”Descritto come “un misto di Gosford Park e Ricomincio da capo [Groundhog Day] passando per Agatha Christie”, Evelyn Hardcastle è un thriller psicologico con un sapore d’antan, grazie all’ambientazione in una villa aristocratica decadente in una campagna molto isolata, in un momento storico-fantastico probabilmente anteriore alla prima guerra mondiale.
In inglese britannico si potrebbe dire che Le sette morti di Evelyn Hardcastle è un po’ come la Marmite – una crema da spalmare creata nel 1902 estremamente salata, di colore marrone, consistenza appiccicosa, odore molto particolare, fatta con estratti di lievito di birra –. La Marmite è diventata un elemento tipico della cultura popolare anglofona anche per la sua facoltà di polarizzare opinioni davvero estreme grazie al o a causa del suo gusto. Tanto che lo slogan pubblicitario in uso dal 1996, “Love it or hate it” (“o la ami, o la odi”) è ormai entrato a far parte dei modi di dire del linguaggio comune, associato a qualsiasi persona, cosa o avvenimento che provochi opinioni assai opposte. Ecco. Il romanzo all’inizio potrebbe ricordare quella crema, ma poi proseguendo nella lettura…
Ora, immaginate la storia di “Il giorno della marmotta”. Per un giornalista la stessa giornata si ripete all’infinito: ogni giorno alla radio la stessa, canzone, poi lo stesso commento da parte di un passante e via di seguito fino a sera. Riuscire a cambiare in una giornata quello che non funziona della sua vita è il solo modo per scender da questa giostra. Questo romanzo parte dalla stessa idea di base, ma è tutt’altra cosa: coinvolgente, inquietante, innovativo e pieno di sorprese. Stuart Turton si immagina un uomo che si sveglia in mezzo a un bosco, forse coi postumi di un doposbronza, o forse dopo aver commesso un delitto o magari ancora a seguito di un’aggressione. Si ricorda solo un nome: Anna e convinto che sia stata uccisa cerca aiuto. Privo di memoria arriva in una dimora un tempo di un lusso abbagliante, ma oggi in piena decadenza. Affacciatosi all’ingresso scopre di essere uno degli ospiti invitati per ricordare un macabro evento di diciannove anni prima. Il figlio dei proprietari, infatti è stato ucciso in riva a un laghetto a pochi metri dalla casa. Convinto di poter liquidare la sua avventura come una momentanea perdita di memoria, se ne dovrà presto ricredere. Piano piano, assieme a noi scopre di essere finito dentro un gioco terribile: ogni giornata per lui si ripeterà all’infinito. Lui si troverà ogni volta nei panni di una persona diversa e avrà il compito di indagare sull’omicidio di Evelyn, la figlia dei proprietari della magione. In cambio della soluzione del mistero riotterrà indietro la sua vita. Così Aiden inizia a entrare a uscire dai panni delle persone che popolano la casa: si scontra con fisici decadenti, giovani vigorosi, personaggi ambigui. Dentro ognuno di loro Aiden deve lottare per mantenere la propria personalità e per portare avanti il suo compito. Deve però essere abbastanza abile da usare le caratteristiche del suo ospite che siano utili ai suoi scopi. Giorno dopo giorno sommando gli indizi che ha raccolto nel giorno precedenti un po’ si avvicina e un po’ si allontana dalla sua meta. Scopre che i delitti avvenuti nella tenuta sono più numerosi di quanto credeva, muore più volte, quasi si innamora e alla notte segue sempre la stessa mattinata piovigginosa. Regole del gioco ferree, concorrenti che non sempre sono corretti rendono il tutto ancora più complicato.
La struttura di questo libro è indubbiamente molto complessa. I protagonisti sono molti e nettamente diversificati l’uno dall’altro. Noi in realtà non consociamo mai il vero Aiden perché lui stesso si è dimenticato il suo passato. Conosciamo, invece un personaggio che ogni giorno è totalmente diverso: si approccia in modo differente sia alle indagini che ai comprimari che lo circondano. Una scelta da parte dell’autore che avrebbe potuto trasformarsi in un pastrocchio. L’abilità di Turton, invece è tale di spianarci davanti in modo semplice e lineare un’infinità di informazioni. Ogni dettaglio ha un suo perché e anche se alla sua comparsa ci sembra una bizzarria dell’autore e prima o poi lo rincontreremo e capiremo il motivo della sua comparsa. Tenendo conto che si potrebbe definire un fantasy. giallo, trovo le indagini realistiche e ben congeniate. Interessante il finale, perfettamente a tono col resto del romanzo e capace di lasciare quella puntina di fame non ancora soddisfatta. Le ambientazioni sono quelle cupe e misteriose delle vecchie magioni sparse nella campagna inglese. Ambienti apparentemente abitati da personaggi snob e un po’ decadenti, ma comunque di classe. In realtà, scavando anche solo con la punta di un’unghia si intravedono brutture di ogni genere.
La trama del romanzo.
Blackheath House è una maestosa residenza di campagna cinta da migliaia di acri di foresta, una tenuta enorme che, nelle sue sale dagli stucchi sbrecciati dal tempo, è pronta ad accogliere gli invitati al ballo in maschera indetto da Lord Peter e Lady Helena Hardcastle. Gli ospiti sono membri dell’alta società, ufficiali, banchieri, medici ai quali è ben nota la tenuta degli Hardcastle. Diciannove anni prima erano tutti presenti al ricevimento in cui un tragico evento – la morte del giovane Thomas Hardcastle – ha segnato la storia della famiglia e della loro residenza, condannando entrambe a un inesorabile declino. Ora sono accorsi attratti dalla singolare circostanza di ritrovarsi di nuovo insieme, dalle sorprese promesse da Lord Peter per la serata, dai costumi bizzarri da indossare, dai fuochi d’artificio. Alle undici della sera, tuttavia, la morte torna a gettare i suoi dadi a Blackheath House. Nell’attimo in cui esplodono nell’aria i preannunciati fuochi d’artificio, Evelyn, la giovane e bella figlia di Lord Peter e Lady Helena, scivola lentamente nell’acqua del laghetto che orna il giardino antistante la casa. Morta, per un colpo di pistola al ventre. Un tragico decesso che non pone fine alle crudeli sorprese della festa. L’invito al ballo si rivela un gioco spietato, una trappola inaspettata per i convenuti a Blackheath House e per uno di loro in particolare: Aiden Bishop. Evelyn Hardcastle non morirà, infatti, una volta sola. Finché Aiden non risolverà il mistero della sua morte, la scena della caduta nell’acqua si ripeterà, incessantemente, giorno dopo giorno. E ogni volta si concluderà con il fatidico colpo di pistola. La sola via per porre fine a questo tragico gioco è identificare l’assassino. Ma, al sorgere di ogni nuovo giorno, Aiden si sveglia nel corpo di un ospite differente. E qualcuno è determinato a impedirgli di fuggire da Blackheath House.
Come inizia.
- Ai miei genitori, che mi hanno dato
- tutto senza chiedermi niente. A mia
- sorella, la prima e la più severa dei miei
- lettori dagli anni dei bombi in poi.
- E a mia moglie, che con il suo amore, il
- suo incoraggiamento e i suoi inviti ad
- alzare ogni tanto gli occhi dalla tastiera
- ha reso questo libro molto più bello di
- quanto sperassi.
1.
Primo giorno
Dimentico tutto tra un passo e l’altro.
«Anna!» mi ritrovo a gridare, per poi chiudere la bocca di scatto, sorpreso.
Ho il vuoto nel cervello. Non so chi sia Anna, né perché stia chiamando il suo nome. Non so nemmeno come abbia fatto ad arrivare qui. Sono in un bosco, e mi proteggo gli occhi dalla pioggia sottile. Sento il cuore che batte all’impazzata. Puzzo di sudore e mi tremano le gambe. Devo aver corso, ma non ricordo perché.
«Come ho…» Mi interrompo nel vedere l’aspetto delle mie mani. Sono ossute e brutte. Le mani di un estraneo. Non le riconosco.
Nell’avvertire il primo brivido di panico, mi sforzo di rammentare qualcos’altro su di me: un familiare, il mio indirizzo, la mia età, qualsiasi cosa, ma non mi viene in mente nulla, neppure un nome. Qualunque ricordo avessi fino a un attimo fa, adesso è scomparso.
Ho un nodo alla gola, respiro rumorosamente e a ritmo accelerato. Il bosco mi vortica intorno, la vista oscurata da macchie nere.
Stai calmo.
«Non riesco a respirare» ansimo, con il sangue che mi rimbomba nelle orecchie, mentre crollo al suolo artigliando il terreno.
Certo che riesci a respirare, devi solo calmarti.
C’è un che di confortante in questa voce interiore, una fredda autorità.
Chiudi gli occhi, ascolta il bosco. Riprendi il controllo.
Obbedisco alla voce: serro gli occhi con forza, ma sento solo il sibilo dei miei respiri terrorizzati. Per un tempo lunghissimo questo suono copre qualsiasi altra percezione, ma piano piano, con una lentezza esasperante, scavo un buco nella mia paura, permettendo ad altri rumori di giungere fino a me. Le gocce di pioggia picchiettano sulle foglie, i rami stormiscono sopra la mia testa. C’è un ruscello lontano, sulla destra, e tra gli alberi ci sono cornacchie che fendono l’aria quando spiccano il volo. Qualche creatura sfreccia via nel sottobosco, distinguo i tonfi attutiti delle zampe di un coniglio che mi passa così vicino da poterlo toccare. A uno a uno, intesso questi nuovi ricordi fino a ottenere cinque minuti di passato in cui avvolgermi. È sufficiente ad arginare il panico, almeno per ora.
Mi rimetto goffamente in piedi, stupito della mia statura, di quanto il terreno mi appaia lontano. Barcollando un poco, spazzolo via le foglie umide dai pantaloni e mi rendo conto per la prima volta che indosso lo smoking e ho la camicia imbrattata di fango e di vino rosso. Devo essere reduce da una festa. Ho le tasche vuote e sono senza cappotto, perciò non posso essermi spinto troppo lontano. È un’idea rassicurante.
A giudicare dalla luce, è mattina, perciò con ogni probabilità sono rimasto qua fuori per tutta la notte. Nessuno si agghinda così per passare la serata da solo: ciò significa che ormai qualcuno si sarà accorto della mia assenza. Oltre questi alberi c’è di sicuro una casa i cui abitanti, preoccupati, stanno organizzando squadre di ricerca da spedire sulle mie tracce. Il mio sguardo vaga tra gli alberi, quasi mi aspettassi di veder sbucare dal fogliame i miei amici, pronti a scortarmi a casa tra manate sulle spalle e bonarie canzonature, ma i sogni a occhi aperti non serviranno a farmi uscire dal bosco, e non posso permettermi di indugiare qui cullandomi nella speranza di un soccorso. Tremo, batto i denti. Ho bisogno di camminare, se non altro per riscaldarmi, però non vedo che alberi. Non ho modo di sapere se mi avvicino a chi potrà aiutarmi o se me ne allontano brancolando.
In preda allo smarrimento, torno all’ultima preoccupazione dell’uomo che ero.
«Anna!»
Chiunque sia questa donna, è senza dubbio lei la ragione per cui sono qui, eppure non riesco a visualizzarla. Che sia mia moglie, mia figlia? Nessuna delle due ipotesi suona corretta, e tuttavia il nome possiede una strana forza di attrazione. Sento che cerca di condurre i miei pensieri da qualche parte.
«Anna!» chiamo, più per disperazione che nella speranza di ottenere un risultato.
«Aiuto!» urla una donna di rimando.
Giro rapidamente su me stesso, in cerca della persona in pericolo, provocandomi le vertigini e avvistando tra gli alberi in lontananza una figura in nero che corre per salvarsi la vita. Pochi secondi dopo, individuo il suo inseguitore: avanza fragorosamente tra le fronde dietro di lei.
«Ehi, tu, fermati!» grido, ma la mia voce è debole e stanca e si perde nel sottobosco.
Lo shock mi inchioda sul posto, e i due sono quasi spariti quando parto di scatto per raggiungerli, precipitandomi verso di loro con una rapidità di cui non avrei mai creduto capace il mio corpo dolorante. Nonostante ciò, per quanto mi sforzi, entrambi restano sempre un po’ più avanti di me.
Il sudore mi sgorga dalla fronte, le gambe già fiacche si appesantiscono finché non cedono e mi fanno crollare scompostamente a terra. Arrancando tra le foglie, mi rialzo in tempo per udire il grido della donna. Inonda la foresta, reso acuto dalla paura, e viene ridotto al silenzio da un colpo di pistola.
«Anna!» chiamo disperatamente. «Anna!»
Nessuna risposta, solo l’eco sempre più fievole della detonazione.
Trenta secondi. È stata questa la durata della mia esitazione dopo aver visto la donna per la prima volta, e questo è il tempo che mi ha separato da lei mentre veniva assassinata. Trenta secondi di indecisione, trenta secondi per abbandonare qualcuno al suo destino.
C’è un grosso ramo ai miei piedi: lo raccolgo e provo a farlo oscillare, confortato dal suo peso e dalla superficie scabra della corteccia. Non mi servirà a molto contro un’arma da fuoco, ma è sempre meglio che perlustrare questi boschi a mani nude. Sebbene abbia ancora il respiro corto e le gambe molli dopo la corsa, il senso di colpa mi spinge nella direzione da cui veniva il grido di Anna. Attento a non fare troppo rumore, scosto le fronde più basse, in cerca di una scena che in realtà non voglio vedere.
Uno scricchiolio di ramoscelli alla mia sinistra.
Trattengo il fiato e tendo le orecchie.
Il rumore si ripete: i passi di qualcuno che calpesta foglie e rami aggirandosi sulle mie tracce.
Mi si gela il sangue e mi blocco di colpo. Non oso guardarmi alle spalle.
Lo scricchiolio si fa più vicino, sento un respiro superficiale appena dietro di me. Mi cedono le gambe, il ramo mi cade di mano.
Pregherei, ma non ricordo le parole.
Un alito caldo mi sfiora il collo. Avverto un odore di alcol e di sigarette, la puzza di un corpo non lavato.
«A est» sussurra un uomo con voce roca, lasciandomi cadere in tasca un oggetto pesante.
Lo sconosciuto indietreggia, i suoi passi si allontanano nel bosco mentre io mi accascio al suolo, premo la fronte contro il terreno, aspiro l’odore di foglie bagnate e putridume, con le lacrime che mi scendono lungo le guance.
Il mio sollievo è patetico, la mia vigliaccheria deprecabile. Non sono nemmeno riuscito a guardare negli occhi il mio aguzzino. Ma che razza di uomo sono?
Occorrono alcuni minuti perché la mia paura si diluisca a sufficienza da consentirmi di muovermi, e anche dopo sono costretto ad appoggiarmi a un albero vicino per riprendere le forze. Il dono dell’assassino mi balla in tasca; temendo ciò che potrei trovarci infilo la mano all’interno e tiro fuori una bussola d’argento.
«Oh!» esclamo sorpreso.
Il vetro ha un’incrinatura, il metallo è rigato e sul retro sono incise le iniziali SB. Non capisco cosa significhino, ma le indicazioni dell’assassino erano chiare. La bussola mi serve per puntare a est.
Lancio un’occhiata colpevole al bosco. Il cadavere di Anna dev’essere poco lontano, ma ho il terrore delle reazioni dell’assassino, se mai lo trovassi. Forse è per questo che mi sono salvato, perché non sono arrivato abbastanza vicino al corpo. Voglio davvero mettere alla prova i limiti della clemenza di questo individuo?
Sempre che si tratti davvero di clemenza.
Per un tempo interminabile fisso l’ago tremante della bussola. Non c’è più molto di cui sono sicuro, ma so che gli assassini non sono misericordiosi. Qualunque sia il gioco del killer, non posso fidarmi delle sue indicazioni e non dovrei seguirle, ma se non lo faccio… Torno a scrutare il bosco. Ogni direzione sembra uguale all’altra, alberi a non finire sotto un cielo pieno di livore.
Quanto bisogna sentirsi sperduti per lasciare che sia il diavolo a condurci a casa?
Sperduti come in questo momento, decido. Esattamente così.
Allontanandomi dal tronco, mi poso la bussola sul palmo. L’ago punta il nord, e io mi dirigo a est, contro il vento e il freddo, contro il mondo stesso.
La speranza mi ha abbandonato.
Sono un’anima finita in purgatorio, ignara dei peccati che l’hanno relegata qui.
2.
Il vento ulula, la pioggia si è infittita e gli scrosci precipitano attraverso gli alberi martellando il terreno con tanta violenza da rimbalzare all’altezza delle mie caviglie mentre seguo le indicazioni della bussola.
Scorgendo uno sprazzo di colore nella cupezza dello scenario, arranco in quella direzione e raggiungo un fazzoletto rosso inchiodato a un albero: ciò che resta di un gioco infantile dimenticato da lungo tempo, immagino. Ne cerco un secondo e lo trovo a pochi passi di distanza, e poi ne vedo un altro e un altro ancora. Incespicando di segnale in segnale, avanzo nella semioscurità finché non arrivo ai margini della foresta, dove gli alberi lasciano il posto alla tenuta di una grande villa georgiana la cui facciata di mattoni rossi è sepolta dall’edera. A quanto posso giudicare, la dimora è abbandonata. Il lungo viale d’ingresso è coperto di erbacce, e i rettangoli di prato che lo fiancheggiano sono diventati paludi, le bordure fiorite lasciate ad avvizzire.
Cerco qualche segno di vita, esplorando con lo sguardo le finestre buie fino a quando non scorgo una pallida luce al primo piano. Dovrebbe darmi sollievo, eppure continuo a esitare. Ho la sensazione di essermi imbattuto in una creatura addormentata, e quella luce incerta mi sembra il cuore pulsante di un organismo colossale, pericoloso e immobile. Per quale altro motivo un assassino mi avrebbe consegnato una bussola se non per condurmi tra le fauci di un essere ancora più malvagio?
È il pensiero di Anna a indurmi a muovere il primo passo. Ho lasciato che perdesse la vita con i miei trenta secondi d’indecisione e adesso eccomi di nuovo qui a indugiare. Inghiottendo il nervosismo, mi asciugo gli occhi bagnati di pioggia e attraverso la distesa erbosa per poi salire i gradini sgretolati davanti alla porta. La tempesto di pugni con la furia di un bambino, sfogando sul legno le mie ultime forze. In quella foresta è accaduta una cosa terribile, un misfatto che può ancora essere punito, se solo riuscissi a riscuotere gli occupanti della casa.
Sfortunatamente, i miei tentativi sono vani.
Sebbene mi sfinisca a forza di bussare, nessuno viene ad aprirmi.
Mettendo le mani a coppa, premo il naso contro le alte finestre ai due lati della porta, ma il vetro colorato è nascosto da uno spesso strato di sudiciume e trasforma tutto ciò che si trova all’interno in una chiazza giallastra. Ci batto sopra con il palmo, facendomi indietro per scrutare la facciata dell’edificio in cerca di un’altra via d’accesso. È allora che noto la catena del campanello, gli anelli arrugginiti avvolti dall’edera. Dopo averli liberati con uno strattone, li tiro con energia e continuo a farlo finché non vedo qualcosa muoversi al di là delle finestre.
La porta viene aperta da un tizio insonnolito dall’aspetto così straordinario che per un attimo ci limitiamo entrambi a fissarci a vicenda. L’uomo è basso di statura e deforme, raggrinzito dal fuoco che gli ha deturpato metà della faccia. Un pigiama troppo largo per lui gli penzola sul corpo come su un attaccapanni, e una frusta vestaglia marrone gli aderisce alle spalle storte. Sembra a malapena umano, un vestigio di una specie estinta rimasto sperduto tra le pieghe dell’evoluzione.
«Oh, grazie al cielo: ho bisogno d’aiuto» dico, ritrovando il controllo.
Lui mi guarda a bocca aperta.
«C’è un telefono qui?» riprovo. «Dobbiamo rivolgerci alle autorità».
Niente.
«Diavolo, non se ne stia lì impalato!» grido, scuotendolo per le spalle. Poi lo oltrepasso per entrare nell’atrio, dove percorro la stanza con lo sguardo, la bocca spalancata per lo stupore. Tutte le superfici risplendono: il pavimento di marmo a scacchi riflette un lampadario di cristallo con decine e decine di candele. Specchi incorniciati si allineano sulle pareti, un ampio scalone dall’elaborata balaustra s’innalza verso un ballatoio, e una stretta passatoia rossa scende lungo i gradini come il sangue di un animale macellato.
Una porta sbatte sul retro, e dai recessi della casa compare una mezza dozzina di domestici, le braccia cariche di fiori viola e rosa, il cui profumo riesce quasi a coprire l’odore della cera calda. Ogni conversazione cessa quando i nuovi venuti notano la presenza dell’ansimante figura da incubo accanto alla porta. Uno per uno si girano dalla mia parte, e l’intera stanza sembra trattenere il fiato. Ben presto l’unico rumore è lo sgocciolio della pioggia dai miei vestiti bagnati sul loro bel pavimento pulito.
Plic.
Plic.
Plic.
«Sebastian?»
Un bell’uomo biondo in maglione da cricket e pantaloni di lino scende rapidamente le scale a due gradini per volta. Dimostra una cinquantina d’anni, anche se l’età, anziché logorarlo, gli ha dato un’aria sgualcita e decadente. Tenendo le mani in tasca, lo sconosciuto attraversa la stanza verso di me, percorrendo una linea retta in mezzo ai servitori silenziosi, che si fanno da parte per lasciarlo passare. Dubito che si sia anche soltanto accorto di loro, tanto intensamente mi fissano i suoi occhi.
«Amico mio, cosa diamine ti è successo?» mi domanda, la fronte corrugata per la preoccupazione. «L’ultima volta che ti ho visto…»
«Dobbiamo chiamare la polizia» lo interrompo afferrandogli il braccio. «Anna è stata assassinata».
I presenti, sconvolti, commentano bisbigliando.
Il nuovo arrivato mi scruta con le sopracciglia aggrottate, lanciando un rapido sguardo ai domestici, che si sono avvicinati di un passo.
«Anna?» ripete in tono sommesso.
«Sì, Anna. Qualcuno la stava inseguendo».
«E chi?»
«Un tizio in nero, bisogna avvertire la polizia!»
«Tra poco, tra poco, ma prima andiamo in camera tua» mi blandisce, guidandomi verso la scala.
Non so se sia il calore della casa o il sollievo di aver trovato una faccia amica, ma comincio a sentirmi debole e sono costretto ad aggrapparmi alla balaustra per evitare di inciampare mentre saliamo i gradini.
In cima alla rampa ci accoglie una pendola dagli ingranaggi arrugginiti che trasforma i secondi in polvere con le sue oscillazioni. È più tardi di quanto pensassi, quasi le dieci e mezzo del mattino.
Due corridoi, a destra e a sinistra, conducono nelle ali opposte dell’edificio, anche se a est il passaggio è bloccato da una tenda di velluto frettolosamente inchiodata al soffitto, sulla quale è appuntato un cartello che dichiara la zona «in corso di ristrutturazione».
Impaziente di liberarmi del peso di quanto accaduto stamattina, cerco di affrontare di nuovo l’argomento Anna, ma il mio buon samaritano mi zittisce scuotendo la testa con fare cospiratorio.
«Questa deprecabile servitù diffonderà le tue parole per tutta la casa nel giro di mezzo minuto» mi dice, la voce tanto bassa da sfiorare il pavimento. «Meglio parlare in privato».
Si allontana da me in due falcate, ma io fatico a procedere in linea retta, e non riesco a tenere il passo.
«Amico mio, hai un aspetto spaventoso» commenta lui, accorgendosi che sono rimasto indietro.
Mi sorregge il braccio e mi guida lungo il corridoio appoggiandomi una mano sulla schiena, le dita premute contro la mia spina dorsale. Un gesto semplice, nel quale percepisco l’urgenza di condurmi attraverso il tetro corridoio, ai due lati del quale si aprono stanze da letto in cui le cameriere sono indaffarate a spolverare. Le pareti devono essere state ridipinte da poco, perché le esalazioni della vernice, altro indizio di una ristrutturazione frettolosa, mi fanno lacrimare gli occhi. Un mordente non uniforme è stato applicato sulle assi del pavimento, dove sono stati stesi tappeti nel tentativo di attutire lo scricchiolio dei punti di congiunzione. Poltrone dotate di poggiatesta sono disposte in modo da nascondere le crepe nei muri, mentre quadri e vasi di porcellana cercano di distogliere l’attenzione dalle modanature sgretolate. Dato il livello del degrado, questi rimedi sembrano alquanto futili. Hanno tappezzato un rudere.
«Ah, ecco la tua camera: è questa, no?» dice il mio compagno, aprendo una porta verso il fondo del corridoio.
Una folata d’aria fredda m’investe in piena faccia, rianimandomi un poco, ma il mio accompagnatore mi precede all’interno per chiudere la finestra dalla quale entra la pioggia. Seguendolo, mi ritrovo in una stanza piacevole con un letto a quattro colonne piazzato al centro, il cui aspetto regale è solo lievemente guastato dal baldacchino cascante e dalle tende logore con un ricamo di uccelli dal volo spezzato all’altezza delle cuciture. Un paravento pieghevole scherma il lato sinistro della camera, ma gli spiragli tra i pannelli lasciano intravedere una vasca da bagno in ferro. A parte questi arredi, il mobilio è scarso: ci sono solo un comodino e un grande armadio vicino alla finestra, entrambi scheggiati e sbiaditi. L’unico oggetto personale che vedo è una Bibbia di re Giacomo sul comodino, con la copertina consunta e le pagine spiegazzate.
Mentre il mio buon samaritano lotta contro la finestra recalcitrante, mi avvicino a lui, e per un attimo il panorama mi cancella qualsiasi altro pensiero dalla mente. Siamo circondati da una fitta foresta, la cui distesa verde non è interrotta da strade né da villaggi. Senza la bussola, senza la gentilezza di un assassino, non avrei mai trovato questo posto, eppure non riesco a liberarmi della sensazione di essere stato attirato in una trappola. In fin dei conti, perché uccidere Anna e risparmiare me, se dietro questa scelta non ci fosse un piano di più vasta portata? Cosa vuole da me quel demonio, a parte ciò che avrebbe potuto prendersi nel bosco?
Dopo aver chiuso la finestra con energia, il mio compagno mi indica una poltrona accanto al camino, dove arde un fuoco basso; poi, offrendomi un’inamidata salvietta bianca presa dall’armadio, si siede sul bordo del letto e accavalla le gambe.
«Comincia dal principio, vecchio mio» dice.
«Non c’è tempo» ribatto, afferrando i braccioli della poltrona. «Risponderò a tutte le tue domande al momento opportuno, ma prima dobbiamo chiamare la polizia e perlustrare quei boschi! C’è un pazzo in libertà».
Lo sguardo del mio interlocutore guizza su di me, come se la verità di quanto sostengo andasse cercata tra le pieghe degli abiti sporchi che ho indosso.
«Temo che non sia possibile avvertire nessuno: il telefono non funziona» replica massaggiandosi il collo. «Ma possiamo esplorare i boschi e mandare un domestico al villaggio, nel caso trovassimo qualcosa. Quanto ci metti a cambiarti? Avremo bisogno che tu ci indichi il posto dov’è avvenuto il fatto».
«Be’…» Torco la salvietta tra le mani. «Non sarà facile, ero disorientato».
«Una descrizione, allora» mi incalza, sollevandosi il pantalone e rivelando la calza grigia che gli copre la caviglia. «Che aspetto aveva l’assassino?»
«Non l’ho mai visto in faccia, portava un pesante cappotto nero».
«E questa Anna?»
«Era vestita di nero anche lei» rispondo, e una vampata mi sale al viso mentre mi rendo conto che le mie informazioni finiscono qui. «Io… be’, conosco solo il suo nome».
«Perdonami, Sebastian, ma avevo supposto che fosse una tua amica».
«N-no…» balbetto. «Voglio dire, forse lo è. Non ne sono sicuro».
Con le mani penzoloni tra le ginocchia, il mio buon samaritano si china in avanti, un sorriso confuso sulla faccia. «Mi è sfuggito qualcosa, credo. Come fai a conoscere il suo nome senza essere sicuro…»
«Ho perso la memoria, accidenti» lo interrompo, e la mia confessione piomba a terra in mezzo a noi. «Non ricordo neanche il mio, di nome, figuriamoci quello dei miei amici».
Lo scetticismo gli aleggia negli occhi. Non posso biasimarlo; l’intera faccenda suona assurda alle mie stesse orecchie.
«Ma la memoria non ha nulla a che vedere con il fatto al quale ho assistito» insisto, aggrappandomi ai brandelli della mia credibilità. «Ho visto una donna inseguita, le cui grida sono state ridotte al silenzio da un colpo di pistola. Dobbiamo perlustrare quei boschi!»
«Capisco» dice il mio interlocutore, facendo una pausa per spazzolarsi via una pagliuzza dai pantaloni. La sua frase successiva è un’offerta, formulata con cura e posta di fronte a me con cura ancora maggiore.
«Non è ipotizzabile che le due persone che hai visto fossero amanti? Impegnati in un loro gioco nei boschi, magari? Forse la detonazione che hai sentito era lo schiocco di un ramo spezzato, o anche lo sparo di una pistola da starter».
«No, no, lei stava chiedendo aiuto, aveva paura» ribadisco, e l’agitazione mi fa alzare di scatto dalla poltrona, mentre la salvietta sporca finisce sul pavimento.
«Certo, certo» dice lui in tono rassicurante, guardandomi passeggiare in preda al nervosismo. «Io ti credo, mio caro amico, ma i poliziotti sono molto puntigliosi su certi dettagli e si divertono un mondo a ridicolizzare le persone socialmente superiori a loro».
Lo fisso con aria inerme, affogando in un mare di luoghi comuni.
«L’assassino mi ha dato questa» riprendo poi, ricordandomi a un tratto della bussola e tirandola fuori dalla tasca. È chiazzata di fango, e la ripulisco sulla manica. «Ci sono delle lettere sul retro» aggiungo, mostrandogliele con l’indice tremante.
Lui scruta lo strumento a occhi socchiusi, rigirandolo tra le dita con gesti metodici.
«SB» sillaba adagio, alzando gli occhi su di me.
«Sì!»
«Sebastian Bell». S’interrompe, soppesando la mia confusione. «È il tuo nome, Sebastian. SB sono le tue iniziali. Questa è la tua bussola».
Apro e chiudo la bocca senza emettere alcun suono.
«Devo averla persa» dico infine. «Forse l’assassino l’ha raccolta».
«Può darsi» concorda lui.
La sua gentilezza mi toglie il fiato. Mi considera mezzo matto, uno stupido ubriacone che ha passato la notte nella foresta ed è tornato farneticando. Eppure, invece di arrabbiarsi, mi compatisce. È questa la cosa peggiore. La rabbia ha una sua solidità, un suo peso. La si può prendere a pugni. La compassione è una nebbia nella quale si finisce per perdersi.
Crollo sulla poltrona, stringendomi la testa tra le mani. C’è un killer a piede libero e io non ho modo di convincere il mio ascoltatore del pericolo.
Un killer che ti ha indicato la strada di casa?
«So quello che dico» dichiaro.
Non sai nemmeno chi sei.
«Ne sono sicuro» concorda il mio compagno, equivocando la natura della mia protesta.
Fisso il vuoto, pensando solo a una donna chiamata Anna che giace morta in mezzo al bosco.
«Senti, tu rimani qui a riposare» mi propone poi il mio buon samaritano, alzandosi. «Io chiederò in giro per la casa, e controllerò se manca qualcuno. Magari riuscirò a scoprire qualcosa».
Parla in tono conciliante, ma pragmatico. Per quanto sia stato cortese con me, temo che i suoi dubbi non gli permettano di impegnarsi sul serio. Appena la porta di questa stanza si chiuderà alle sue spalle, farà qualche domanda svogliata alla servitù mentre Anna rimarrà abbandonata là fuori.
«Ho assistito all’assassinio di una donna» dico, tirandomi stancamente in piedi. «Una donna che avrei dovuto aiutare, e dovessi anche frugare ogni angolo di quei boschi per dimostrarlo, ci riuscirò».
Lui sostiene il mio sguardo per un attimo e il suo scetticismo vacilla di fronte alle mie certezze.
«Da dove intendi cominciare?» mi domanda. «La foresta si estende per migliaia di acri là fuori, e tu, nonostante tutte le tue buone intenzioni, ce la facevi a malapena a salire le scale. Chiunque sia questa Anna, ormai è morta e il suo assassino è fuggito. Dammi un’ora per organizzare una squadra di ricerca e fare le mie domande. Qualcuno in questa casa dovrà pur sapere chi è e dov’è andata. La troveremo, te lo garantisco, ma dobbiamo procedere nel modo giusto».
Mi stringe una spalla.
«Sei disposto a fare come dico? Ti chiedo solamente un’ora».
Le obiezioni mi si affollano in gola, ma ha ragione lui. Ho bisogno di riposare, di recuperare le forze. Per quanto mi senta colpevole della morte di Anna, non ho nessuna voglia di avventurarmi da solo in quella foresta. Già una volta ne sono uscito a stento.
Cedo con un docile cenno del capo.
«Grazie, Sebastian» dice lui. «Il bagno è pronto. Perché non ti dai una ripulita? Io chiamerò il medico e pregherò il mio cameriere di prepararti un cambio d’abito. Prenditi un po’ di riposo, ci vediamo in salotto all’ora di pranzo».
Dovrei interrogarlo su questo posto prima di lasciarlo andare, sul motivo della mia presenza qui, ma sono impaziente che cominci a informarsi perché possano iniziare le ricerche. C’è un’unica domanda che mi sembra importante rivolgergli adesso, e lui ha già aperto la porta quando trovo le parole per formularla.
«Ho dei parenti in questa casa?» gli chiedo. «Qualcuno che potrebbe essere preoccupato per me?»
Lui si gira a guardarmi da sopra la spalla, restio a mostrare empatia.
«Sei scapolo, vecchio mio. Non hai familiari di sorta, con l’eccezione di una zia un po’ suonata che vive da qualche parte e regge i cordoni della tua borsa. Hai degli amici, naturalmente, tra cui il sottoscritto, ma chiunque sia questa Anna, non me ne hai mai parlato. Per la verità, fino a oggi non ti avevo mai sentito pronunciare il suo nome».
In preda all’imbarazzo, gira le spalle alla mia delusione e sparisce nel corridoio freddo, mentre il fuoco vacilla incerto quando la porta si chiude dietro di lui.
3.
Il fuoco nel camino sta ancora vacillando quando mi allontano dalla poltrona e apro i cassetti del comodino in cerca di qualche traccia di Anna tra le mie cose, di qualsiasi prova in grado di dimostrare che questa donna non è il prodotto di una mente malferma. Per mia sfortuna, la stanza esibisce una considerevole reticenza. A parte un portafogli contenente poche sterline, l’unico oggetto personale che riesco a trovare è un invito in rilievo, stampato in oro, con un elenco di ospiti sul davanti e un messaggio sul retro, scritto in calligrafia elegante.
Lord e Lady Hardcastle richiedono il piacere della Sua compagnia al ballo in maschera organizzato per festeggiare il ritorno da Parigi della figlia Evelyn. La festa avrà luogo a Blackheath House nel corso del secondo fine settimana di settembre. Dato l’isolamento del luogo, nel vicino villaggio di Abberly saranno a disposi zione di tutti gli ospiti mezzi di trasporto per raggiungere la casa.
L’invito è indirizzato al dottor Sebastian Bell, e mi occorre qualche istante per riconoscere il mio nome. Il mio buon samaritano l’aveva già citato poco fa, ma vederlo scritto, insieme al titolo che attesta la mia professione, è tutt’altra faccenda, dall’effetto assai più inquietante. Non mi sento per nulla un Sebastian, e tanto meno un medico.
Mi aleggia sulle labbra un sorriso ironico.
Mi domando quanti dei miei pazienti mi rimarranno fedeli quando li avvicinerò con lo stetoscopio infilato al contrario.
Butto l’invito dov’era, nel cassetto, e rivolgo la mia attenzione alla Bibbia appoggiata sul comodino, di cui sfoglio le pagine logorate dall’uso. Ci sono paragrafi sottolineati, parole in apparenza scelte a caso e cerchiate con l’inchiostro rosso, da cui non riesco assolutamente a ricavare un senso. Speravo di trovare una dedica, o una lettera nascosta nel libro, e invece questa copia delle sacre scritture è priva di saggezza. Stringendo il volume con entrambe le mani, faccio il goffo tentativo di pregare, nella speranza di riattizzare la fede che forse possedevo un tempo, ma l’intera impresa risulta ridicola e assurda. La religione mi ha abbandonato insieme a tutto il resto.
Passo all’armadio e, sebbene le tasche dei miei abiti si rivelino vuote, scopro un baule da viaggio sepolto sotto una pila di coperte. È un bellissimo oggetto antico, il cuoio malconcio avvolto da strisce di ferro brunito, con un massiccio fermaglio a proteggere il contenuto da occhi indiscreti. Sulla targhetta è scritto un indirizzo di Londra – presumibilmente il mio – che però non evoca in me alcun ricordo.
Mi tolgo la giacca e appoggio il baule sulle nude assi del pavimento: ciò che si trova all’interno tintinna a ogni scossa. Mi lascio sfuggire un mormorio di eccitazione mentre premo il pulsante del fermaglio, mormorio che si trasforma in un gemito quando scopro che questo dannato affare è chiuso a chiave. Tiro il coperchio, una, due volte, invano, non cede. Torno a frugare nei cassetti aperti e nell’armadio, arrivando a coricarmi a terra per guardare sotto il letto, ma non vedo altro che sferette di veleno per topi e polvere.
La chiave non si trova da nessuna parte.
L’unico posto dove non ho cercato è l’angolo della vasca da bagno: giro intorno al paravento pieghevole con la velocità di un ossesso, e balzo via spaventato nello scorgere una creatura dallo sguardo folle in agguato là dietro.
È uno specchio.
La creatura dallo sguardo folle sembra imbarazzata quanto me da questa rivelazione.
Muovendo un passo incerto in avanti, esamino per la prima volta il mio aspetto, e un senso di delusione mi invade. Solo adesso, fissando quell’individuo tremante e spaventato, comprendo di aver avuto delle aspettative sul mio conto. Non so se pensassi di essere più alto, più basso, più magro o più in carne, ma certamente non la scialba figura riflessa nello specchio. Capelli castani, occhi castani, mento inesistente: sono solo un volto anonimo tra la folla, il rimedio del Signore per riempire i vuoti.
Ben presto stanco della mia immagine, continuo a cercare la chiave del baule ma, a parte alcuni oggetti da toeletta e una brocca d’acqua, qui non c’è nulla. Chiunque fossi, sembra che abbia messo tutto in ordine prima di scomparire. Sto per urlare dalla frustrazione quando qualcuno bussa alla porta, un’intera personalità espressa in cinque energici colpi.
«Sebastian, ci sei?» chiede una voce burbera. «Mi chiamo Richard Acker, sono un medico. Mi hanno chiesto di venire a darti un’occhiata».
Apro e mi trovo di fronte un paio di enormi baffi grigi. Sono uno spettacolo notevole, con le punte incurvate ai lati della faccia alla quale in teoria sono attaccati. L’uomo dietro i baffi è sulla sessantina, completamente calvo, con il naso bulboso e gli occhi iniettati di sangue. Sa di brandy, ma in modo allegro, come se ogni goccia del liquore fosse stata inghiottita con un sorriso.
«Dio, hai un aspetto orribile!» esclama. «E questo è il mio parere professionale».
Approfittando della mia confusione, mi oltrepassa, butta sul letto la borsa nera da medico e scruta la stanza con un lungo sguardo, prestando particolare attenzione al baule.
«Ne avevo uno così anch’io» commenta, passando una mano sul coperchio con un gesto amorevole. «Un Lavolaille, vero? Il mio mi ha portato in Oriente e ritorno quand’ero nell’esercito. Si dice che non bisognerebbe mai fidarsi dei francesi, ma io non potrei fare a meno delle valigie che producono».
Assesta al baule un calcetto di prova, trasalendo mentre il piede gli rimbalza via dal cuoio rigido.
«Devi averlo riempito di mattoni» osserva, inclinando il capo verso di me con l’aria di aspettarsi qualcosa, come se potesse esistere una reazione sensata a un’affermazione simile.
«È chiuso» balbetto.
«Non trovi la chiave, eh?»
«Io… no. Dottor Acker, io…»
«Chiamami Dickie, lo fanno tutti» m’interrompe in tono vivace avvicinandosi alla finestra per guardare fuori. «Per la verità questo diminutivo non mi è mai piaciuto, ma a quanto pare non riesco a scrollarmelo di dosso. Daniel sostiene che hai avuto un incidente».
«Daniel?» ripeto, riuscendo a malapena a tenermi aggrappato alla conversazione che mi sfugge rapidamente di mano.
«Coleridge. Il tizio che ti ha trovato stamattina».
«Giusto, sì».
Il dottor Dickie reagisce alla mia perplessità con un sorriso radioso.
«Perdita della memoria, eh? Be’, nulla di cui preoccuparsi, ho già visto casi del genere in guerra, e i ricordi sono sempre tornati al loro posto nel giro di un giorno o due, che il paziente lo volesse o no».
Mi sospinge verso il baule e mi fa sedere sul coperchio. Abbassandomi il capo, mi esamina il cranio con la delicatezza di un macellaio, ridacchiando quando sobbalzo.
«Oh, sì, c’è proprio un bel bernoccolo qua dietro». S’interrompe, valutandolo. «Probabilmente hai battuto la testa da qualche parte la notte scorsa. Immagino sia stato allora che la tua memoria si è rovesciata fuori, per così dire. Altri sintomi? Emicrania, nausea, roba del genere?»
«C’è una voce» rispondo, un po’ imbarazzato dalla mia ammissione.
«Una voce?»
«Nella testa. Credo sia la mia, solo che… be’, è molto sicura di ciò che afferma».
«Capisco» dice lui con aria pensierosa. «E questa… voce di cosa parla?»
«Mi dà consigli, a volte commenta ciò che faccio».
Dickie passeggia alle mie spalle, tirandosi i baffi.
«E i suoi consigli sono, come dire, secondo le regole? Nulla di violento o di perverso?»
«Assolutamente no» dichiaro, irritato per l’illazione.
«E in questo momento la senti?»
«No».
«È il trauma» proclama Acker bruscamente, sollevando un dito in aria. «Ecco di cosa si tratta: è un fenomeno molto comune, in effetti. Si batte la testa e cominciano a succedere stranezze di ogni tipo. Si vedono gli odori, si assaporano i suoni, si sentono voci. Si risolve sempre tutto nel giro di un giorno o due, un mese al massimo».
«Un mese!» esclamo, voltandomi di scatto per essere di fronte a lui. «Come faccio ad andare avanti così per un mese? Forse dovrei rivolgermi a un ospedale».
«Dio, no, posti spaventosi, gli ospedali» commenta Acker inorridito. «Malattie e morte annidate in ogni angolo, i malanni raggomitolati sui letti insieme ai pazienti. Dai retta a me: vai a fare una passeggiata, fruga tra le tue cose, parla con un amico. Ti ho visto mentre ti spartivi una bottiglia con Michael Hardcastle, ieri sera, anzi, parecchie bottiglie, per la verità. Una serata notevole da ogni punto di vista. Michael dovrebbe poterti aiutare, e credi a me: appena ti tornerà la memoria, la voce sparirà».
Fa una pausa, borbottando. «Mi preoccupa di più quel braccio».
Qualcuno bussa alla porta e ci interrompe; Dickie gli apre senza darmi il tempo di protestare. È il cameriere di Daniel, venuto a consegnarmi gli abiti stirati che mi aveva promesso il suo padrone. Avvertendo la mia esitazione, Acker li prende, congeda il domestico e sistema gli indumenti sul letto.
«Dunque, dov’eravamo rimasti?» dice poi. «Ah, sì, il braccio».
Seguo il suo sguardo e vedo i motivi disegnati dal sangue sulla manica della mia camicia. Senza preamboli il medico me la tira su rivelando una serie di brutti tagli che mi hanno ridotto la carne a brandelli. Sembrano già parzialmente rimarginati, ma i miei sforzi di poco fa devono averli riaperti.
Dopo avermi piegato una alla volta le dita irrigidite, Dickie pesca dalla borsa una boccetta marrone e alcune bende, poi mi pulisce i tagli prima di tamponarli con la tintura di iodio.
«Sono ferite inferte con una lama, Sebastian» osserva in tono preoccupato. La sua allegria è ridotta in cenere. «E di recente, anche. A quanto pare hai alzato il braccio per proteggerti, in questo modo».
Mi offre una dimostrazione con un contagocce di vetro preso dalla sua valigetta da medico, colpendosi con violenza il braccio che tiene sollevato davanti alla faccia. Mi basta assistere alla sua ricostruzione della scena per sentirmi accapponare la pelle.
«Non ti ricordi nulla di ieri sera?» mi domanda, avvolgendomi il braccio in una fasciatura talmente stretta da strapparmi un gemito. «Niente di niente?»
Costringo i miei pensieri a concentrarsi sulle ore dimenticate. Svegliandomi, avevo dato per scontato di averne perduto qualunque traccia, ma adesso mi accorgo che non è così. Avverto la presenza dei ricordi, appena oltre la mia portata. Hanno un peso e una forma, come mobili coperti da lenzuoli in una stanza buia. Ho soltanto smarrito la lampada che mi permetteva di vederli.
Scuoto la testa con un sospiro.
«Non mi viene in mente nulla» rispondo. «Ma stamattina ho visto una…»
«Donna assassinata» m’interrompe il medico. «Sì, Daniel me l’ha riferito».
Ogni parola è marchiata dal dubbio, e tuttavia Acker mi lega le bende intorno al braccio senza esprimere obiezioni.
«In ogni caso devi informare subito la polizia» dice poi. «Chiunque sia il responsabile delle tue ferite stava cercando di nuocerti seriamente».
Prende la borsa dal letto e mi stringe la mano con un gesto impacciato.
«Ritirata strategica, ragazzo mio, ecco ciò che occorre nel tuo caso» aggiunge. «Parla con il capo stalliere, lui dovrebbe essere in grado di procurarti un mezzo di trasporto per arrivare al villaggio, e là potrai avvertire la polizia. Nel frattempo, con ogni probabilità la cosa migliore è stare in guardia. Ci sono venti persone alloggiate a Blackheath questo fine settimana, e ne arriveranno altre trenta per il ballo di stasera. Molte di loro non si farebbero scrupolo di prendere certe iniziative, e se hai offeso qualcuno… be’…» Scuote la testa. «Tieni gli occhi aperti, ecco il mio consiglio».
Esce, e io mi affretto a recuperare la chiave dal comodino per chiudere la porta alle sue spalle, mancando più volte il buco della serratura per colpa del tremito alle mani.
Un’ora fa mi credevo il trastullo di un assassino, tormentato, sì, ma al sicuro da minacce fisiche. In mezzo ad altre persone, mi sentivo tanto protetto da insistere per andare a recuperare il cadavere di Anna nella foresta, dando il via alla ricerca del killer. Adesso non è più così. Qualcuno ha già tentato di togliermi la vita, e io non ho nessuna intenzione di rimanere qui abbastanza a lungo da consentire ai miei aggressori di riprovarci. I morti non possono aspettarsi che i vivi siano in debito nei loro confronti, e qualunque cosa io debba ad Anna, dovrò ripagarla da lontano. Dopo l’incontro in salotto con il mio buon samaritano, seguirò il consiglio di Dickie e mi procurerò un mezzo di trasporto per il villaggio.
È ora di tornare a casa.
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L’autore
Stuart Turton è un autore inglese di successo internazionale. Giornalista inglese. Il suo romanzo d’esordio, The Seven Deaths of Evelyn Hardcastle ha vinto il First Novel Award ai Costa Book Awards del 2018 ed è stato tradotto in 28 lingue. Dalla pubblicazione, ha venduto oltre 200.000 copie nel Regno Unito. In un’intervista, rilasciata al quotidiano The Guardian, ha descritto la scrittura del libro come “semplicemente orribile”. (come mettere preventivamente le mani avanti)
Turton è nato e cresciuto a Widnes, in Inghilterra, e ha studiato all’Università di Liverpool, dove ha conseguito un BA (Hons) in inglese e filosofia. Dopo la laurea, ha trascorso un anno a lavorare come insegnante a Shanghai, prima di diventare giornalista tecnologico a Londra. Si trasferisce a Dubai per diventare giornalista di viaggio, vivendo lì per tre anni fino a quando non torna a Londra per scrivere il suo primo romanzo.
- Le sette morti di Evelyn Hardcastle
- Stuart Turton
- Traduttore: Federica Oddera
- Editore: Neri Pozza
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 2,17 MB
- Pagine della versione a stampa: 526 p.
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