicurezze. Della scuola ci si poteva fidare.
Dopo aver passato l’estate in una casa in cui suo padre aveva sistemato la nuova moglie e i nuovi figli, Lila non vedeva l’ora di ritrovare i suoi spazi. Allungò la mano vero l’iPod: serviva una colonna sonora adatta per arrivare a Reynolds House.
La macchina raschiò contro un dosso. Per sbaglio aveva accelerato mentre armeggiava con lo stereo.
«Camilla, ti prego. Concentrati sulla guida, penso io alla musica.»
Le venne da ridere. Come no! Doveva ammettere che Clarissa non era vecchissima. Aveva solo trentasei anni, l’età perfetta per una matrigna: non abbastanza giovane da sembrare una sua amica, ma comunque molto più giovane di suo padre e sua madre, e ossessionata dall’idea di apparire vecchia. Di tutti i luoghi comuni che cercava di evitare, a questo non era riuscita a sfuggire. Se Clarissa provava a intromettersi in qualcosa, bastava chiederle come fosse stato crescere negli anni Sessanta per rimetterla al suo posto.
Clarissa doveva darsi una calmata. Stava reagendo in modo esagerato a ogni minimo errore di guida. Comunque, entro venti minuti una bella auto con l’aria condizionata l’avrebbe riportata a Londra, per giocare con i suoi veri figli e dimenticarsi dell’esistenza di Lila.
«Gee!» strillò Lila saltando fuori dalla macchina senza neanche spegnere il motore e sbattendo la portiera. Sulla soglia di Reynolds House, perfettamente incorniciata dall’ampia porta gialla, c’era Georgia. Indossava un paio di pantaloni della tuta blu, arrotolati in vita in modo da far risaltare la pancia abbronzata, e uno striminzito top bianco. I suoi capelli erano più biondi che mai, e aveva i polsi pieni di braccialetti.
Lila la strinse e iniziarono a saltellare su e giù. Sentiva il cuore scoppiarle di gioia nel rivedere la sua migliore amica. Notò che sul braccio aveva una striscia arancione dovuta all’autoabbronzante spray e cercò di non pensare a quanto dovesse fare schifo passare tutta l’estate in Inghilterra. Lei e Nancy avevano deciso di non parlare assolutamente della settimana che avevano trascorso insieme in Portogallo. E di continuare a fingere di credere che il motivo per cui Georgia non era andata con loro era un “matrimonio in famiglia”, quando sapevano benissimo che era perché non poteva permetterselo.
«Chi altro c’è?» chiese Lila, guardandosi intorno.
«Quasi nessuno. Sono arrivata per prima.» Poi, strillando, la strinse in un altro abbraccio. «Mi sei mancata!»
«Sembra che non vi vediate da anni» commentò la voce di Clarissa. Stava tirando fuori le valigie dal bagagliaio dell’Audi. Georgia si girò, e finalmente si accorse dell’auto. La fissò, poi guardò l’amica, piegando la testa di lato.
«No!»
Lila cercò di non sorridere. Non l’avrebbe mai ammesso, ma aveva dato un’occhiata alle macchine nuove nel parcheggio del collegio, e per il momento la sua era decisamente la più bella.
«Un’Audi decappottabile, davvero?» Georgia adesso stava sorridendo.
«Già.»
L’amica corse verso la macchina e si arrampicò sul sedile del passeggero senza aprire la portiera. «Stronza. Sei veramente una stronza. Come hai fatto?»
«Ha un padre troppo buono» rispose Clarissa mentre trascinava una delle valigie di Lila verso l’ingresso di Reynolds House. «Che le vuole molto bene.»
Georgia sfoderò il suo sorriso smagliante per la matrigna di Lila. «Magari anche i miei mi volessero tanto bene!» Era questo il suo lato migliore. Non sembrava mai gelosa, anche se lei non aveva mai niente di nuovo o di bello.
«Quando sei arrivata?» chiese Lila, abbassandosi le spalline del vestito. Poteva approfittarne per abbronzarsi ancora un po’ prima che il sole andasse via.
«Tipo cinque minuti fa.»
«Dov’è tua madre?» chiese Clarissa dalla porta. «Speravo di riuscire a salutarla.»
«Se n’è appena andata» disse Georgia, arrossendo. «Voleva restare, ma doveva tornare al lavoro.»
«Allora spero non fosse lei quella che Lila ha rischiato di mandare fuori strada!» rise Clarissa.
«Che macchina ha?»
«Clarissa, puoi andare a registrarmi, per favore?» gridò Lila. Poi si rivolse a Georgia. «Nance ti ha scritto?»
«Sì. Arriva più tardi. Ha detto di aspettarla per scegliere i letti.»
«Uffa.»
«Lo so.»
«Hai controllato la lista delle camere?»
«Non ancora, aspettavo te. Ma Cookie ce lo ha promesso.»
«Lo so, però… e se ha cambiato idea? È l’unica stanza tripla in tutto il collegio e, se non siamo insieme, il trimestre sarà un disastro.»
«Siamo l’unico terzetto. La daranno a noi, ne sono sicura.»
«Ragazze? Entrate?» gridò Clarissa dalle scale. Lila emise un sospiro teatrale.
«Smettila» disse Georgia. «Non è così male.»
«Perché la difendi?»
«Non la difendo, è solo che non la odio come te.» Georgia si raccolse i capelli in una coda.
«Io non la odio. È okay.»
«Ma non è tua madre.»
Lila si irrigidì. Di solito Georgia non toccava certi argomenti, e andava bene così. Proprio come lei non faceva domande sul lavoro dei suoi genitori o sulla sua divisa di seconda mano. «No, non lo è.»
«Lo sai che è incinta, vero?»
«Cosa?»
«Sicuro. È per quello che ti hanno preso l’Audi. Aspetta un paio di mesi e vedrai.»
Georgia con un altro salto uscì dall’auto. «Lascia che ti dia una mano, Clarissa, non dovresti portare cose pesanti!»
Lila inclinò la testa all’indietro e fissò il cielo. Porca miseria! Georgia aveva ragione, ovviamente. Per questo Clarissa le era sembrata tanto lamentosa mentre guidava, e per questo suo padre l’aveva abbracciata a lungo prima di salutarla la sera prima. Ma certo, cazzo.
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L’autrice.
Rebecca Reid è una giornalista freelance inglese. Scrive per The Telegraph, Metro ed Evening Standard, e lavora molto anche su radio e tv. Le bugiarde è il suo primo thriller, acquisito per una cifra vertiginosa dall’editore di Paula Hawkins, ed entrato nelle classifiche inglesi appena pubblicato.
Rebecca è regolarmente collaboratrice di Sky News e ITV di This Morning , oltre ad apparire su Woman’s Hour di Radio 4 , LBC , BBC News 24 e BBC World Service per discutere del suo lavoro.
Si è laureata presso l’Università di Bristol con una laurea in inglese e teatro nel 2013 e con la scrittura creativa di Royal Holloway nel 2015. Vive a Kentish Town insieme a suo marito.
- Le bugiarde
- Rebecca Reid
- Dimensioni: 411,82 KB
- Pagine della versione a stampa: 320 p.
Elisabetta Bordieri
20 Luglio 2019 a 12:30
Bello. Lo cerco e lo leggo.