«Come saprete l’editor è un lavoro abbastanza difficile e, a volte, anche pericoloso. Insomma un’attività che presuppone qualche rischio».

 

L’EDITOR

 

racconto

di

Ginevra Valenti

 

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Una mattina buia di novembre un uomo uscì da un palazzo quadrangolare e si diresse alla stazione della metropolitana. Indossava un cappotto grigio e un cappello a tese larghe. Portava occhiali scuri e reggeva con la destra una piccola valigia nera.

L’uomo sbucò alla superficie in una piazza circondata da grattacieli e da una chiesa bassa. Imboccò un viale dove la prospettiva si dissolveva in una nebbia gialla. Camminò su un marciapiede invaso dai cofani luccicanti delle automobili, finché varcò la soglia di un palazzo.

La cabina dell’ascensore si illuminò appena la toccò con il piede. La porta si aprì al quinto piano. “Avanti” era scritto sopra una targa dorata. L’uomo fece qualche passo in una anticamera silenziosa.

   «L’editore la sta aspettando nel suo ufficio», gli disse la segretaria affacciandosi a una porta.

   «Eccole i manoscritti da legger», gli disse l’editore.

Erano collocati con cura uno sopra l’altro.

   «Sono romanzi di autori sconosciuti», continuò. «Io credo che un’occhiata potrà bastarle. Li porti a casa solo se la interessano».

Avanzò in mezzo ai libri di una stanza: libri sul tavolo, libri negli scaffali, libri accatastati lungo le pareti, libri allineati e sporchi, libri sul calorifero e in un angolo, libri sparsi sul davanzale.

Posò i manoscritti sul tavolo. Sedendosi, allineò davanti a sé una penna, una gomma e un blocco di fogli bianchi patinati. Poi prese il primo manoscritto, estraendolo da una custodia di colore rosso. Aggiustò i fogli sciolti. Cominciò a leggere.

Un molo sul lago, lui e lei nella stanza, descrizione degli oggetti, amore, descrizione dell’albergo in una panoramica dall’alto, influsso della fotografia aerea, un albergo minuscolo su un lago immenso, si ritorna nella stanza, lei abbassò improvvisamente gli occhi e gli disse, ancora qualche immagine, il lago che luccicava immobile, poi lui a piedi va dall’albergo in paese, lungo una strada rettilinea.

Non lesse per intero gli altri capitoli. L’azione si svolgeva sempre in albergo. La relazione a due diventava a tre verso la metà, finché in ultimo si formava la nuova coppia. C’era un taglio geometrico nei capitoli e alcuni dialoghi ricorrevano identici, associandosi sempre alle stesse immagini (la magnolia che saliva fino alla finestra, l’orizzonte del lago).

Scrisse: “L’errore, come quasi sempre, è nei fini. Qui il fine è di confermare un meccanismo erotico attraverso uno narrativo e viceversa”. Cancellò “fini” e lo sostituì con “modelli”.

Guardò verso la finestra; poi rilesse la frase e la cancellò. Scrisse: “La storia non mi interessa: è il solito triangolo”. Ma questo non era vero: la storia interessava. Quali storie interessano se non le solite. Cominciò a scrivere: “Effetti statici, tra i film di Dreyer e i cataloghi di oggetti di Robbe-Grillet”.

Le apparivano in sogno uomini con due falli e ogni volta lei indugiava a lungo sulla scelta. Lo psicanalista le spiegava che il numero doppio era una compensazione dell’indifferenza del marito e che l’indugio alludeva al piacere, ma anche al rimorso per la compensazione che si stava prendendo. Era comunque evidente che queste compensazioni mentali non le bastavano e infatti a pagina 83 usciva in un viale alberato con un collega e a pagina 105 il tradimento era consumato.

Adesso sognava di essere inseguita da un lupo e lo psicanalista le spiegava che era una compensazione della colpa. Questi dialoghi interrompevano l’azione e si inserivano d’improvviso nel contesto: in un viaggio in treno, durante l’amore in un bosco, in una cerna estiva sotto un pergolato.

L’autrice raccontava in prima persona. Il libro non aveva una conclusione, ma forse la conclusione era questo libro. Il tono era quello dimesso di una confessione.

Si intitolava Ufficio del Personale e lo schema era questo: ogni capitolo era intestato a un impiegato in oggetto e cominciava con il suo curriculum, (luogo e data di nascita, stato civile, abitazione, grado, note di qualifica). Seguiva una parte narrativa, dell’autore, che faceva da contrappunto a quella burocratica: “L’impiegato in oggetto” si diceva nella prefazione “ridiventa così uomo”.

Personalità abulica e priva di interessi era ad esempio un giovane che aveva ambizioni letterarie e si assentava spesso in gabinetto con un libro di poesie in tasca. Mentre le ombre nella vita privatadi un ispettore erano rischiarate dai lampioni di un viale periferico di omossessuali. 

Ma il tono era troppe volte in falsetto. L’autore che probabilmente descriveva colleghi di ufficio, aveva inventato per loro cognomi grotteschi.

Scrisse: “Qualche volta si preferiscono i curriculum redatti dal punto di vista dell’azienda”.

Una cosa abbastanza insolita era che i menu in trattoria venivano trascritti con i prezzi. Il protagonista assillato dalla scarsità di denaro, rifletteva a lungo prima di scegliere, valutando il gusto, il potere calorico e la spesa: era un peccato che il fritto di scampi fosse caro e le lasagne accessibili, ma scarse, un piccolo parallelepipedo verde. Si entrava in locali saturi di vapori e di odori e se ne usciva di soppiatto, dopo avere dato una mancia minima al cameriere. Si avanzava in androni semibui, si salivano scale sudice, l’alba filtrava in stanze ammobiliate, il collega più anziano era sarcastico e reagire alle sue battute non era facile. Né mancava la prima prostituta, avvicinata in un vicolo in una notte di pioggia, e l’incerto piacere, consumato quasi per interposta persona. Questo era detto bene, con precisione, però era un ripetere quello che si sa, era come dire l’inverno viene dopo l’autunno.

L’autore sorrideva troppo di se stesso e chiedeva la complicità del lettore. Così diventava difficile accordargliela. Era una narrazione piana, inarrestabile, che poteva durare all’infinito.

Spettabile Casa Editrice,

nell’inviare questo mio primo romanzo mi permetto di fare presente alla Commissione di Lettura due punti a mio parere essenziali. Primo: nessuna illazione sull’io che narra (non sono io). Secondo: Proust. Sarei grato se non si facesse questo nome, che nel mio caso è il più facile e, ne sono convinti, il più falso.

    «A che punto è il nostro lettore?», chiese l’editore sulla porta. «Andiamo a bere un caffè?»

Uscirono in un’aria carboniosa, filtrata da una pioggia impalpabile.

   «Alla fine si perde il senso delle proporzioni», disse il lettore. «Ci si abitua anche ai testi scadenti».

   «Ahi», disse l’editore.

   «Ma non tema che si diventi indulgenti. Semmai capita il contrario».

Aggiunse:

   «Gli errori scoraggiano e in ultimo si finisce col cercarli, per concludere prima».

Entrarono in un piccolo bar e si accostarono al banco.

   «Comunque», disse il lettore, «anche dagli errori si impara. Contengono una verità fraintesa ed è questa che in fondo interessa».

   «Qual è l’errore più grave secondo lei?», chiese l’editore.

   «Forse quello di porsi un fine sbagliato».

L’editore scosse la testa:

   «I risultati dipendono solo dai mezzi che uno ha».

   «Ma anche il fine è un mezzo per riuscire, non crede?».

Guardando verso la porta, aggiunse:

   «Il problema non è solamente quello che si trova, ma quello che si cerca».

Era ritornato nella stanza. Si sedette al tavolo e aprì un altro manoscritto. Riprese a leggere.

Che cosa dire a una classe che ti sta guardando. Questo era interessante. Come il fatto che il professore, all’inizio guardasse altrove. Vedeva davanti a sé un muro da scalare e le prime parole erano suoni. Solo verso la metà delle lezioni le parole acquistavano significato. Allora gli studenti lo guardavano e lui per la prima volta li fissava.

Anche le interrogazioni diventavano un tema importante. Chiedere le divinità del mondo antico o il significato di una iscrizione funeraria e dare un voto su questo.

L’autore qui non giocava né eludeva.

Questa parte però finiva presto. Il seguito si limitava a essere una parodia che mirava soltanto al suo bersaglio: la scuola “Vittorio da Feltre” di via Farneti.

C’erano alcuni errori precisi, ad esempio l’abuso di maiuscole. Il capo-ufficio diventava Capo e il figlio del protagonista il Figlio. Si viveva in un mondo di funzioni e non c’era speranza di uscirne.

Scrisse: “Qui la realtà non diventa un simbolo, ma il simbolo è l’unica realtà”.

Cancellò la prima frase e il “ma”. Perché mai la realtà dovrebbe sempre diventare un simbolo?

Lasciò scritto: “Qui il simbolo è l’unica realtà”.

Il Grattacielo, il Cliente, l’Interprete.

Scrisse: “La vita sacrificata all’astrazione”.

Ma qualche volta la vita si prendeva rivincite. Come quando apparivano, con la maiuscola, il Sole e la Luna e testi scolastici di geografia affioravano imprevedibili come ricordi nelle strade della città.

“Cinque anni di guerra visti da un soldato”

Ma già la parola “soldato” era un equivoco e allora scrisse sopra la parola “uomo”, poi cancellò anche questa: il narratore era soltanto un giovane che aveva cercato di sopravvivere alla guerra. E che cosa aveva visto? Il treno-reclute che si allontanava dal paese in un pomeriggio di luglio senza nuvole, dal cortile in pendenza della caserma, la nebbia che di notte alitava nella camerata da un vetro rotto, poi la luce inattesa della lampada e il volto del tenente che lo puniva. Al fronte aveva imparato solo questo: che un colpo era per lui la fine del mondo, ma il mondo continuava senza di lui.

Come tutti i memorialisti di guerra, in genere non sbagliava, perché il falso non aveva tempo di attivarlo. Leggendo: Oggi, due luglio, parto per il fronte, non si dubitava che partisse. Ma si vedeva una fotografia ingiallita ai margini, un dagherrotipo.

   Un uomo camminava in una stazione, entrava nei vapori di un bagno turco, poi i titoli di giornale si alternavano a comizi, a listini di Borsa, a sequenze di film psichedelici, a cortei di protesta. Solleciti di pagamento erano seguiti da intimazioni di sequestro, da interurbane di affari, da tramonti, da filari di alberi su un fiume, da una cena con l’altra nel vano di una finestra semiovale.

“Ho cercato di dare un volto al nostro tempo”, scriveva l’autore, “e questo può spiegare il titolo, L’Alienazione”.

Ma il problema del narratore era più complesso: come ripudiare la moglie senza angoscia o sopprimerla senza pericoli. La moglie si sovrapponeva al Medio Oriente, alla fame nel mondo, alla rivoluzione.

“Un delitto sognato”, scrisse il lettore, “differito per un progetto letterario”.

L’ultimo manoscritto era senza titolo ed era più voluminoso degli altri. Si poteva tentare il sondaggio ad apertura di pagina. Aprì a pagina 4 e le prime righe lo interessarono: Nella via regnava un calore soffocante. La folla, la vista dei calcinacci, dei mattoni, delle impalcature… L’odore insopportabile delle osterie, molto numerose in quella parte della città, e gli ubriachi che si incontravano a ogni passo, benché fosse un giorno di lavoro, finivano per dare al quadro un non so che di ributtante.

Ma subito dopo: I lineamenti fissi del nostro eroe… chioma castana e occhi di colore scuro.

Sfogliò rapidamente il manoscritto. Cedimenti di tipo espressionistico. (Crucifiggimi, giudice; ma, crucifiggimi, abbi pietà di me!) si alternavano a momenti di tensione (Il cuore gli batteva con violenza. Ma la scala era completamente silenziosa).

Benché l’ambientazione slava disturbasse, era difficile liberarsi da certe immagini, intense, visionarie, della città: i crepuscoli, la folla, le strade. I sogni erano raccontati con una precisioneche sembrava presa da Freud: Ecco ora il suo sogno: egli segue con suo padre la strada che conduce al cimitero; entrambi passavano davanti al cimitero.

Si alzò e andò verso la finestra. Guardò fuori dai vetri la nebbia lattiginosa, poi ritornò al tavolo e si sedette.

Riaprì a pagine 30: Ho cercato la tristezza, la tristezza e le lacrime in fondo a questo bicchiere, e ve le ho trovate, le ho assaporate.

Richiuse il libro.

   «Niente?», chiese l’editore alzando gli occhi.

   «No», rispose il lettore sedendosi.

Aggiunse:

   «Solo l’ultimo mi lasciava qualche dubbio».

   «In che senso?».

Il lettore esitò.

   «C’è una certa atmosfera», disse. «E anche alcune immagini che colpiscono».

   «Ma le sembra da pubblicare?»

   «No», rispose il lettore guardandolo. «Non convince. Ci sono molti errori, molta enfasi. È un autore che va tenuto d’occhio per il futuro».

   «Me lo faccia vedere».

Il lettore gli porse il manoscritto e l’editore lo guardò sorpreso.

   «Ma questo non doveva giudicarlo», disse. «Come mai è finito in mezzo agli altri?».

Il lettore aprì le braccia:

   «Non lo so».

   «Non mi dica che non si è accorto che è una traduzione».

   «No», rispose il lettore fissandolo. «Non l’ho capito».

Aggiunse:

   «Questa mattina sono molto stanco».

Chiese:

   «Di quale opera?».

L’editore lo guardava incredulo:

   «Ma è Delitto e castigo», disse.

 

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2 Commenti

  1. Francesca Rita Rombolà

    3 Settembre 2019 a 11:35

    Delizioso racconto… davvero “micidiale”. Ben strutturato e ben preparato soprattutto per il finale(si direbbe davvero a sorpresa).
    Il mestiere di Editor(mettiamolo pure con la e maiuscola)? Solo chi lo ha svolto, praticato e soprattutto vissuto sulla propria pelle può odiarlo, disprezzarlo, amarlo o apprezzarlo. L’ Editor talvolta (non è escluso che lo sia il più delle volte o quasi sempre)è una specie di boia, di aguzzino e di torturatore; e, alla fin fine, una sottile controfigura del grande inquisitore, consciamente o inconsciamente poco importa.

    Vorrei che i miei complimenti per questo racconto giungessero all’autrice Ginevra Valenti.Grazie.

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