”Il tempo del silenzio è finito. La donna invisibile è tornata.
Torna Sara Morozzi, la “donna invisibile” dai capelli grigi che ha il dono di leggere il linguaggio del corpo, già protagonista di Sara al tramonto. Questa volta c’è da indagare su un caso che coinvolge direttamente l’amica Teresa, ai vertici dell’unità segreta di cui in passato anche Sara ha fatto parte. Per risolvere un mistero che rischia di destabilizzare i più alti livelli degli apparati di pubblica sicurezza, Morozzi ricorrerà all’aiuto dell’intraprendente Viola, che adesso deve vedersela con la maternità, del goffo ispettore Davide Pardo e di Boris, il mastodontico, incontenibile Bovaro del Bernese.
La trama del romanzo.
Due donne si parlano con gli occhi. Conoscono il linguaggio del corpo e per loro la verità è scritta sulle facce degli altri. Entrambe hanno imparato a non sottovalutare le conseguenze dell’amore. Sara Morozzi l’ha capito molto presto, Teresa Pandolfi troppo tardi. Diverse come il giorno e la notte, sono cresciute insieme: colleghe, amiche, avversarie leali presso una delle più segrete unità dei Servizi. Per amore, Sara ha rinunciato a tutto, abbandonando un marito e un figlio che ha rivisto soltanto sul tavolo di un obitorio. Per non privarsi di nulla, Teresa ha rinunciato all’amore. Trent’anni dopo, Sara prova a uscire dalla solitudine in cui è sprofondata dalla scomparsa del suo compagno, mentre Teresa ha conquistato i vertici dell’unità. Ma questa volta ha commesso un errore: si è fatta ammaliare dagli occhi di Sergio, un giovane e fascinoso ricercatore. Così, quando il ragazzo sparisce senza lasciare traccia, non le resta che chiedere aiuto all’amica di un tempo. E Sara, la donna invisibile, torna sul campo. Insieme a lei ci sono il goffo ispettore Davide Pardo e Viola, ultima compagna del figlio, che da poco l’ha resa nonna, regalandole una nuova speranza. Maurizio de Giovanni esplora le profondità del silenzio e celebra il coraggio della rinascita, perché niente è davvero perduto finché si riescono a pronunciare parole d’amore.
Come inizia.
Le parole di Sara
A Fabrizio.
La parte bella di me.
In coda a questo romanzo compare il raccontoSarache aspetta, pubblicato nell’antologia Sbirre, con il quale inizia la storia di Sara Morozzi. Il lettore che volesse conoscere di più del passato della donna invisibile può leggere per prime quelle pagine.
I
E guardalo, allora.
Osserva il suo profilo, non appena la vista si è abituata alla lieve luminescenza che, obliqua, arriva da un lampione giù in strada, luce giallastra mossa dal vento. Riconosci nella penombra la linea della fronte e la curva del naso, uno skyline che ti spacca il cuore; riconosci la dolcezza e l’incanto e l’immensa tenerezza che sai nascondergli così bene.
Ora che dorme, non aver paura di tradire quel sentimento impronunciabile, nato e cresciuto tuo malgrado, quando ormai non ci pensavi più, quando ti credevi al sicuro e immaginavi la tua anima come un deserto, come il dorso screpolato di una brulla collina spiata da un drone.
Guardalo. Senza temere l’opinione di nessuno, tantomeno la sua. Senza curarti del tragico scoccare di una scintilla d’ironia o, peggio, della comparsa di un disinganno sottile. Guardalo perché in quel viso risiede la ragione stessa per la quale oggi ti senti ancora viva, e invece ieri i giorni e i mesi e gli anni erano diventati una banale sequenza di volti anonimi e anonime mani, su di te.
Ma sì, alzati, adesso. Sei brava a muoverti silenziosa come un serpente. Scivola tra le tue cose, nell’ambiente solitario che conosci bene, non producendo il minimo fruscio. Fermati nuda vicino alla porta, anche tu una sagoma sfuggente nell’oscurità. Dorme, e tu avverti il ritmo del respiro profondo, distingui il torace ampio e scolpito che si solleva e si abbassa, tagliato a metà dal lenzuolo stropicciato. Sembra quasi seta su seta, il tessuto sulla peluria accennata che non hai osato percorrere con una carezza leggera, perché lui non intuisse che c’è altro sotto il fuoco della passione. Ma il sentimento impronunciabile, germogliato dentro di te, esiste davvero e osa perfino sopravvivere all’acido scherno che ci versi sopra per spegnerlo, dall’istante in cui ti sei sorpresa a fantasticare di lui durante il giorno.
Vai in cucina, e versati un calice di rosso. Non accendere la luce, sfiora i contorni di cristallo con la punta delle dita come prima sfioravi quel giovane corpo vigoroso per condurlo dentro di te.
Giovane.
Giovane, sì. La parola chiave, che un tempo ti hanno insegnato e di cui hai compreso il segreto. Una parola in mezzo a un discorso, una tra centinaia e migliaia, un’aggregazione di lettere uguale alle altre, ma che, a differenza delle altre, svela il senso di tutto. Una sola parola, che custodisce ogni significato possibile.
Giovane.
E come negarlo? È giovane. Ha la metà dei tuoi anni; anzi, no, a essere rigorosi, a essere precisi e matematici, ne ha poco più della metà. E a essere cinici, a essere sarcastici: potresti essere sua madre.
Ma tu non hai figli, è vero, perché hai preso direzioni diverse, ti sei mossa su traiettorie differenti. Se fossi stata una ragazza come tante, se ti fossi fermata tra le braccia del primo che hai incontrato, quando a essere giovane eri tu, e forse un amante anziano e influente osservava nella penombra il tuo profilo, mentre dormivi nuda e radiosa e bellissima e soddisfatta, è probabile che te lo saresti tenuto, quell’uomo. E ti avrebbero chiamata “signora” e avresti spinto un passeggino, dio mio, che orrore, invece di conservare l’indipendenza per accumulare forza e potere.
Potresti essere sua madre, sì, ma non lo sei, pensi e sorridi luciferina nel buio, perché tu sei una lupa, e le lupe fiutano la carne fresca, e la desiderano. E allora no, grazie, niente marmocchi per Pandolfi Teresa detta Bionda, la prima donna a capo di un’unità per la sicurezza dello Stato, così riservata che nemmeno ha un nome. Niente figli e niente marito, sesso a volontà, se serve, eccome se serve, ma sempre rigorosamente occasionale, una botta e via, al massimo due, mai una terza.
E invece, rifletti mentre butti giù in un sorso il vino che hai versato senza fare rumore, e invece stavolta le botte sono state più di due. Diciamo che è trascorso un semestre, arrotondando per difetto.
Che ti è successo, Bionda? Te lo chiedi intanto che i tuoi piedi scalzi percorrono il corridoio guidandoti alla borsa, dove frughi per trovare le sigarette. Lo sai, che ti è successo? Perché proprio lui e perché proprio adesso che eri al sicuro, che non ti aspettavi più nulla?
Già, che volevi per te? Il silenzio, magari. La pace dei sensi, il corpo ammutolito. L’esaurirsi della voglia oscura, quella specie di febbre che ti invadeva a intervalli irregolari, stabiliti da chissà quale ormone in via d’estinzione; basta bisogni e basta esigenze, un po’ di serena libertà anche da quell’unico vizio. Ti eri quasi scrollata di dosso la dipendenza, il languore che ti spingeva a cercare una nuova preda là fuori, per l’ennesima gratificazione. Il brivido di riconoscere lo smarrimento negli occhi di un ragazzo, o anche in più d’uno. Quanto godevi a prenderne due alla volta, infaticabili e inquieti, forse troppo veloci, ma subito pronti, ancora e ancora, per riempirti le notti ed essere cacciati all’alba, senza preoccuparti di niente, senza esserti mai preoccupata di niente.
Quella meravigliosa sensazione di incredulità che leggevi sui visi insieme alle domande taciute: ma è possibile che una donna così bella, una pantera bionda dal corpo elastico e dalle curve da sballo, stia guardando proprio me? che mi stia sorridendo? che ci stia provando?
Ti inebriava, quella sensazione. Eppure andava scemando. Eri convinta che avrebbe vinto la quiete. Speravi che, prima delle rughe e dei segni sul corpo, sarebbe arrivato il disinteresse. Perciò, via, fuori la bramosia, e dentro altri piaceri: il potere, per primo. Poi i libri, il vino, la musica. E magari, alla fine, andartene come se ne vanno in molti della tua razza, a duecento all’ora contro un muro o giù da un terrazzo con vista panoramica sulla città.
Ma il destino – l’avresti dovuto prevedere – non sta là ad aspettare. Al destino piace scegliere e disporre da sé, senza lasciarsi influenzare dalla volontà delle persone. Quindi eccolo qui, bruno e bello al pari di un dio greco, gli occhi neri e ridenti e incantevoli, il volto senza segreti. Eccolo qui, identico a come l’avresti disegnato se avessi saputo disegnare, uno sgambetto irridente della sorte, un ostacolo imprevisto dietro l’angolo, prima di una curva che sembrava facile da percorrere.
Mentre fumi nuda, derogando alla tua stessa regola di non farlo in casa, fissando la strada deserta e lucida di pioggia due piani più sotto, ti domandi se ringraziarlo, il destino, o maledirlo. E stabilisci, una volta per tutte, di non credere a niente di diverso dal caso. L’hai incontrato, è successo, e ciao, ciao alla voglia di solitudine.
L’hai trovato, e allora? Meglio tardi che mai. Meglio adesso che cinque anni fa, quando eri assorbita dal lavoro, o tra cinque anni, quando non si sarebbe nemmeno accorto di te e non avrebbe avuto l’ardore e la furia che ora ti travolgono, come una droga, tre sere la settimana, limite che hai imposto tu perché lui, oh sì, lui ci verrebbe volentieri a stare da te, a casa tua.
Assomiglia a un lampo nelle tenebre la consapevolezza che ti si spalanca davanti, con la potenza delle illusioni, con l’intensità della fantasia amplificata dalla notte. E se glielo chiedessi? Se lo prendessi con te, se ti concedessi dopo tanti, troppi anni, di passeggiare tenendogli la mano alla luce del giorno, attraversando piazze, frequentando negozi e ristoranti, ridendo della curiosità della gente, assaporando gli sguardi famelici degli uomini su di te e delle donne su di lui? Se mandassi tutto e tutti al diavolo, e ti abbandonassi a questo tempo regalato dal destino, che non esiste, senza guardare al futuro e neppure al passato?
Se adesso lo svegliassi scuotendolo piano, e se cancellando la sua espressione inquieta gli sorridessi e gli dicessi che stavolta non dovrà alzarsi prima dell’alba, che non dovrà andarsene?
Se lo lasciassi addirittura dormire, spegnendo la sveglia per gustarti il sapore del pane tostato e l’odore del caffè fresco, col sole già alto?
Se per una volta ignorassi il mondo, il servizio, le prescrizioni e i giudizi delle alte sfere e ti concedessi alla vita come ci si tuffa nel mare d’agosto, fiduciosa di riuscire ad affrontare le onde e ciò che nuota nelle ombre dell’abisso?
Mentre fantastichi, le ragioni del no ti appaiono inconsistenti, inutili. Ogni tassello va al suo posto. Si chiederanno: ma che le è capitato? Forse qualcuno troverà perfino la faccia tosta di venire da te e balbettare una domanda. O meglio: un’allusione.
Sì, risponderesti. Mi sono innamorata. Sono felice, e piena, e sazia. Sazia, sì: una lupa finalmente sazia, libera dalla smania, da un appetito indefinibile.
Mi sono innamorata.
Perché lui, lui è speciale. Le sue mani sono appassionate, l’istinto le rende sapienti e capaci di regalarmi il paradiso. Con lui sono schiava e padrona, sono cielo e terra. Con lui ho conosciuto il piacere che non credevo esistesse e il dolore purissimo dell’assenza.
Da lui, risponderesti con gli occhi azzurri fissi in quelli dell’interlocutore immaginario, io dipendo, nient’altro mi serve; e se durasse un giorno soltanto, ne varrebbe la pena. Ne varrebbe comunque la pena.
Sorridi al buio, alla pioggia, alla strada. Prendi la decisione, giocando con la tua scelta quasi fosse la sigaretta che spegni nel posacenere.
E torni a letto, camminando lieve come in un sogno.
II
In genere, all’alba Sara si rassegnava.
Comunque fosse trascorsa la notte, occupata dal sonno o dalla veglia, costellata da sogni o incubi, accompagnata dalla musica in cuffia o da vecchi film, non aveva più importanza: se i primi raggi del sole la coglievano vigile, be’, non c’era altro da fare.
Da qualche tempo aveva rinunciato alle pillole che le impedivano di dormire. La fuga dai fantasmi del passato si era rivelata inutile; quella maledetta condanna a vedere i morti ai piedi del letto, mentre le chiedevano conto del perché fosse ancora viva, non andava combattuta rinunciando al riposo e restando, durante il giorno, in uno sfumato, patetico limbo di stordimento. Non era quello il modo, alla fine l’aveva capito.
I fantasmi di Sara erano due: il figlio, Giorgio, e il compagno, Massimiliano. Il primo, abbandonato quando aveva sette anni e ritrovato, senza averlo mai conosciuto davvero, sul tavolo di un obitorio, dopo una storia sbagliata; il secondo, per il quale aveva rinunciato a essere madre, sconfitto da una lunga, penosa malattia che l’aveva reso fragile e indifeso, trasformandolo nel contrario dell’uomo che era stato.
Senza accendere la luce, Sara si avviò verso la cucina, attraversando una casa di cui conosceva alla perfezione gli spazi.
Se l’alba ti sorprende, è inutile combattere.
Per anni Massimiliano e per mesi Giorgio erano andati a trovarla col buio. Uno la fissava con l’antica tenerezza, scuotendo il capo, in silenzio, come quando indovinava i suoi pensieri; poi, al risveglio, cominciava a ripetere le parole dette nel corso di una vita intera e lei le sentiva risuonare nell’anima. L’altro, invece, vomitava insulti con una voce da adulto che le era estranea, accuse gonfie di risentimento e odio: perché mi hai abbandonato? perché non mi sei stata accanto? perché hai lasciato che morissi? E Sara, che non aveva mai temuto niente, che aveva votato l’esistenza a smascherare finte emozioni e sentimenti bugiardi, che sapeva distinguere le reali intenzioni celate sotto la superficie dell’apparenza, aveva ingaggiato una lotta contro il sonno fino a diventare una squallida, triste donnetta, drogata dalla paura dei ricordi.
Poi, però, qualcosa e qualcuno l’avevano strappata a quella caduta inesorabile.
Nella penombra prese la caffettiera. Accompagnò nel filtro la pioggia di polvere bruna con le dita ad anello attorno al contenitore. Lasciò che le mani esperte cercassero e trovassero cucchiaino, tazzina, zucchero. Serrò addirittura le palpebre, per rinunciare alla tenue luminescenza che veniva dalla strada, sei piani più in basso.
Tu ti comporti così, amore mio. Ti comporti sempre così: vuoi punirti. Aggiungi ostacoli a quelli che già ci sono, appesantisci i carichi, incrementi le difficoltà. Sembra che tu ti stia allenando per qualche impresa impossibile, come se la vita non fosse mai abbastanza dura con te. Che pena mi dai, amore mio. E che dolore, scoprirti così poco indulgente con la donna che amo. Quando non ci sarò più, nessuno potrà difenderti da te stessa. Che peccato, amore. Che peccato.
Versò il liquido, e una goccia bollente le bruciò il dorso di una mano strappandole un breve lamento: ma non aprì gli occhi, per non rinunciare alla cecità che si era imposta.
Colpa mia, dovevo essere più precisa. Colpa mia.
Stringendo la tazzina, raggiunse la finestra che affacciava sull’altra scala del palazzo, distante una quindicina di metri. Il cortile comprendeva qualche aiuola e il parcheggio selvaggio degli scooter. Soffiando piano per raffreddare il caffè, Sara si appoggiò all’infisso e dischiuse le palpebre. Al di là del cancello, la strada era ancora deserta col suo lampione triste, sospeso tra la notte e il giorno.
Solo un paio di appartamenti erano illuminati. Al quarto piano filtrava il chiarore azzurrino di un televisore acceso, forse a proteggere il segreto di un’insonnia passeggera. Al quinto, una giovane coppia consumava la colazione.
Sara non conosceva nessuno dei vicini; per scelta, per indole e per deformazione professionale preferiva non condividere nemmeno un sorriso di circostanza o una battuta di cortesia. Anche per questo non usava l’ascensore, se non per scendere in cantina.
Per molto tempo si era chiesta cosa sarebbe accaduto se fosse morta all’improvviso, per un malore o per un incidente domestico. Chi l’avrebbe trovata, e dopo quanto? Che ne sarebbe stato di lei? E che sarebbe successo all’archivio di Massimiliano? Agli incartamenti conservati senza autorizzazione nella sua lunga carriera da fondatore e capo dell’unità più segreta per la sicurezza nazionale? A quei dossier lui aveva dedicato le sue ultime volontà. Spalancando in un sussulto gli occhi velati dall’agonia, le aveva stretto un braccio con una parvenza dell’antica forza e l’aveva pregata in tono deciso, nonostante la maschera dell’ossigeno, di distruggere tutto se avesse avvertito un pericolo.
Ma Sara non aveva avuto il coraggio. Le era parso che, assecondandolo, l’avrebbe lasciato morire di nuovo. E aveva deciso di tenere i documenti là, dietro il tramezzo ricavato nell’armadio dello scantinato. Che ti devo dire, Massi: speriamo che mi diagnostichino un cancro, quando sarà. Così avrò modo di adempiere all’unico tuo ordine che non ho eseguito.
Comunque non conosceva nessuno dei vicini, e quindi nemmeno i due che, nella casa di fronte, cominciavano così presto la giornata. Aprì la finestra, attenta a non provocare rumore. L’aria era limpida. Una moto sfrecciò, rompendo il silenzio.
L’uomo le dava le spalle. Spalle larghe, capelli biondi lasciati un po’ lunghi sulla nuca, indossava la giacca. Sara intravide un costoso orologio al polso, notò i gesti sicuri e sbrigativi. Pane tostato, burro, marmellata.
La ragazza era bella, anche in vestaglia e senza trucco. Si muoveva rapida, preparando una spremuta d’arancia. Lanciava sguardi insistenti verso di lui.
Sara aguzzò la vista, sorseggiando il caffè. Le labbra della sconosciuta articolarono parole mute che tuttavia a lei risultarono limpide come se fossero state pronunciate là, nella sua cucina. Quindi, come mai devi uscire così presto? Ah, sì, l’ispezione. A quest’ora? Che sono, galline?
L’altro si passò con calma le dita tra i capelli. Sicurezza, constatò Sara. Disinteresse nei confronti della conversazione. Ma anche consapevolezza di sé e del proprio fascino. Bevve un altro sorso, e si chiese come mai il riferimento a un’ispezione suscitasse un simile atteggiamento.
Il biondo stava parlando; anche se Sara non poteva carpire quello che diceva, riusciva comunque a intercettarne il riflesso sul volto dell’interlocutrice, che spingeva la lingua contro una guancia, il capo inclinato, l’espressione concentrata.
Non gli credi. Ti sta raccontando del lavoro, ti dà una spiegazione tecnica che non comprendi, e tu non gli credi. Provi fastidio, perché sospetti che ti stia prendendo in giro.
Il tipo si alzò, sistemandosi la giacca con cura e addentando un’ultima fetta di pane imburrato. Rifiutò la spremuta con un cenno che si sciolse in una frettolosa carezza. Lei sorrise stupita. Sara provò una fitta di dolorosa compassione, riconoscendo nella donna il bisogno di quel contatto e il desiderio di trattenere un momento piacevole. Non doveva capitarle spesso.
L’uomo uscì, lasciandola in piedi da sola a fissare perplessa il bicchiere. La giovane si sfiorò il mento; Sara era certa che avrebbe compiuto quel preciso gesto. Vorresti scappare, vero? Tirarti fuori da questa situazione, fuggire per non rimetterci le penne, per restare viva. Vorresti, ma non ci riesci. Vorresti, ma sei terrorizzata.
Nel frattempo, nel cortile era comparso il biondo, che adesso pareva avere molta meno fretta. Ora Sara lo distingueva chiaramente: era azzimato ed elegante, aveva lineamenti regolari e un fisico palestrato, portava una barba all’apparenza incolta ma in realtà curatissima e abiti all’ultima moda.
Si fermò prima di aprire il portone, c’era freddo. Tirò fuori il cellulare dalla tasca e armeggiò con l’apparecchio. Sara cercò con lo sguardo la figura in vestaglia che si era lasciata cadere sulla sedia. Con le mani sul volto, scuoteva piano la testa.
Lui stava parlando al telefono, un sorriso ebete sulla faccia. Tranquilla, arrivo subito. È uscito, il coglione? Sei sicura, sì? Abbiamo almeno due ore, mi sono inventato un’ispezione. Lei? Lei non capisce un cazzo. A tra poco. Si passò un dito sulla bocca.
Sara intuì la segretezza, e l’autogratificazione.
L’hai già cancellata, no? Hai chiuso la pratica.
Lei nel frattempo si era alzata con aria stanca, i palmi sul tavolo, sembrava vecchia e priva di forze. Uscì dalla stanza ciabattando e spegnendo la luce, mentre il compagno girava l’angolo a passo allegro, tirandosi su il bavero.
Che dannazione, la mia. È orribile leggere libri così brutti, e in modo così semplice.
Ai margini del campo visivo, balenò un freddo bagliore. Con la fronte corrugata per la preoccupazione, Sara andò al tavolo e prese il telefono. Sul display c’era la notifica di un messaggio. Riconobbe subito il numero, anche se non figurava in rubrica.
“Ti va una pizza?”
Caspita, la situazione doveva essere grave.
Il cielo nel frattempo era diventato grigio.
L’AUTORE

Maurizio De Giovanni nasce il 31 marzo del 1958 a Napoli. Come scrittore è arrivato tardi al successo, solo nel 2005, all’età di 47 anni. Dopo la maturità classica, conseguita studiando presso l’Istituto Pontano di Napoli, si laurea in Lettere Classiche. Lavora poi in banca spostandosi anche in Sicilia. Maurizio torna poi nella sua città natale per lavorare presso il Banco di Napoli. Nel 2005 partecipa, presso il Gran Caffè Gambrinus, a un concorso organizzato da Porsche Italia e dedicato a giallisti emergenti. Crea, quindi, un racconto che ha come protagonista il commissario Ricciardi, intitolato “I vivi e i morti”, la cui trama si svolge a Napoli ed è ambientata negli anni Trenta. Ha pubblicato diversi romanzi. Il senso del dolore (2007), La condanna del sangue (2008), Vipera (2012, Premio Viareggio, Premio Camaiore).
Con I bastardi di Pizzofalcone (Einaudi 2013) ha inaugurato un nuovo ciclo contemporaneo, sempre pubblicato da Einaudi, continuato con Buio per i Bastardi di Pizzofalcone (2013), Gelo per i bastardi di Pizzofalcone (2014), Cuccioli per i bastardi di Pizzofalcone (2015), Pane per i bastardi di Pizzofalcone (2016), Souvenir per i bastardi di Pizzofalcone (2017) che vede protagonista la squadra investigativa di un commissariato partenopeo.
Insieme a Sergio Brancato ha pubblicato due graphic novelsulle indagini del commissario Ricciardi: Il senso del dolore.
Le parole di Sara
- Maurizio De Giovanni
- Editore: Rizzoli
- Collana: Nero Rizzoli
- Anno edizione: 2019
- Pagine: 350 p., Brossura
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