”Piave non era solo un allenatore, ma un punto di riferimento, un maestro di vita. Non era un uomo da gregge, non prendeva scorciatoie. Questo insegnava ai suoi ragazzi
«Adesso usciamo e andiamo a difendere la nostra casa. Aiutatevi e siate coraggiosi. Non dimenticate ciò che siete: voi siete le formiche rosse di Nervi!»
E loro uscivano dallo spogliatoio. Calottina rossa in testa, uno dietro l’altro, una lunga fila di cuori gonfi di sacri propositi e di muscoli tesi per affrontare e scacciare l’intruso.
Avrebbero difeso la loro casa fino all’ultimo respiro.
Poi entravano in acqua: sei soldati e una regina.
Piave li incitava così i suoi ragazzi, con la sua stramba visione della vita e della natura. Un mondo capovolto, di gerarchie rovesciate.
Al vertice della sua piramide non c’era il leone o l’elefante, il più potente o il più grande tra gli animali della terra bensì il più piccolo, l’ultimo e il più insignificanti tra essi: la formica.
Ma quella di Piave non era una provocazione o una trovata per stupire ed alimentare il gusto del paradosso. Lui non amava i paradossi e le provocazioni lo infastidivano. Lui ragionava, spiegava e motivava, tenendo lontano come peste le apparenze ingannatrici e le opinioni comuni.
Non era un uomo facile Piave, né comodo o accomodante. Scegliere la via seguita da tutti, uniformarsi alle idee e ai giudizi correnti avrebbe significato più tranquillità e tanti problemi in meno. Ma Piave non era un uomo da gregge, non prendeva scorciatoie ed ogni idea, per diventare la sua, doveva attraversare le strette maglie della sua coscienza.
Questo insegnava ai suoi ragazzi: non portare il cervello all’ammasso. E i suoi ragazzi lo seguivano ciecamente, di lui si fidavano. Piave non era solo un allenatore, ma un punto di riferimento, un maestro di vita.
Ed allora, contrariamente alle apparenze e alle opinioni dei più, l’animale più forte della terra, spiegava Piave, è proprio la formica, l’unico in grado di trasportare, stretto tra le mandibole, un peso fino a cinque volte superiore al suo.
Riuscite forse ad immaginare un elefante indiano, che pesa due tonnellate e mezzo, stringere in bocca e trascinarsi dietro un camion? La formica rossa lo fa.
Nell’acqua i ragazzi della Sportiva Nervi portavano a turno il pallone, su e giù per la vasca, secondo le indicazioni di Piave. Che pretendeva dal singolo velocità, aggressività e ostinazione, che era il modo di essere della formica, e dal gruppo compattezza e unità, che era il modo di essere del formicaio.
Solo la solidarietà può portare alla vittoria, solo uniti si vince. Le formiche, ripeteva Piave, cosa ignota a tutti, possiedono due sacche nell’addome nelle quali vengono accumulate le sostanze alimentari; la prima viene utilizzata per le esigenze personali, il resto del cibo viene messo a disposizione degli altri.
Quando due formiche dello stesso formicaio si incontrano, si fermano, cominciano a toccarsi con le antenne e una volta riconosciutesi rigurgitano del cibo liquido l’una per l’altra.
Piave li voleva così i suoi ragazzi, uniti e solidali. Dare all’altro compagno, sacrificarsi per lui, aiutarlo. E vincere insieme. Era quella la squadra che voleva, coraggiosa e compatta, la sua Sportiva Nervi, un formicaio perfetto dove tutto procedeva con ordine secondo le regole precise che lui stesso aveva imposto.
Piave preparava le partite puntando sulla psicologia: sapeva bene che tutto nasce dal cuore. Da lì nascono le vittorie. La tecnica era importante, ma veniva molto dopo. Ed anche la tattica non era così importante, contrariamente alle opinioni dei soliti soloni dello sport, uno sport sempre parlato e mai praticato.
Ecco perché i suoi schemi erano semplici e lineari, mutuati dalla vita del formicaio. I soldati combattono e portano il nutrimento alla regina. In vasca, allo stesso modo, i giocatori combattevano e trascinavano tutti i palloni al loro centroboa. Lui era la regina della squadra.
La regina depone le uova e consente la continuazione della vita nel formicaio. Anche il centroboa deponeva le sue uova: erano i palloni che lasciava nella rete avversaria, i gol che garantivano le vittorie della Nervi e di conseguenza la sua sopravvivenza.
Il centroboa della Sportiva Nervi, la regina delle formiche rosse era lui, Paolo Cardinali. Torace possente, spalle larghe, si piazzava davanti alla porta avversaria in attesa del nutrimento che i suoi soldati gli avrebbero portato.
Piave riconosceva l’importanza della sua regina. Da lui accettava il contraddittorio. Solo a lui concedeva la trasgressione.
«Anche oggi Piave abbiamo salvato il nostro formicaio».
“Si, va bene, ma anche oggi non hai fatto la beduina. Anche oggi non mi hai voluto ascoltare”
«Lo sa bene che la beduina non la farò mai».
Le loro non erano semplici disquisizioni tecniche. Sul tavolo del bar Madamà ogni domenica sera si scontravano due opposti caratteri e due opposte concezioni della vita. Solo l’affetto che nutrivano l’uno per l’altro consentiva di unire i lembi di quella spaccatura. L’affetto era la loro linea d’orizzonte, ciò che permetteva di unire cielo e terra, elementi altrimenti destinati per l’eternità a rimanere lontani e diversi.
«Ascolta Paolo, dai retta a questi capelli bianchi. La vita ti travolgerà se decidi di prenderla di petto. È una lotta impari, destinata ad una sconfitta certa. È una fatica immane, superiore alle forze di un individuo. Non si può fermare un’onda con le mani. Non di fronte ma di spalle va affrontata la vita. Solo di spalle, facendo finta di niente. Solo se la vita si dimentica di te ti potrai salvare. La beduina è il simbolo di tutto questo. Sei di schiena, non fai paura e per questo gli avversari per un attimo hanno deposto le armi. Sono deconcentrati e inermi perché sei fuori asse. Ma questa situazione è insieme la tua forza e la tua salvezza. Solo così, spalle alla porta, segnerai il punto decisivo, sferrando il pallone esattamente lì, all’incrocio dei pali».
«Piave, la sua filosofia non mi convince. La vita la voglio affrontare a viso aperto, mettendo davanti ad ogni cosa l’uguaglianza e la giustizia. Non mi voglio nascondere. La formica la posso fare in acqua ma non fuori. E non userò mai meschini trucchetti da ladri levantini. La beduina è il gioco delle tre carte, è una furbata da suk orientale. È la negazione di ogni ideale di giustizia. È il sicario che ti trafigge alle spalle. A me non piacciono i sotterfugi, non mi piace dare le spalle alla vita. Ho le mie forze, basteranno quelle».
Le serate al Madamà finivano sempre così. Con Piave che scuoteva la testa ma commosso nel suo intimo dallo slancio della sua regina e dalla purezza di quegli ideali.
Forse perché quella freschezza gli ricordava tempi lontani.
Giorni così remoti che a volte dubitava di averli vissuti, giorni nei quali gli ideali di Paolo, libertà, giustizia, uguaglianza, lo avevano spinto a procurarsi un fucile e salire in montagna, cambiando tutto: nome, vita e speranze.
Così era nato Piave, il suo nome da partigiano. L’aveva scelto perché gli ricordava il fiume sacro alla Patria, i valori della Grande Guerra, il sacrificio di una generazione. Ed anche il limite invalicabile, la resistenza ad oltranza, morire piuttosto che arrendersi. Quel nome gli era rimasto addosso, e quanto agli antichi ideali, il tempo vi aveva depositato sopra un così fitto strato di polvere che solo uno sforzo della volontà avrebbe potuto farne riemergere l’antico bagliore. Troppa vita aveva consumato il senso di quelle parole.
Goccia dopo goccia, la disillusione aveva scavato profonde caverne nelle sue antiche convinzioni e alla fine di quel lento stillicidio si era ritrovato con l’amara consapevolezza che quegli ideali, così meravigliosi nella loro essenza, dei quali era così stato facile innamorarsi fino a decidere di rischiare la propria vita per salvare la loro, erano destinati a rimanere illusioni di carta, buoni per i libri di storia ma inconcepibili e irrealizzabili nel mondo degli uomini.
Realtà e illusione. Realtà e apparenza.
Piave ammoniva i suoi ragazzi. Siate pronti a cogliere ogni manipolazione. Scaltri burattinai coprono i loro sporchi affari sfruttando ad arte quelle sacre parole. Alzano una cortina di falsi sentimenti e di finti ideali per camuffare le turpi ragioni del loro agire. Sono maestri di ombre cinesi. Non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Quello che vedete non corrisponde mai alla realtà. È finzione, messa in scena, illusionismo.
Il vero si nasconde sotto traccia, non appare mai in superficie; si svolge al buio, dietro il paravento, e quello che infine si mostra alla luce è falso o è il risultato di tutto il lavorio che si è svolto nell’ombra. Le cose che contano, per necessità, per convenienza, per calcolo, per lucro, per interesse si svolgono sempre lontano dagli sguardi.
Forse per questo Piave si era appassionato alla pallanuoto, che vedeva come la plastica metafora della vita. Quello che conta non si svolge sopra l’acqua ma sotto. E non si vede: calci, spinte, trattenute. La splendida levigatezza dei gesti sopra la superficie è pura apparenza rispetto alla lotta senza quartiere che si svolge sotto, invisibile a tutti eppure decisiva.
Per Piave il vero stava sotto. Per Paolo il vero stava sopra.
Per Piave l’uguaglianza e la giustizia erano solo lontani rintocchi di una campana che non suonava più, pur avendo una volta chiamato a raccolta i giusti e i coraggiosi, e lui tra questi. Per Paolo erano ancora semi di vita, compagne fedeli da coltivare nel proprio animo per far gemmare da esse altri fiori, come la lealtà.
Mai avrebbe colpito proditoriamente un avversario sotto la superficie dell’acqua, per lo stesso motivo per il quale non avrebbe mai fatto la beduina. Né trucchi, né mezzucci, né colpi proibiti. Piuttosto perdere, ma in nessun caso e a nessun prezzo venire meno a quei principi.
Così per tutto il campionato l’urlo di Piave si era perso sugli spalti: «Paolo, ora, la beduina!».
Spalle alla porta, la regina si lasciava attraversare da quella voce. Invece di sferrare il tiro si lasciava sopraffare dal difensore. Veniva affondato, al più guadagnava un fallo ma il colpo non partiva.
Al termine del campionato mancavano solo tre partite. Le formiche rosse avevano macinato punti in classifica ed erano ad un passo da uno storico scudetto.
Leonessa Brescia, Canottieri Posillipo e Rari Nantes Bogliasco erano gli ultimi ostacoli da superare. Una intera città si era stretta attorno alle sue formiche.
Per la prima delle tre sfide la piscina comunale era stracolma di gente. I giornalisti avevano attinto a piene mani al facile accostamento animale: le formiche rosse di Nervi all’assalto della leonessa di Brescia.
All’agitazione collettiva faceva da contraltare la serafica serenità di Piave. D’altronde l’aveva studiata lui la piramide rovesciata. Secondo i livelli della sua gerarchia animale non aveva nessun dubbio su chi, tra formica e leone, alla fine della partita si sarebbe ritrovato in cima alla classifica.
Come seguendo una scia odorosa Valpe, Benetti, Pirro e gli altri soldati della Nervi percorrevano instancabilmente la traccia nella vasca per rifornire di palloni la loro regina. Che fece fino in fondo il suo dovere depositando nella porta della leonessa cinque uova per la gioia dell’intero formicaio.
«Paolo, ora, la beduina!». L’urlo di Piave anche quella domenica era però rimasto inascoltato.
I suoi gol la regina li aveva fatti tutti faccia alla porta, guardando negli occhi il portiere in uno scontro alla pari di tecnica e velocità di esecuzione.
Le zampate sott’acqua della leonessa ferita non erano servite a svuotarlo di forze. E dire che Paolo a quei colpi aveva dovuto aggiungere anche quelli presi il giorno prima e la stanchezza di un intero pomeriggio passato in questura, a Genova.
Non c’era manifestazione che non vedesse Paolo in prima fila. Dove c’era da sollevare la bandiera dell’uguaglianza e della giustizia, dove questi ideali sembravano in pericolo, lui era lì.
L’ultima lotta da sostenere era quella dei camalli, che reclamavano più sicurezza e turni di lavoro meno massacranti.
Era successo che qualche giorno prima, uno di loro, padre di due figli, dopo quindici anni di duro lavoro era stato schiacciato da due tonnellate di cellulosa. La pila di cellulosa era crollata perché poggiava su un bancale di legno non a norma, dalle dimensioni insufficienti a garantire la stabilità del carico. A volte era la fatalità ma più spesso era la stanchezza a causare gli infortuni e le morti. Ma il sistema non si cura delle difficoltà e della stanchezza dei lavoratori perché ogni rallentamento della movimentazione delle merci rappresenta un costo.
Sul lungomare Canepa la folla era tanta. Camminando aveva visto decine e decine di carabinieri e poliziotti con scudi trasparenti e caschi con la visiera abbassata.
All’improvviso aveva sentito il sibilo di un fischietto e i carabinieri si erano mossi a passo di carica.
Gente spaventata scappava senza una direzione precisa. Ma Paolo non era scappato né si era nascosto. Non aveva fatto nulla di male, se non mostrare solidarietà ai deboli. Non aveva fatto nulla per cui dovesse fuggire.
Si era sentito afferrare alla spalla. Un agente in borghese lo aveva spinto contro un muro insieme agli altri fermati. Davanti a loro si allungava un cordone di poliziotti, come un recinto umano, per impedire la fuga. Infine il trasferimento in questura e sul cellulare botte con i manganelli, così, a caso, come pioggia avvelenata. Li avevano sistemati tutti insieme in un grosso stanzone, senza sedie, maschi e femmine. Nel bivacco promiscuo, seduti o sdraiati per terra, attendevano il rigido dipanarsi della burocrazia dei gendarmi.
Anche Paolo dovette subire l’onta delle foto segnaletiche e delle impronte digitali.
Schiacciato contro una parete, due flash avevano colto, di faccia e di profilo, la sua strana espressione. Gli sembrava di stare dentro un brutto film americano e nell’istante in cui la macchina fotografica faceva fuoco con il suo click gli erano passate per la mente le foto segnaletiche di Al Capone, che una volta aveva visto su un libro di storia. Ecco, ora sono come Al Capone, e aveva sorriso.
La bobina del brutto film si era poi srotolata fino all’ultimo incredibile fotogramma.
Che nei commissariati si procedesse agli interrogatori nel buio più totale sparando in faccia al malcapitato la luce abbagliante di una lampada da tavolo Paolo lo credeva possibile solo nella finzione cinematografica. L’ottusità da processo kafkiano l’aveva invece resa pratica reale.
Al bar Madamà Piave si preoccupava della sua regina:
«Ti sarai sentito umiliato Paolo».
«No, hanno toccato solo il mio corpo, le mie dita macchiate d’inchiostro da premere su un cartoncino. In verità la situazione aveva un che di surreale. Era come se tutto quello non stesse capitando a me ma ad un’altra persona. Ecco, ad Al Capone per esempio. Io non ero lì, ero lontano dalle meschinità delle guardie dei padroni».
«Voli troppo alto Paolo. Ho paura per te. Volare troppo alto avvicina al sole. E prima o poi ci si brucia».
«Pensiamo alla Posillipo, Piave, lasciamo stare l’astronomia».
Paolo ritornava sempre volentieri a Napoli. Era una città che amava: per quella sofferenza vissuta in silenzio, per quel dolore che non urla, per quella dignità assurta a simbolo.
La sua bellezza struggente lo colpiva ogni volta allo stesso modo.
Prima di salire alla piscina sulle colline della città, Piave portava la squadra nei bassifondi.
Le formiche rosse ritrovavano in quei vicoli, a Spaccanapoli, nei Quartieri Spagnoli, il loro habitat naturale. Per loro era come ritornare a casa. La visita, negli intendimenti di Piave non era solo un modo per scaricare la tensione ma doveva avere anche una finalità pedagogica. Serviva a spiegare infatti che le formiche sono dappertutto, abitano il mondo intero. E basta toccarsi con le antenne per riconoscersi uguali.
Così le formiche di quei vicoli rigurgitavano dall’ingluvie cibo zuccherino per le formiche rosse di Nervi. Quella visione di povertà antica ma dignitosa, di felicità esibita sui balconi, in mezzo agli stracci, portava nutrimento ed energia a tutta la squadra.
Le formiche di Nervi in effetti non erano rosse per via della calottina. Non aveva sbagliato chi aveva parlato sottovoce della squadra di Piave come la squadra dei comunisti.
Ma a Napoli succedeva questo; la partita diventava un riscatto sociale. Le formiche di Nervi salivano sulle alture di Posillipo, in mezzo alle ville dei ricchi borghesi, e giocavano anche per le formiche dei bassi, contro i canottieri dei circoli esclusivi.
«Paolo, ora. la beduina!»
Neanche a Napoli Piave era riuscito a smuovere l’ostinazione della sua regina. Paolo era convinto che si dovesse perseguire un ordine sovraindividuale, rischiarato dall’uguaglianza e dalla giustizia, un sistema nel quale quegli ideali fossero la misura e il collante degli uomini. Piave invece aveva perso ogni illusione di cambiare il mondo. Dall’alto, dalla classe dirigente, non sarebbe mai arrivato niente di pulito. Non credeva perciò alla possibilità che fosse possibile costruire un sistema, ma ciononostante credeva nella moralità dell’individuo e nel suo libero arbitrio. Per lui non dall’alto ma dal basso poteva ancora arrivare la speranza. Non dal sistema ma dal singolo. In una parola: la morale della formica.
Ognuno faccia il suo dovere, porti la sua mollica per il bene comune. Non si pensi ai massimi sistemi, ad una organizzazione universale. Ognuno faccia ciò per il quale è stato designato e preposto. L’organizzazione generale verrà da sé. Come il frutto di migliaia di lavori individuali eseguiti con coscienza e moralità. Se ciascuno porterà la sua tessera, incastrandola nel posto giusto, alla fine il mosaico, semplicemente per una legge meccanica, sarà completo, senza crepe o zone vuote.
Quella di Piave era una morale individuale e non collettiva. Era la morale della responsabilità. Individuati i compiti non sarebbe stato possibile nascondere le proprie colpe dietro un alibi collettivo. Gli errori erano del singolo e la società non c’entrava nulla.
Tutto ciò comportava una assoluta integrità morale e la massima severità con se stessi. Non esistevano scappatoie. Il proprio dovere andava fatto e chi sbagliava doveva pagare.
Coerentemente con questa visione Piave dava tutto se stesso, senza sconti e cedimenti. I suoi ragazzi lo sapevano e per questo lo amavano. Si prodigava non solo per la prima squadra ma anche per i più piccoli: lui infatti era anche l’allenatore degli Esordienti.
E seguiva i suoi ragazzi non solo in piscina ma anche fuori. Organizzava gite e visite ai musei, controllava i voti, pretendeva il massimo impegno scolastico pena l’esclusione dalla squadra, li portava a casa per correggere insieme i compiti, leggeva con loro le favole di Esopo, li preparava alla vita.
Tra lo scudetto e la Nervi rimaneva solo una settimana e l’ostacolo di una partita, la più difficile, il derby contro la Rari Nantes Bogliasco.
Paolo non sapeva che quella settimana avrebbe sconvolto la sua vita. Ogni attimo si sarebbe impresso con un marchio di fuoco nella sua mente. Al termine di quei sette giorni le formiche rosse di Nervi sarebbero scomparse per sempre. E lui stesso, Paolo Cardinali, non sarebbe più stato la stessa persona.
La folgore lo colse mercoledì sera, sulla passeggiata a mare. La lanciò Pirro, proprio uno dei suoi soldati più fedeli. «Hai sentito regina, una cosa pazzesca, inaudita. Hanno arrestato Piave. Piave è in carcere, a Genova, accusato di pedofilia».
Era inaudito. Infami… bastardi… chi aveva potuto fare questo ad un povero vecchio, chi aveva potuto mettere in giro questa lordura e come avevano fatto a darle credito.
Le formiche rosse nella riunione del giovedì decisero che comunque avrebbero giocato, perché così avrebbe voluto Piave. Avrebbero giocato per lui.
Ma non era che l’inizio.
I giornali di sabato riportarono la notizia a tutta pagina. La terribile notizia si diffuse in ogni angolo della città. Piave, l’allenatore delle formiche rosse di Nervi, si era ucciso, impiccandosi in cella.
Paolo se lo sentiva. Sapeva che Piave non avrebbe retto ad una accusa così infamante. Vedere l’amore puro e disinteressato che aveva donato ai suoi ragazzi gettato nel fango di una diceria invereconda l’avrebbe schiantato. Vedere la sua dignità di uomo calpestata e fatta a pezzi per sempre gli avrebbe tolto l’aria e il respiro. Rinchiuderlo in cella voleva dire trafiggere la sua anima e soffocarlo per sempre.
Che futuro gli avrebbero riservato i suoi giorni? Non avrebbe più potuto avvicinarsi ai suoi ragazzi e il fango di quella infamia l’avrebbe accompagnato per sempre. Era meglio finirla qui. Per anni era riuscito ad ingannarla facendosi dimenticare, ma quando la vita ti inquadra nel suo mirino sei perduto, Piave lo sapeva bene. E così era stato.
Ma era questa l’uguaglianza e la giustizia? Si poteva ancora combattere per farle trionfare? Poteva avere ancora un senso scandire il loro nome nelle piazze, davanti ai cortei?
Come si poteva credere in un sistema che divora i suoi uomini migliori. Piave meritava un monumento Giovane idealista era salito sulle montagne per salvare la libertà e regalarne un pezzo a ciascuno di noi. Aveva rischiato la sua vita perché noi tutti ne potessimo avere una migliore. Da vecchio aveva messo a disposizione dei più giovani la sua esperienza, i suoi insegnamenti e aveva dispensato solo amore.
Altro che monumento, non aveva ricevuto neanche un grazie. E alla fine hanno anche tentato di rovesciargli addosso la loro merda. Che lui ha evitato, scartando di lato, con un ultimo colpo d’ali, e librandosi nel suo cielo, azzurro e profumato.
Un cielo destinato a pochi.
Un ultimo battito d’ali per gridare al mondo non riuscirete ad uccidermi, non mi toglierete la mia dignità, le vostre menzogne e le vostre infamie non mi toccano, sono più alto di voi e di loro: io sono libero, non mi raggiungerete, non mi colpirete.
Che giustizia era quella, capace di una tale ignominia.
Menti perverse erano riuscite a distruggere l’ordine del formicaio. La partita intanto incombeva; si doveva giocare, e si giocò.
Le cronache riportarono le fasi di una partita aspra e combattuta, incerta fino all’ultimo, con un’altalena di risultati a vantaggio ora di una ora dell’altra squadra.
Raccontarono che la partita fu decisa sul filo della sirena da una prodezza del centroboa della Sportiva Nervi, Paolo Cardinali. La regina aveva lasciato il suo ultimo segno.
Paolo se la ricorda bene quell’azione, l’ultima della partita e della sua carriera. Ai pochi che ancora glielo chiedono, a qualche vecchio tifoso che non ha dimenticato l’epopea delle formiche rosse di Nervi, quell’azione la racconta così.
«Valpe era esausto, la partita era stata tesa e combattuta ma con l’ultimo strappo dei nervi era riuscito a trascinare avanti il pallone sul lato sinistro della piscina. Poi l’ha indirizzato verso di me. Proprio in quel momento, all’improvviso, ho sentito un urlo provenire dal bordo vasca, lacerare il silenzio e rimbombare dentro di me. Paolo, ora, la beduina! E io ho afferrato quel pallone, l’ultimo della partita e spalle alla porta, con tutta la forza della mia rabbia l’ho scaraventato esattamente lì, all’incrocio dei pali. Insieme a tutto quello che ero stato e ai miei ideali anneriti dalla necrosi».
Il campionato era terminato e la Sportiva Nervi aveva raggiunto uno storico traguardo mai più ripetuto.
Ma negli spogliatoi non ci furono festeggiamenti. Quello non era il momento della gioia.
Tutti sapevano che quella loro magica armonia si era dissolta. L’incantesimo si era spezzato, la favola si era interrotta per sempre.
Ma prima di lasciare il formicaio e tornare miseri, fragili, vulnerabili uomini, prendendo a casaccio un qualsiasi sentiero che la vita avrebbe loro messo davanti, avevano ancora un gesto da compiere.
Si diedero appuntamento davanti al cimitero. Poi, davanti alla tomba di Piave, in fila indiana, uno dopo l’altro, gli resero omaggio. A modo loro. Appoggiando ciascuno sulla lapide la propria calottina rossa.
Fu quello il loro ultimo gesto da formiche.
Teodoro Lorenzo
Continua con altri racconti tratti dal libro “Le formiche rosse“. Amazon. Copertina flessibile : 400 pagine (15 gennaio 2021)