”cosa dà alla coscienza il suo carattere apparentemente primordiale
LE ILLUSIONI DELLA COSCIENZA
Scommetto che non c’è nemmeno uno fra noi che non sia in fin dei conti persuaso che, per parziale che sia l’apprensione della coscienza, dunque dell’io, è in ogni caso qui che la nostra esistenza è data. Pensiamo che nel fatto di coscienza, l’unità dell’io è, se non esplorata, almeno afferrata.
Al contrario, ciò che l’esperienza analitica mette in rilievo, cosa di cui Freud resta imbarazzato come un pesce d’una mela, sono le illusioni della coscienza. […]
Ma che cosa dà alla coscienza il suo carattere apparentemente primordiale?
Il filosofo sembra partire da un dato incontestabile quando parte dalla trasparenza della coscienza a se stessa. Se c’è coscienza di qualcosa, non è possibile, si dice, che questa coscienza che c’è non si colga da sé come tale. Niente può essere sperimentato senza che il soggetto possa cogliersi all’interno di questa esperienza in una sorta di riflessione immediata.
Su questo, senza dubbio, i filosofi hanno fatto qualche passo dopo il passo decisivo di Cartesio. È stata posta la questione, tuttora aperta, di sapere se l’io (je) è immediatamente colto nel campo della coscienza. Ma già su Cartesio si è potuto dire che aveva differenziato la coscienza tetica e la coscienza non tetica.
Non andrò oltre nell’investigazione metafisica del problema della coscienza. Vi proporrò, non un’ipotesi di lavoro – ritengo che non si tratti di un’ipotesi – ma un modo di farla finita, di tagliare il nodo gordiano. Poiché vi sono problemi che bisogna decidersi ad abbandonare senza averli risolti.
Si tratta, ancora una volta, di uno specchio.
L’immagine nello specchio, cos’è? I raggi che ritornano sullo specchio ci fanno situare in uno spazio immaginario l’oggetto che del resto è da qualche parte nella realtà. L’oggetto reale non è l’oggetto che vedete nello specchio. Qui c’è dunque un fenomeno di coscienza come tale. È quel che vi propongo di ammettere, per potervi raccontare un piccolo apologo che guiderà la vostra riflessione.
Supponete che tutti gli uomini siano scomparsi dalla terra. Dico gli uomini, visto l’esimio valore che date alla coscienza. È già abbastanza per porsi la questione – Che cosa resta nello specchio?
Ma arriviamo fino a supporre che tutti gli esseri viventi siano scomparsi. Restano dunque solo cascate e sorgenti – e lampi e tuoni. L’immagine allo specchio, l’immagine nel lago esistono ancora?
È chiaro che esistono ancora. E per una ragione molto semplice – nell’alto grado di civiltà cui siamo giunti, che oltrepassa di molto le nostre illusioni sulla coscienza, abbiamo fabbricato apparecchi che possiamo senza audacia alcuna immaginare abbastanza complicati per sviluppare da soli i film, riporli in piccole scatole e depositarsi nel frigorifero.
Scomparso ogni essere vivente, la camera può registrare lo stesso l’immagine della montagna nel lago o quella del Café de Flore che si sgretola in completa solitudine.
Senza dubbio i filosofi avranno tante e tanto acute obiezioni da farmi. Ma vi prego, continuate a seguire il mio apologo.
Ecco che gli uomini ritornano. È un atto arbitrario del Dio di Malebranche – dato che è lui che ci sostiene in ogni istante nella nostra esistenza, ha ben potuto sopprimerci e rimetterci in circolazione qualche secolo più tardi.
Può darsi che gli uomini dovranno imparare tutto di nuovo, e soprattutto a leggere un’immagine. Poco importa. Una cosa è certa – appena vedranno nel film l’immagine della montagna, vedranno anche il suo riflesso nel lago. Vedranno anche i movimenti che si sono prodotti nella montagna, e quelli dell’immagine.
Possiamo spingere le cose ancora di più. Se la macchina fosse più complicata, una cellula fotoelettrica puntata sull’immagine nel lago potrebbe determinare un’esplosione – bisogna sempre, perché qualcosa sembri efficace, che si scateni un’esplosione da qualche parte – e un’altra macchina potrebbe registrare l’eco o raccogliere l’energia di questa esplosione.
Ebbene! ecco ciò che vi propongo di considerare come essenzialmente un fenomeno di coscienza, che non sarà stato percepito da alcun io, che non sarà stato riflesso in alcuna esperienza egoica – essendo assente in tale epoca qualsiasi specie di io e di coscienza dell’io.
Mi direte – Ehi! un momento! L’io è da qualche parte, è nella camera. No, non c’è ombra di io nella camera. Mentre invece son pronto ad ammettere volentieri che l’io (je) c’è – non nella camera – in qualche modo c’è.
Vi spiego che è, in quanto impegnato in un gioco di simboli, in un mondo simbolico, che l’uomo è un soggetto decentrato. Ebbene, la macchina è costruita con questo stesso gioco, con questo stesso mondo. Le macchine più complicate non sono fatte che di parole.
La parola è in primo luogo quell’oggetto di scambio con cui ci si riconosce. E solo se avete detto la parola d’ordine, non ci si scanna, ecc. La circolazione della parola comincia così e si gonfia fino a costituire il mondo del simbolo che permette i calcoli algebrici. La macchina è la struttura, ma staccata dall’attività del soggetto. Il mondo simbolico è il mondo della macchina.
Si apre allora la questione di ciò che, in questo mondo, costituisce l’essere del soggetto.
Certuni sono assai inquieti di vedere che mi riferisco a Dio. È tuttavia un Dio che cogliamo ex machina, a meno che non estraiamo machina ex Deo.
La macchina fa ufficio di continuità per gli uomini: per un periodo assenti, avranno la registrazione di ciò che è capitato nell’intervallo proprio dei fenomeni di coscienza. E qui, posso dire fenomeni di coscienza senza edificare nessuna anima cosmica, né alcuna presenza nella natura. Perché al punto in cui siamo, forse perché siamo già avanti nella fabbricazione della macchina, non confondiamo più l’intersoggettività simbolica con la soggettività cosmica. Almeno, lo spero.
Se vi ho fabbricato questo piccolo apologo, non è per sviluppare un’ipotesi, ma per far opera di risanamento. Anche solo per cominciare a porre la questione di che cosa è l’io, bisogna staccarsi da una concezione della coscienza che chiameremo religiosa. Implicitamente, l’uomo moderno pensa che tutto ciò che è successo nell’universo fin dall’origine è fatto per convergere verso questa cosa che pensa, creazione della vita, essere prezioso, unico, vertice delle creature, che è lui stesso, in cui c’è quel punto privilegiato che si chiama coscienza.
Questa coscienza conduce a un antropomorfismo così delirante che bisogna cominciare a stropicciarsi gli occhi per accorgersi di che tipo di illusione siamo vittime. È nuova nell’umanità, questa stupidaggine dell’ateismo scientista. Per difendersi all’interno della scienza contro tutto ciò che può far riferimento a un ricorso all’Essere supremo, presi da vertigine, ci si precipita altrove – per fare la stessa cosa, per prosternarsi.
Qui, non c’è più niente da capire, tutto è spiegato – bisogna che la coscienza appaia, che il mondo, la storia convergano verso quella meraviglia che è l’uomo contemporaneo, voi, io, che corriamo per le strade.
L’ateismo puramente sentimentale, veramente incoerente, del pensiero scientista, lo spinge per contraccolpo a fare della coscienza il vertice dei fenomeni. Esso si adopera per quanto possibile – così come di un re troppo assoluto si fa un re costituzionale – a far valere questa coscienza come il capolavoro dei capolavori, la ragione di tutto, la perfezione. Ma non servono a niente, questi epifenomeni. Quando si affrontano i fenomeni, si fa sempre come se non avessero importanza.
La cura stessa di non tenerne conto sottolinea che, se non se ne distrugge il valore, si diventerà cretini – non si potrà più pensare ad altro. Non mi dilungherò sulle forme contraddittorie e puerili delle avversioni, pregiudizi, cosiddette inclinazioni a introdurre forze o entità che si chiamano vitalistiche, ecc. Ma quando in embriologia si parla dell’intervento di una forma formatrice nell’embrione, subito si pensa che, dal momento che c’è un centro organizzatore, non può non esserci una coscienza.
Coscienza, occhi, orecchie – c’è dunque un piccolo demone, lì, all’interno dell’embrione. Così non si cerca più di organizzare ciò che è manifesto nel fenomeno, poiché si crede che tutto ciò che è superiore implichi coscienza.
Sappiamo invece che la coscienza è legata a qualcosa del tutto contingente, contingente come la superficie di un lago in un mondo disabitato – l’esistenza dei nostri occhi o delle nostre orecchie.
Beninteso, c’è qui qualcosa d’impensabile, un vicolo cieco in cui vengono a cozzare ogni sorta di formazioni che nello spirito sembrano organizzarsi in modo contraddittorio. Contro di esse il buon senso ha reagito con un certo numero di tabù. […] Vi prego di considerare – per un certo tempo, durante questa introduzione – che la coscienza si produce ogni volta che è data – e questo si produce nei luoghi più inaspettati e distanti fra loro – una superficie tale da poter produrre ciò che si chiama un’immagine. È una definizione materialistica.
Un’immagine vuol dire che gli effetti energetici che partono da un dato punto del reale – immaginateli dell’ordine della luce, visto che è ciò che fa più immagine nella nostra mente – vengono a riflettersi in qualche punto di una superficie, vengono a colpire lo stesso punto corrispondente dello spazio.
Possiamo sostituire la superficie di un lago con l’area striata del lobo occipitale, poiché l’area striata coi suoi strati fibrillari è del tutto simile a uno specchio. Come non avete bisogno di tutta la superficie di uno specchio – ammesso che questo voglia dire qualcosa – per accorgervi del contenuto di un campo o di un luogo, dato che ottenete lo stesso risultato manovrandone un pezzettino, così qualsiasi pezzetto dell’area striata serve allo stesso uso, e si comporta come uno specchio.
Un sacco di cose all’interno del mondo si comportano come specchi. È sufficiente che ci siano le condizioni affinché a un punto di una realtà corrisponda un effetto in un altro punto, che si stabilisca una corrispondenza biunivoca fra due punti dello spazio reale.
Ho detto dello spazio reale – vado troppo veloce. Ci sono due casi – gli effetti, o si producono nello spazio reale o si producono nello spazio immaginario. Poco fa ho messo in evidenza ciò che capita in un punto dello spazio immaginario, per mettere in imbarazzo le vostre concezioni abituali. Avete così potuto accorgervi che tutto ciò che è immaginario, tutto ciò che è, per parlare con esattezza, illusorio, non è per questo soggettivo.
C’è un illusorio perfettamente oggettivo, oggettivabile, e non c’è bisogno di far sparire tutta la vostra onorevole compagnia per comprenderlo.
(Lacan, Il Seminario: 2)