”Quando morì Vladimir Illich Ulianov, detto Lenin…
LENIN FU IL VERO PADRE DEL TOTALITARISMO
Quando morì Vladimir Illich Ulianov, detto Lenin, il 21 gennaio del 1924, la delegazione dei comunisti italiani al suo funerale non era guidata da Gramsci o da Togliatti, ma da Nicola Bombacci, per espressa volontà del Cremlino. Bombacci era il compagno italiano più vicino a Lenin; era a capo dei massimalisti rivoluzionari, guidò la scissione dei comunisti, volle la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. E poi fondò in Italia La Verità, sulla scia della Pravda di Lenin e Trozskij. Salvo concludere la sua vita da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi ex-compagni a Piazzale Loreto, accanto al corpo di Mussolini.
Gramsci aveva vissuto in Russia per due anni, ma poco prima della morte di Lenin aveva lasciato Mosca. Togliatti, invece, sarebbe arrivato due anni dopo la morte di Lenin a Mosca e vi restò per 17 anni.
L’Italia fascista era stato tra i primi paesi europei a riconoscere l’Unione Sovietica. Poco prima, Mussolini e Lenin si erano contesi l’eredità e le spoglie del filosofo rivoluzionario Georges Sorel, morto in Francia nel 1922. Entrambi esuli rivoluzionari in Svizzera, si racconta che Lenin e Mussolini si siano incrociati a una lezione di Vilfredo Pareto a Losanna. Nella biografia che dedicò a Marx, Lenin cita un solo filosofo italiano, Giovanni Gentile; ma nella traduzione italiana curata da Togliatti nel 1950, il riferimento di Lenin a Gentile venne cancellato. Lo uccise per la seconda volta.
Dopo i funerali, Lenin fu mummificato e sepolto in un mausoleo come un faraone egizio o un santo cristiano, oggetto di venerazione se non di adorazione. Stalin proseguì la linea e i metodi di Lenin, pur adattandoli a un contesto mutato fino a riscoprire l’orgoglio nazionalpopolare russo. Del resto, anche Lenin aveva in qualche modo adattato la teoria di Marx alla storia contemporanea e alla realtà russa: la classe operaia e la dittatura del proletariato furono di fatto sostituiti dai rivoluzionari di professione e dalla dittatura del Partito Comunista.
Per molti decenni l’ideologia del comunismo fu sintetizzata nella formula Marx-leninismo: Lenin non solo teorizzò e realizzò la rivoluzione comunista e marxista, ma fu il vero padre del totalitarismo, il male del Novecento. Ogni altro totalitarismo discende da lui, per eredità, analogia e contrappasso.

I comunisti italiani si riconobbero tutti nel solco di Lenin, in testa Gramsci e al fascismo rimproverarono piuttosto di essere un totalitarismo incompiuto perché si era compromesso con il capitale, la monarchia e la chiesa. Nel 1924, prima su Ordine nuovo e poi su l’Unità, Gramsci elogiò “Lenin capo rivoluzionario” la sua azione e la sua dottrina, riconoscendosi senza riserve nel suo solco. E rimproverò a Mussolini di aver mancato l’occasione che gli offrì il 1914 dopo la settimana rossa e di aver abbandonato il marxismo, accettando poi il compromesso col mondo capitalistico, cattolico e borghese. Gramsci paragonò il falso capo
Mussolini al vero duce Lenin, con la sua benefica dittatura del proletariato e dei soviet, che definì cesarismo progressivo. Avrebbe potuto chiamarlo pure zarismo progressivo, considerando che Czar deriva appunto da Caesar. Scrive Gramsci entusiasta: “Tutto è stato riordinato dalla fabbrica al governo, coi mezzi, sotto la direzione e il controllo del proletariato, di una classe nuova, al governo e alla storia”. I milioni di vittime, le sanguinose repressioni, la soppressione di ogni libertà e di ogni diritto, non contano. Dettagli contabili che sfigurano rispetto alla Grande Promessa del Comunismo. Il gulag staliniano sarà la prosecuzione coerente del terrore e della deportazione già avviati da Lenin. Varando il Codice penale sovietico, nel 1922 Lenin sosteneva: “Il tribunale non deve eliminare il terrore, prometterlo significherebbe ingannare se stessi e ingannare gli altri; bisogna giustificarlo e legittimarlo sul piano dei principi, chiaramente, senza falsità e senza abbellimenti”. Erano già passati cinque anni ormai in Russia dalla Rivoluzione ma il terrore anziché terminare si fece regime, pratica ordinaria di potere.
È sorprendente l’immunità di cui ancora gode il giudizio storico su Lenin: ogni nefandezza viene scaricata su Stalin e sulle degenerazioni del comunismo, non volendo riconoscere che erano già tutte avviate nell’epoca di Lenin. Osservò Solzenicyn: “Hanno inventato il termine stalinismo. Ma non c’è mai stato nessuno stalinismo. Fu un’invenzione di Krusciov per attribuire a Stalin quelli che sono invece i caratteri fondamentali del comunismo, le sue colpe congenite. In realtà aveva già detto tutto Lenin”. Impressiona ancora una volta l’oblio perdurante su Lenin e il leninismo, soprattutto nostrano; una specie di corale amnesia che somiglia all’omertà, soprattutto se la paragoniamo alla ossessiva attualizzazione-eternizzazione del nazi-fascismo, di cui si parla quotidianamente, fino a monopolizzare la memoria storica, anche se il fascismo fu fenomeno storico assai più breve del comunismo, nacque dopo la rivoluzione leninista e morì assai prima del tramonto dell’Unione Sovietica.
Dei ritratti nostrani di Lenin resta vivo quello che gli dedicò a Parigi nel 1932 Curzio Malaparte, Il buonuomo Lenin(1) (riedito pochi anni fa da Adelphi). Contrariamente a chi vedeva in Lenin il despota asiatico, Malaparte riteneva Lenin un piccolo borghese, cinico e freddo, pervaso di intellettualismo e privo di senso della realtà, meticoloso nella sua “crudeltà platonica”; non un romantico rivoluzionario ma “un funzionario puntuale e zelante del disordine”, fanatico ma cinico, idealista ma opportunista, lucido calcolatore. In fondo l’Unione sovietica che lasciò, i suoi apparati e la sua burocrazia, sembrò fatta a sua misura. E il comunismo che Lenin lasciò in eredità alla Russia e al mondo, fu figlio di quel suo assoluto irrealismo. Marx aveva detto che il comunismo è “l’abolizione dello stato di cose presenti”. E da quel precetto venne fuori Lenin, nemico assoluto della realtà e degli uomini quali realmente sono, sacrificati a un’umanità ventura che non venne mai al mondo.

Approfondimenti del Blg
“In tutto il corso della sua vita, Lenin non si è mai battuto per la libertà. Si è battuto per ben altro. Le illusioni umanitarie e le ideologie democratiche dei patrioti russi del diciannovesimo secolo, le romantiche aspirazioni liberali dei Decembristi, lo spirito di sacrificio dei nichilisti, non rientrano nella sua logica. Egli non si batte per la libertà, ma per il potere, rien que pour le pouvoir. La parola libertà, durante gli anni d’esilio, dalla prima “Iskra” al suo ritorno in Russia, gli suona male in bocca: è una di quelle parole che egli pronunzia sorridendo e stringendo gli occhi.”
«Spero di mostrare un Lenin del tutto diverso da come appare agli occhi dell’opinione pubblica europea» confida Malaparte all’amico Halévy nel settembre del 1931. Il suo intento era, in realtà, ancora più audace: mostrare Lenin come appare agli occhi dei «Russi intelligenti». O, se vogliamo, analizzare un fenomeno entro la sua stessa logica, come già aveva fatto nell’Intelligenza di Lenin per spiegare il bolscevismo. E il nuovo libro, uscito a Parigi nel 1932, avrà l’effetto di una scossa elettrica. Perché in questo romanzo-ritratto Lenin non è affatto il Gengis Khan proletario sbucato dal fondo dell’Asia per conquistare l’Europa, raffigurazione ideale per chi voglia ricacciarlo al di là dei confini dello «spirito borghese»: semmai, un piccolo borghese egli stesso. Di più: freddo e riflessivo, sedentario e burocratico, animato da un’immaginazione meticolosa e da una «crudeltà platonica», ostile a ogni romanticismo terrorista e incapace di agire all’infuori della teoria, a suo agio più nelle discussioni politiche e nelle faide personali che non nel confronto con la realtà, Lenin non è che un europeo medio, un buonuomo violento e timido, un «funzionario puntuale e zelante del disordine», un fanatico e un opportunista, per il quale la rivoluzione è una questione interna di partito, il risultato di ossessivi calcoli. Non a caso quando, giunto al potere, non potrà più attendere gli eventi e osservarli da lontano, e – proprio lui, dotato di un vivo «senso dell’irrealtà» – dovrà fare i conti con la realtà, si risolverà a inventarla, a crearla, imponendola «a se stesso, ai suoi collaboratori, al popolo di Russia, alla rivoluzione proletaria, all’avvenire dell’Europa».