Il miglior romanzo di Fay Weldon, l’autrice inglese più anticonformista, irriverente, corrosiva di sempre. Il romanzo, seppur scritto più di due decenni fa, è un quadro moderno e pungente della vita coniugale

«L’equivalente letterario di un ottimo superalcolico o di un tuffo nell’Atlantico in pieno inverno. Fay Weldon incarna l’essenza dell’antiromanticismo e Le peggiori paure è uno dei suoi migliori romanzi».

«The New York Times»

Le peggiori paure è una feroce riflessione sulla natura del matrimonio. Alexandra Ludd, attrice e donna affermata, è appena rimasta vedova. Il marito Ned, un critico teatrale molto in vista, è morto inaspettatamente a causa di un infarto nella loro bella casa di campagna, mentre lei si trovava a Londra. Fino a quel momento il rapporto tra i due sembrava felice e privo di ombre, e ora Alexandra è sconvolta, ma una serie di strani dettagli la obbliga a porsi delle domande: accenni di indizi e mezze parole nel giro di pochi giorni si concretizzano in una verità che sovverte ogni sua convinzione in quanto donna, madre e artista. Ciò che rende interessante la storia è che non finisce mai di stupire, ma insieme porta con se una quantità d’angoscia stranamente piacevole. Alexandra non è la protagonista di un giallo, ma ciò che verrà a sapere della morte del marito non fa altro che insospettirla di più. Le poche persone di cui si fidava si rivelano poco affidabili, le poche certezze crollano, come anche la sua considerazione verso chiunque. Le peggiori paure che incombono dopo la morte di una persona che si ha amata, ma che effettivamente, come ci tiene a puntualizzare spesso Alexandra, è morta, non esiste più.

E lei lo amava. E lei credeva a tante, tutte le cose.

Una rivelazione dopo l’altra, la protagonista giunge alla definitiva presa di coscienza: le sue amicizie erano false, tutte le sue peggiori paure avevano un fondamento, Ned aveva una vita parallela di cui lei era totalmente all’oscuro. Un libro estremo, esagerato, sostenuto da una scrittura che si muove con sicurezza sul sottile discrimine fra tragedia e ironia e che, attimo per attimo, sembra seguire, più che costruire, il passaggio della protagonista dall’umiliazione alla vendetta.

Fay Weldon, considerata una scrittrice femminista, dipinge nelle vicende del libro lati positivi e non, sia nell’uomo che nella donna. Il romanzo è scritto con scioltezza e una buona dose di cinismo ma è così che l’autrice si rende diversa, quasi unica e che regala ai lettori una storia in cui si oltrepassano i tabù ed una situazione finale in cui si passa a drastiche soluzioni.

La trama del romanzo 

Alexandra Ludd, attrice e donna affermata, è appena rimasta vedova. Il marito Ned, un critico teatrale molto in vista, è morto inaspettatamente a causa di un infarto nella loro bella casa di campagna, mentre lei si trovava a Londra. Fino a quel momento il rapporto tra i due sembrava felice e privo di ombre, e ora Alexandra è sconvolta, ma una serie di strani dettagli la obbliga a porsi delle domande: accenni di indizi e mezze parole nel giro di pochi giorni si concretizzano in una verità che sovverte ogni sua convinzione in quanto donna, madre e artista. Una rivelazione dopo l’altra, la protagonista giunge alla definitiva presa di coscienza: le sue amicizie erano false, tutte le sue peggiori paure avevano un fondamento, Ned aveva una vita parallela di cui lei era totalmente all’oscuro.

Un libro estremo, esagerato, sostenuto da una scrittura che si muove con sicurezza sul sottile discrimine fra tragedia e ironia e che, attimo per attimo, sembra seguire, più che costruire, il passaggio della protagonista dall’umiliazione alla vendetta.

Le peggiori paure spiazza e coinvolge il lettore, tenendolo avvinto fino all’ultima pagina in un crescendo di colpi di scena in cui la complicità e le competizioni femminili sono messe a nudo in un continuo confronto di incomunicabilità con il fragile, ambiguo universo maschile.

 Come inizia

1

   «Un morto non l’ho mai visto», disse Vilna. «Posso venirci anch’io?».

   «E perché no?», rispose Abbie e insieme si avviarono all’obitorio. 

   Nel salire a bordo della piccola automobile di Abbie, Diamond, il labrador, si gettò su Vilna. La camicetta bianca di Vilna, tutta gale e volant, era adesso completamente sporca di fango. Allungò una pedata all’animale con lo stivale che le arrivava al ginocchio, quindi cercò di colpirlo all’inguine con il tacco alto. Non lo prese ma, a quel punto, Diamond corse al lato del conducente e saltò in grembo ad Abbie. Abbie, che aveva addosso un vecchio maglione grigio, lo lasciò fare. Con Vilna, Diamond non ci avrebbe più riprovato: lui era abituato agli amanti degli animali. Il rifiuto di Vilna lo aveva ferito profondamente.

   «Povero cane», disse Abbie. «Povero cane. Ha perso il padrone. È normale che sia sconvolto». 

   Vilna, però, era troppo presa a massaggiarsi il ginocchio contuso per poterle dare retta. A ogni minimo movimento, Vilna tintinnava. Al polso aveva un braccialetto portafortuna, carico di ciondoli d’oro. Fra i seni strizzati verso l’alto, ormai non più giovani, ricadevano pesanti catenine ingemmate. Ave­va il naso aquilino, gli occhi incavati e vicini, i capelli biondi freschi di parrucchiere e una strepitosa energia più adatta però alla vita di città. Abbie, invece, si trovava a suo agio tra il fango e il verde dei campi. Aveva addosso scarpe da ginnastica, jeans e un vecchio maglione grigio sul quale i peli di cane non si sarebbero visti troppo. Era vestita esattamente così quan­do le avevano telefonato dal Cottage. Da quel momento non era più tornata a casa sua, alla Elder House. Nessuna delle due si era allacciata la cintura di sicurezza. Era come se, in un certo qual modo, una visita all’obitorio glielo vietasse. Solidali con la morte, che la invitino pure! 

   Il Cottage sembrava la casa idealizzata nel disegno di un bambino: il sentiero centrale, il giardino quadrato, il vialetto d’accesso sulla destra, l’albero a sinistra, la porta al centro con le due finestre laterali, più altre tre al piano superiore per armonizzare con quello inferiore, il tetto di tegole con due comignoli, uno su ciascun lato. La casa, costruita con la grigia pietra calcarea della zona, era coperta di rampicanti e circondata dai campi. Erano centocinquant’anni che aveva quell’aspetto di dimora gentilizia. In precedenza era stata una fattoria, prima ancora un cottage e ancor prima una bicocca, menzionata però nel Doomsday Book, circa 1070 d.C. 

   Alexandra, la vedova, sedeva al piano di sopra, immobile sulla sponda del letto coniugale d’ottone, gli occhi persi nel vuo­to. Se ne stava così da due ore. Il vuoto che era intenta a fissare era incorniciato dai fini tralci della vite del Canada insinuatisi fra la finestra a ghigliottina, i cui vetri erano perfettamente divisi in quattro dalle barre dell’intelaiatura. I quattro antichi riquadri mostravano i vetri originari interamente sopravvissuti: sottili, preziosi, scintillanti, irregolari, probabilmente risalenti alla metà dell’epoca vittoriana. Da lì, Alexan­dra riusciva a scorgere il laghetto delle anatre e Diamond che inseguiva l’automobile di Abbie fin dove il vialetto si ricongiungeva alla strada per Eddon Gur­ney. Che Diamond finisse in mezzo alla strada, che venisse investito oppure no, le sembrava assolutamente irrilevante. Ma il caso volle che Diamond si fermasse e continuasse a vivere.

   Alexandra sedeva come in uno stato di sospensione. Vedeva se stessa come la particella di un liquido viscoso all’interno di una provetta, che non scivolava né su né giù, ma che le leggi della natura costringevano a restare ferma dov’era. Le risultava più facile immaginarsi come qualcosa di inorganico piuttosto che di organico. Tutto questo succedeva martedì pomeriggio. Ned era morto sabato notte. In quel momento, Ale­xan­dra non era presente. Era a Londra, a più di duecento chilometri di distanza, a riprendersi dopo un’altra serata passata sul palcoscenico a interpretare Nora in Casa di bamboladi Ibsen. Da allora, ovunque si trovasse, Alexandra continuava a entrare e uscire da questo stato di sospensione. Secondo lei, era per via dello shock. 

   Alexandra, estenuata da questo spasmo di autocoscienza, non riuscì a restare seduta e si sdraiò sul letto. 

   Su questo letto, per dodici anni, si era sdraiata nuda accanto a Ned, con il calore di lui addosso. Quando si mettevano a letto, lei era gelida, lui rovente. Al risveglio, le loro temperature si erano equilibrate, tanto che lei non riusciva quasi più a distinguere il proprio corpo da quello di lui – non che lo volesse. 

   Non rimase sdraiata a lungo. Il materasso le dava fastidio sotto le spalle. Forse si era rotta una molla. Si alzò e andò nel bagno. Sentiva di stare meglio, ma il miglioramento le causava dolore, proprio come quando il sangue ricomincia ad affluire negli arti decompressi. 

   Allo specchio il suo viso non appariva tanto brutto, solo piuttosto asimmetrico, come quello di sua madre. Ma sapeva che quello specchio era un po’ troppo generoso. Il vetro era a base di mercurio e probabilmente risaliva al 1790: la superficie, opportunamente screziata e screpolata, lusingava generosamente chiunque vi si specchiasse. 

   Lei e Ned ci si specchiavano insieme. Lui la cingeva con un braccio e diceva: «Che coppia divina». Nient’altro. Uno come lui non l’avrebbe più trovato. Alexandra si sforzava di non piangere troppo perché tra una settimana sarebbe dovuta tornare in scena. Torvald l’avrebbe chiamata la sua «lodoletta» e lei, nonostante le vicende private, avrebbe dovuto tirare fuori una Nora somigliante a un’allodola nel modo più convincente possibile. Si richiedeva grande professionalità. Casa di bambola stava godendo di un successo inaspettato e di un inaspettato prolungarsi delle repliche: otto mesi fino a oggi.

   Diamond corse pesante al piano di sopra, dove non gli era permesso andare per cui di rado saliva. Saltò sul letto d’ottone e si raggomitolò formando una palla imbronciata. Alexan­dra gli andò dietro e cercò di tirarlo giù. Il cane cominciò a strattonare e a impuntarsi, come un manifestante che la polizia cerca di portare via con la forza. Alexandra non si arrese e alla fine vinse lei. Diamond scese furtivamente al piano di sotto. Nel farlo, ringhiò contro Alexandra, cosa piuttosto insolita. Il letto non era mai stato abbastanza largo per i gusti di Alexandra. A lei piaceva un materasso grande grande, sul quale stare comodamente sdraiata; a Ned invece piaceva sentirla vicino, così si era rassegnata a quel letto striminzito.

   Il letto era un pezzo raffinato, probabilmente degli anni Venti del diciannovesimo secolo, con testate d’ottone finemente lavorate a ghirigori. Per puro caso, era stato lasciato lì dai precedenti inquilini del Cottage, come la gente della zona chiamava quella grande casa in memoria del passato. 

   Forse il letto non l’avevano dimenticato affatto, anzi ce l’avevano lasciato di proposito e non erano mai venuti a riprenderselo. Gli ultimi coniugi che ci avevano dormito erano morti in ospedale, a distanza di una settimana l’uno dall’altra. Lui ave­va novantasette anni, lei novantaquattro. I loro eredi odiavano le cose vecchie. Se non altro, l’anziana coppia non era morta in quel letto. Ma, visto che probabilmente nelle stanze di una casa vecchia c’è sempre morto qualcuno e qualsiasi poltrona d’an­tiquariato potrebbe aver assistito a qualche spaventoso evento, anche se loro ci fossero morti, che importanza poteva avere? Alla fine la vita scivolava via da qualunque cosa. 

   Ci misero un materasso nuovo, ma tennero l’alta base di legno e ogni sera Ned e Alexandra vi giacevano sopra all’antica, ma a loro agio. Che peccato se si fosse rotta una molla del materasso!

   Abbie aveva cambiato le lenzuola prima che Alexandra arrivasse dall’appartamento di Londra dove lei, Alexandra, viveva quando lavorava. Abbie le aveva persino messe in lavatrice. Erano stese sul retro della casa domenica a mezzogiorno, quando Alexandra aveva fatto ritorno. Aveva notato il loro verde svolazzare al vento, fra le alte piante di carciofo. 

   Al suo arrivo, avevano già portato via il cadavere. Ne era stata contenta e dispiaciuta al tempo stesso. Dato che nei tre mesi precedenti al decesso Ned non era mai stato dal medico, l’autopsia era obbligatoria. Se l’ambulanza non l’avesse portato via subito, non sarebbe potuta ripassare prima di altre ventiquattr’ore. Il dottor Moebius, interpellato da Abbie, aveva deciso che bisognava portare via il corpo finché era possibile, inutile aspettare Alexandra. Per cinque minuti, o giù di lì, Alexandra non aveva fatto in tempo a vederlo. 

   Più tardi, sempre domenica, Abbie aveva ritirato le lenzuola verdi dal filo del bucato, le aveva piegate e riposte nell’armadio della biancheria; il talamo nuziale l’aveva già rifatto con le lenzuola a righe bianche e blu. Abbie aveva una spiccata inclinazione per i lavori domestici e sembrava che gli improvvisi avvenimenti drammatici non avessero affatto turbato questa sua disposizione. Alexandra avrebbe preferito che Abbie non avesse toccato le lenzuola. Avrebbero profumato di Ned e non di ammorbidente come queste a righe. Ma c’erano persone che di fronte a un armadio aperto diventavano precipitose e raramente decidevano per il meglio. 

   Alexandra scese in cucina, felice di scoprire che in casa non c’era nessuno. Fra domenica e martedì, Abbie aveva tirato la casa a lucido. Mentre gli altri piangevano e si strappavano i capelli, Abbie puliva. C’era un biglietto sull’immacolato tavolo bianco, un solido blocco di olmo sbiancato, risalente circa al 1880, dal taglio rustico e i montanti a lastra, usato originariamente come tavolo da lavanderia. Diceva: «Ha chiamato il signor Lightfoot dalla camera mortuaria. Hanno appena riportato la salma di Ned; noi siamo andate a dare un’occhiata. Dormivi e non volevamo disturbarti. Cerca di mangiare qualcosa. Abbie». 

   «Noi»? Abbie e Vilna? Ma no! Ad Alexandra non dispiaceva se Abbie vedeva la salma prima di lei. Abbie era un’ottima amica, anche se prepotente. Era stata Abbie a chiamare il medico e l’ambulanza nelle prime ore del mattino. Tutti avevano creduto che Ned fosse ancora vivo, ma in realtà era già morto. Abbie doveva essere andata all’obitorio per accertarsi che tutto fosse in ordine e che nulla turbasse Alexandra senza ragione. Che volesse controllare che la lastra di marmo su cui giaceva Ned fosse ben pulita? A ogni modo, Abbie aveva già visto la salma, che giaceva in sala da pranzo dove, a quanto pareva, Ned si era accasciato in preda agli spasmi dell’infarto. Era stata Abbie a trovarlo per prima. Perché, allora, non poteva continuare a comunicare con il morto se questo la faceva sentire meglio?

   Ma Vilna? L’idea che Vilna vedesse la salma di Ned prima di lei, la moglie, ad Alexandra proprio non andava giù. In tutta onestà, voleva che Vilna non vedesse affatto Ned da morto. Ned conosceva poco Vilna e quel poco che conosceva poco gli piaceva. Alexandra gli diceva sempre: «Oh, Vilna è una persona a posto, è soltanto irascibile e contraria ai valori inglesi». Ned replicava: «È avida. E un mostro». Alexandra sapeva che, su Vilna, Ned non si era mai sbagliato. Da quando si era diffusa la notizia, lei si aggirava intorno al Cottage come un avvoltoio. Infatti, pensò adesso Alexandra, Vilna sembrava l’incrocio perfetto tra un avvoltoio e Ivana Trump. Se Ned, disteso sulla lastra di marmo, avesse di colpo riaperto gli occhi trovandosi davanti Vilna al posto di Alexandra, che invece pareva l’incrocio tra un fenicottero e Marilyn Monroe, avrebbe provato grande disappunto.

2

   All’obitorio, Abbie e Vilna fissavano la salma di Ned.

   «All’Ospedale di St James andai»,

   cantava Vilna con la sua voce roca,

   «e il mio amor lì vi trovai.

   terreo, gelido e spogliato

   su una bianca lastra abbandonato». 

   Si erano fermate poco distanti dal morto. Fuori c’era un sole accecante ma l’obitorio, che era una semplice struttura di cemento, non aveva finestre, era molto freddo e illuminato con luce artificiale. 

   «A Ned piaceva sentirmi cantare», osservò Vilna. «Ho una voce bellissima, non trovi?».

   «Bellissima», rispose Abbie. 

   «Da morto sembra più giovane», disse Vilna.

   «Trovi?», le domandò Abbie con tono cortese.

   «Non c’è dubbio», rispose Vilna. Aveva una pronuncia mit­­teleuropea. Allungava le vocali e stringeva le consonanti. Era come se lo spirito materiale della sua fica si levasse fino a uscirle dalla bocca. «È un uomo bellissimo, non trovi?», disse Vilna e allungò la mano per toccargli il nudo, forte, muscoloso, freddo, marmoreo avambraccio. «Specialmente ora, con il mento che sembra gli si sia rassodato».

   «Era», disse Abbie. «Non è. E credo che non dovresti toccarlo».

   «Voi inglesi», disse Vilna. «Così inibiti! Così distaccati dalle emozioni vere». 

   Vilna si spostò per avvicinarsi al morto e tirò via il lenzuolo che lo copriva fino al petto. Ned portava una maglietta bianca e un paio di leggeri pantaloni bianchi di cotone, tenuti da un cordoncino fermato con un fiocco. Vilna sciolse il fiocco, allen­tò il cordoncino e, ignorando la chiusura lampo, semplicemente ripiegò il tessuto leggero. Adesso si vedeva la cicatrice dell’autopsia, grossolanamente ricucita, che gli arrivava quasi fino all’inguine. Il pene riposava addormentato, duro e compatto, come fosse scolpito nella pietra, una parte dell’insieme. 

   «Ha solo quarantanove anni», disse Vilna, «e ci sa proprio fare. Che spreco!».

   «Aveva solo quarantanove anni», la corresse Abbie.

   «A me non sembra morto proprio per niente», continuò Vilna.

   Abbie superò la sua avversione nel toccare le cose morte. Riallacciò i pantaloni. Ricoprì Ned fino al torace con il lenzuolo. Qualcuno doveva pur farlo. Non si poteva permettere che Vilna creasse scompiglio. 

   Ned era l’unico occupante dell’obitorio. Quel posto si trovava nel cortile dell’impresa di pompe funebri, dove erano parcheggiati i carri per le esequie. Il fronte strada dell’obitorio dava direttamente sulla curva della strada principale di Gurney, dove il marciapiedi si restringeva fino a quasi sparire. In vetrina c’era un’urna con dei fiori secchi e qualche mosca morta intrappolata fra i doppi vetri. La porta principale aveva un piccolo e grazioso portico in stile georgiano che spesso veniva indicato ai turisti in città, ma non si apriva tanto facilmente. Così, quasi tutti i clienti usavano la porta di servizio. Tanto, a chi interessava farsi vedere mentre entrava e usciva, preso dai propri tristi affari? Il veicolo usato per il trasporto dei cadaveri – «Ambulanza Privata – Lightfoot & Figli» – era parcheggiato davanti al portico, sulla strada, e creava un pericolo al traffico su quella curva nascosta. Ben pochi capivano perché fosse parcheggiato lì o a cosa servisse. 

   «A lei interessa il cimitero romano», disse il signor Lightfoot ad Abbie quando riemerse alla luce del sole e si mise ad aspettare Vilna. Il freddo le era penetrato nelle ossa. «Dica ai suoi amici della Fascia Bohémien che dall’università mi è arrivata oggi una borsa piena di ossa. Provengono dagli scavi del cimitero romano. Sta venendo il vescovo a dare degna sepoltura a quelle spoglie». Il signor Lightfoot era smunto, pallido e magro, come se a volte ci finisse lui sottoterra, come atto di solidarietà verso i suoi clienti. La gente lo pagava in anticipo per timore che i parenti poi facessero la cresta sui soldi del funerale.

   «La notizia mi fa piacere», disse Abbie. «Mi fa piacere sapere che il vescovo riesca finalmente a ignorare il fatto che si tratti di ossa pagane e non cristiane».

   «Spero che interverrete tutti alla cerimonia», disse il signor Lightfoot, «dopo quel baccano che avete fatto voi “conservazionisti”. A questa città serve il progresso, non delle spoglie che riposino in pace».

   «Certo che verremo», disse Abbie. «Quelli che restano di noi». Ned era stato il primo a promuovere la campagna Sal­via­mo il Cimitero Romano.

   «Per me non fa differenza», replicò il signor Lightfoot, «se uno muore oggi o se è morto duemila anni fa. Sono d’accordo con lei: tutti i morti meritano rispetto. Tuttavia, non saprei dire se l’università mi ha mandato proprio le ossa che hanno prelevato al cimitero. Vecchie ossa, epoche antiche, a me sembra tutto uguale quello che c’è sugli scaffali dei vecchi soprintendenti. Ma sono umane, decisamente umane. È il gesto che conta». 

   Abbie e Vilna salirono in macchina, con una certa riluttanza a parlare di argomenti simili in un momento come quello.

   «La signora Ludd verrà a vedere la salma?», domandò il signor Lightfoot.

   «Quando sarà il momento», rispose Abbie. «La temperatura, là dentro, è sufficientemente bassa?».

   «Nessuno lo sa meglio di me», rispose il signor Lightfoot. «È usanza che sia la vedova, ed eventualmente i figli, a visitare la salma per prima. Mi ha sorpreso vedere voi due. Ma suppongo che nella Fascia Bohémien facciate le cose diversamente: voi vedete il corpo sotto una luce artistica.

   «Facciamo del nostro meglio», disse Abbie, «per affrontare il dolore, proprio come chiunque altro».  

   «Tesoro, andiamocene da questo luogo di sventura», disse Vilna, a voce piuttosto alta perché il signor Lightfoot la potesse sentire. «Da queste parti sono tutti piuttosto, piuttosto matti». 

   A retromarcia, Abbie fece uscire la macchina dal cortile. Vilna la stava irritando; l’Ambulanza Privata le impediva di vedere la strada e quasi andò a sbattere contro una piccola giardinetta che stava entrando nel cortile. Seduta al posto del passeggero, con l’aria distrutta, atterrita e segnata delle lacrime, c’era una donna grassoccia di mezza età. Al volante c’era un uomo dai capelli bianchi, che né Vilna né Abbie riconobbero. Aveva un’espressione fissa e arcigna. 

   Abbie riacquistò il controllo della vettura.

   «Mi hai fatto venire un crampo al collo, tesoro», disse Vilna. «Dovresti stare più attenta».

   «Ma hai visto chi era?», domandò Abbie.

   «Era Lucy», rispose Vilna. «Naturalmente».

3  

   Quando Abbie e Vilna tornarono al Cottage, Alexandra stava ripulendo dalle erbacce le viole nel giardino sul retro, come se niente fosse. Diamond sedeva impettito sul muretto di pietra che impediva alle piante rampicanti di rovesciarsi in casa, consentendo l’accesso alla porta di servizio agli ospiti, al lattaio e agli altri fornitori. La porta principale era grossa e poco maneggevole, e il vialetto per arrivarci in cattive condizioni, così, al contrario di quella di servizio, questa veniva usata di rado. 

   «Ned stava bene?», domandò Alexandra ad Abbie. Con lo sguardo attraversò e oltrepassò Vilna.

   «Benissimo», rispose Abbie.

   Vilna sbuffò e disse che doveva andare. Si era raffreddata. Avrebbe dovuto pensarci che all’obitorio avrebbe avuto bisogno della giacca. Forse Abbie poteva darle un passaggio a casa?

   Abbie disse che, se Alexandra avesse voluto, lei avrebbe trascorso lì un’altra notte. Alexandra disse di no, che adesso stava bene. Poteva restare da sola. Prima o poi, con i fantasmi bisognava fare i conti. L’indomani sarebbe arrivato il fratello di Ned. I familiari di Abbie avrebbero avuto bisogno di lei. 

   Abbie domandò ad Alexandra se, quando fosse andata a vedere la salma, avesse voluto essere accompagnata e Alexan­dra le rispose che ci sarebbe andata da sola al momento giusto. Se­condo lei, anche un morto aveva bisogno di un po’ di tregua dall’osservazione costante. 

   Vilna disse, mentre si allontanavano in macchina: «Faceva giardinaggio senza guanti. Ti sembra possibile? Una delle nostre attrici più importanti? Le si rovineranno le mani».

   «Attori!», esclamò Abbie, ma Vilna non afferrò. 

   Abbie aveva lasciato la segreteria telefonica inserita. Que­sto significava, si rese conto Alexandra, che chiunque avesse chiamato avrebbe sentito la voce di Ned registrata. Andò nello studio di Ned e usò la linea dell’ufficio per chiamare casa, poi rimase ad ascoltare la voce di Ned. In risposta disse «Ciao, Ned, sono io», e riagganciò. Cercò il manuale con le istruzioni per vedere come si faceva a cambiare il messaggio, ma non lo trovò. Risolse il problema staccando la spina dal muro. Non voleva cancellare la registrazione nel caso in cui Sascha, che adesso aveva quattro anni, una volta cresciuto avesse voluto sentire come fosse la voce di suo padre. A parte il fatto, forse, che Sascha non avrebbe voluto. Era sempre una delusione vedere gli dèi trasformati in mortali. A chi sarebbe piaciuto mettersi ad ascoltare la voce di Einstein su CD-ROM per poi rendersi conto che era solo un vecchio qualunque?

   Dal soggiorno, Alexandra rimosse i ricordi più inquietanti di Ned: un paio di scarpe, le bozze del saggio critico su Ibsen che stava scrivendo e che sperava di portare a termine quel fine settimana. Diede una scorsa a un paio di colonne: sembrava che, di tutte le opere di Ibsen, Ned trovasse Casa di bambola la più sentimentale e la meno strutturata. Carte e fogli finirono in un armadio in attesa che lei fosse pronta a eliminare in maniera adeguata ogni prova dell’esistenza di lui. Dal videoregistratore estrasse la cassetta che era rimasta inserita. Sem­bra­va che Ned avesse premuto il tasto Stop pochi minuti dopo l’inizio di Casablanca. Perché Casablanca? Era lei, Alexan­dra, che adorava Bogart. Ned lo liquidava definendolo un interprete piuttosto che un attore. Che cosa aveva spinto Ned a guardare Bogart sabato sera? Lui non avrebbe più potuto dirglielo. Lei non l’avrebbe saputo mai. 

   Alexandra sedeva sul bracciolo del divano, di nuovo con lo sguardo perso nel vuoto. Pensava che questo stato di sospensione, ormai familiare, le facesse da tampone d’assorbimento per le emozioni: era un sonno fluttuante, a occhi aperti. Per niente piacevole ma, almeno finché si trovava in quella condizione, i brutti pensieri continuavano a girare in tondo e a lungo andare ci si rendeva immuni da essi. Non si diramavano verso nulla di diverso o di peggiore. Immaginava che un animale in una situazione critica, caduto in una trappola, in un laboratorio di vivisezione, sperduto e affamato, non si sarebbe sentito peggio di così. Con una memoria scarsa, nessuna abilità linguistica, minima cognizione temporale e una limitata comprensione di causa ed effetto, la situazione sarebbe stata esattamente così. Protetti da tali restrizioni, non si sarebbe sofferto troppo.

   La mano di Alexandra si addormentò. Ci si era seduta sopra. Si alzò e agitò il braccio finché il sangue non tornò ad affluire. Fuori era buio. La casa sembrava animata da un rumore innaturale. Colpi e scricchiolii provenivano dal piano di sopra. Pensò che forse Diamond fosse salito di nuovo e andò a cercarlo. Salendo le scale, ebbe l’impressione che qualcosa di invisibile e sgradevole l’avesse superata, passandole accanto. Era terrorizzata, ma continuò a salire. Arrivò in cima alle scale e si fermò ad ascoltare. Ammesso che ci fossero stati dei rumori, adesso, di colpo, era tutto più tranquillo di quanto non dovesse essere, come se qualcuno stesse dicendo: «Ah, sì? Il rumore non ti piace? Vediamo un po’ se ti piace il silenzio». A lei non piaceva, ma a conti fatti, ai colpi e alle botte preferiva la sensazione strisciante di sussurri ed entità invisibili. Di Diamond neanche l’ombra. Questo era un fenomeno tipico delle vecchie case. Non avrebbe attribuito a cause sovrannaturali quei suoni inspiegabili. Senza dubbio aveva i sensi sovreccitati. 

   Le tubature riecheggiavano nella struttura di legno della vecchia casa così come il dolore in un corpo umano. Il mal di fegato, per esempio, si sarebbe manifestato con un dolore alla spalla destra. Aveva fatto caldo tutto il giorno, ma adesso faceva freddo: gli improvvisi sbalzi di temperatura potevano indurre questa struttura, questo tipo di materiale, a contrarsi piuttosto che a espandersi: il rumore poteva provenire da qualsiasi parte, proprio come le fitte e i dolori.

   Comunque sia, Alexandra accese ogni luce possibile e immaginabile. Spalancò persino la porta della sua camera da letto, quella che un tempo era stata sua e di Ned, e senza entrare, per via di quelle minacciose presenze, infilò la mano dietro la porta, accese la luce e se ne andò. Adesso la casa era illuminata come un faro per chiunque stesse viaggiando lungo la strada per Eddon Gurney: non ci lasceremo sconfiggere. All’epoca attuale la strada non era molto praticata, gran parte del traffico pesante veniva dirottato su una nuova tangenziale – un bene, questo, per il valore degli immobili, ma che poteva far sentire gli abitanti del Cottage un po’ troppo isolati anche nel migliore dei casi. E questo non lo era di certo: sembrava che il qui-e-ora fosse scivolato, nei momenti successivi alla morte improvvisa, in qualcosa di precario e incoerente. 

   I prezzi degli immobili, il denaro, i testamenti, le richieste di indennizzo all’assicurazione, i documenti, i certificati: a tutto questo avrebbe pensato in seguito, durante la settimana. Non c’era nessuna fretta. Hamish, il fratello di Ned, le avrebbe dato una mano. Quanto meno, finché andavano avanti le repliche di Casa di bambola, lei avrebbe continuato a guadagnare. Alexandra accese anche tutte le luci del pianterreno. Andò in cucina. Diamond era sdraiato sotto il tavolo e non nella sua cesta. Lei pensò di fermarsi lì, avendo la sensazione che questa fosse la parte della casa meno infestata da presenze. Spostò una sedia e una volta seduta fece in modo di avere la gamba a contatto con il tepore compatto di Diamond; invece Diamond si allontanò. Be’, ne aveva tutto il diritto. Era rimasto da solo con il morto per ore intere, senza che nessun essere umano andasse ad aiutarlo. 

   Agli occhi di Diamond lei, Alexandra, doveva apparire di una negligenza voluta. Ma che poteva saperne lui della necessità di guadagnarsi il pane? A lui il cibo appariva nella ciotola come per magia. 

   Abbie aveva messo sul tavolo, in un barattolo da marmellata, alcuni fiori estivi del giardino. Stavano sfiorendo, appassendo: sembrava che avessero bisogno d’acqua, ma quando Alexandra ne verificò il livello con un dito ce n’era ancora abbastanza. Che con la morte in casa i fiori avvizzissero prima del tempo? 

   Alexandra si sedette al tavolo della cucina, con la testa fra le braccia. Chiuse gli occhi. Era con Ned su un motoscafo da corsa, su un vasto, vasto lago, una scia bianca e spumeggiante si allargava alle loro spalle nelle acque profonde e immote. Che ottimi compagni di viaggio! Era una splendida giornata, piena di luce. La barca stava andando verso riva, verso una spiaggia, una foresta; sullo sfondo si stagliava una montagna verde-azzurra. Di colpo, la barca si ritrovò davanti un muro d’ombra: la nebbia. La luce davanti, sull’acqua, la spiaggia, la foresta, la montagna, era inondata dall’oscurità. La barca si arrestò nel punto in cui iniziava la nebbia. Alexandra non si mosse, ferma nella luce accecante. Rimase dov’era, sospesa; Ned invece non si fermò: di colpo prese a vorticare nella nebbia. E adesso era in piedi sulla riva e le dava le spalle. Sem­bra­va perplesso, desolato. Lei rimase a guardarlo mentre lui si allontanava dalla spiaggia per addentrarsi nel folto della cupa foresta. Lo chiamò, ma lui non sentì, né si voltò a guardare. Non c’era modo di aiutarlo. Sapeva che per lui non c’era speranza e non provò compassione. Era da solo. La visione s’interruppe come quando s’interrompe un film. Era sveglia, ma non si era mai addormentata. L’ultima sequenza della visione le era rimasta impressa nella mente, indelebile. Lei sul lago, sotto la luce del sole; Ned che si addentrava nella foresta: stanco, stanchissimo, senza che lei gli avesse concesso la sua benedizione. La vita scintillante di lei incorniciava questa visione come un quadro.

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L’autrice

Fay Weldon, pseudonimo di Franklin Birkinshaw è nata nel 1931 nel Worcester, Inghilterra. Suo padre era un dottore e sua madre una scrittrice di fiction commerciale sotto il falso nome di “Pearl Bellairs”. Dopo la separazione dei genitori si trasferirà in Nuova Zelanda.

Tornata in Inghilterra studierà economia e psicologia all’università di St. Andrews in Scozia. Sposa Roy Weldon nel 1962 e mette al mondo altri tre figli. Entra in una crisi di mezza età “Ero triste, inadeguata, depressa e ignorante, e lo sapevo”. La psicoanalisi le diede la stima di sè ad il coraggio di iniziare a scrivere. Il suo primo romanzo “The Fat Woman Joke” è stato pubblicato nel 1967, ma prima di allora aveva già scritto almeno cinquanta spettacoli tra radiofonici e televisivi, tra cui ricordiamo il suo adattamento di “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen. Nei 30 anni successivi costruisce una carriera piena di successi, pubblicando più di 20 romanzi, antologie di storie brevi, film televisivi, articoli per quotidiani e settimanali e diventa una voce ben conosciuta dello staff BBC.

 

  • Le peggiori paure
  • Fay Weldon
  • Traduttore: Maurizio Bartocci
  • Editore: Fazi
  • Formato: EPUB con Light DRM
  • Testo in italiano
  • Cloud: Sì Scopri di più
  • Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
  • Dimensioni: 317,78 KB
  • Pagine 422 della versione a stampa. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/peggiori-paure-ebook-fay-weldon/e/9788893257275?kk=a4c6224-1744f67ff3d-61153&gclid=CjwKCAjwh7H7BRBBEiwAPXjadsv69wZDaOSe31efHs2fcZJEEgKfDEWUHoBanqbcebh2HcGuu2nHIxoCAaUQAvD_BwE&utm_source=kelkoo.it&utm_medium=comparatore&utm_campaign=comparatore&lgw_code=1119-E9788893257275&from=kelkoo” btnsize=”small” bgcolor=”#eded00″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 9,99[/btn]

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