”L’erba voglio non cresce nel giardino del re. O forse sì, cresce nel cortile dell’Homo Deus
L’ERBA VOGLIO
L’erba voglio non cresce nel giardino del re. O forse sì, cresce nel cortile dell’Homo Deus. Marcello Veneziani ha svolto di recente una riflessione che merita di essere sviluppata, sull’ eccesso di desiderio della nostra società. Innanzitutto, un’osservazione: la volontà e il desiderio compulsivi sono aspetti di un allontanamento dalla realtà ogni giorno più grande. Nessun limite, nessun principio di verità, solo un desiderio ipertrofico, alimentato da quella che Alain De Benoist chiama metafisica della soggettività, chiave di volta della modernità. Conto solo io. Me, me e niente altro.
L’erba voglio della fiaba, in realtà, crebbe nel giardino del re: bastò che il capriccioso sovrano chiedesse “per favore”. Era un semplice apologo della buona educazione. Nel nostro mondo, vogliamo volere: è sufficiente potersi pagare i desideri, o i capricci, oppure farli diventare prima senso comune, poi legge. Io voglio, e la mia volontà non può essere contrastata da alcunché, neppure dall’evidenza e dalla verità, che non è più esterna a me, ma è ciò che io voglio che sia. La società deve rispettare “me”, bandire tutto ciò che mi potrebbe disturbare.
Io sono – ahimè – un uomo eterosessuale di una certa età con i capelli bianchi, ma se decido di essere una lesbica nera in transizione di genere, è così che mi si deve considerare: lo voglio, così sia. Se mi sentissi trentenne, è come tale che lo stato civile deve registrarmi, perbacco. Lo desidero e lo pretendo. C’è del metodo in questa follia, qualcosa che ricorda il fenomeno della soggettivazione analizzato da Michel Foucault, l’insieme delle matrici normative dei comportamenti che mirano ad un’azione di potere su di essi. Infatti, il primato dell’erba voglio non è altro che il prodotto di una strategia di potere, un dispositivo attraverso cui il Dominio neutralizza ogni energia spirituale, comunitaria e antagonista dell’uomo “normale”.
Schiavo senza catene, prima generazione felice della condizione servile, l’homo deus (in realtà homunculus) viene prima denaturato e deculturato – ovvero ridotto a un sapere immediato, strumentale, privo di profondità, l’addestramento a funzioni predefinite – e quindi infantilizzato. È il bambino la perfetta macchina desiderante, indifferente all’altro, tirannello teso a imporre i suoi capricci, pronto a gettare via in un attimo il giocattolo che pretendeva un momento prima, abbagliato da un desiderio nuovo, attratto da un colore più vivace, da un oggetto più vistoso.
L’erba voglio di massa è il prodotto di un atto di volontà più alto e astuto, quello del potere. Se io voglio e desidero, sbavo come il cane di Ivan Pavlov al pensiero di piaceri sempre nuovi, del consumo, della soddisfazione delle pulsioni; vivo in una bolla di individualismo (eterodiretto) che mi allontana da ogni passione comune, da qualunque pensiero non conforme, anzi, dal pensiero tout court. Abbiamo sperimentato tutti l’urgenza, la potenza esclusiva del desiderio che diventa tensione totalizzante, volontà piegata a un unico obiettivo. L’astuzia diabolica del sistema è inventare, rilanciare, mostrare la meraviglia di altri desideri, altri consumi, sollecitare pulsioni sempre rinnovate.
È probabile che le neuroscienze abbiano fornito al potere la capacità di attivare o disattivare aree cerebrali attraverso l’iterazione di messaggi, l’esclusione di altri, l’induzione inconscia o subconscia di desideri. Operazione certo ardua, ma non se si dispone di ogni mezzo: cultura, comunicazione, educazione. Fu Sigmund Freud a comprendere l’importanza del principio di piacere (lustprinzip). Il fondatore della psicanalisi teorizzò la vittoria delle pulsioni infere – L’Es – sull’Io cosciente e sul Super Io, l’introiezione dei codici etici e, in definitiva, del limite, della distinzione bene-male, giusto-sbagliato. Il desiderio fatto imperio – l’erba voglio – anticipa il piacere. L’uomo ridotto all’Es risponde allo stimolo: il gioco è fatto.
Osservò Josè Ortega y Gasset che molti uomini, come i bambini, vogliono una cosa, ma non le sue conseguenze. Vogliamo il consumo, possedere merci, e intanto deploriamo l’inquinamento e lo sfruttamento della natura. Vogliamo il piacere sessuale, ma sganciato dalla procreazione. Luigi Pirandello scriveva: riponi in uno stipetto un desiderio. Aprilo: vi troverai un disinganno. Per questo il sistema non permette il rinvio, l’atto più specificamente umano: l’animale non rinvia i suoi istinti, l’uomo sì, sino a controllarli e trascenderli. L’erba voglio fa regredire alla condizione animale, obiettivo finale del Dominio.
L’uomo è un predatore che aggredisce tutto, in primo luogo i suoi simili, i conspecifici. Le oligarchie diventano tali in quanto esercitano al massimo grado quell’istinto. Poiché tuttavia esso è comune a tutti, anche agli schiavi, lo deviano verso le pulsioni più basse, i desideri compulsivi, la volontà capricciosa. Questo è anche l’esito naturale del liberismo economico, per il quale l’uomo non è che un consumatore. Di qui l’abolizione del limite, il disprezzo e il discredito del rinvio e della rinuncia per motivi morali e spirituali. La libertà liberale è il trionfo della volontà illimitata, privata del libero arbitrio, nel quale è compresa la decisione. Falsa libertà “assoluta” nel senso di sciolta da ogni legame o barriera, il cui esito è la guerra di tutti contro tutti – lo scontro inevitabile di volontà opposte – con un unico rimedio, il potere totale che Thomas Hobbes chiama Leviatano.
L’autentica libertà implica la scelta, il pensiero meditante, prevede la possibilità di pronunciare dei no. Proibito: l’erba voglio diventa obbligatoria, da consumare seduta stante, continuamente, come continuamente sposta più in su l’asticella del desiderio. È una droga il cui effetto collaterale è l’infelicità perpetua: la volontà soddisfatta non rende al sistema, il desiderio va rilanciato e riorientato alla massima velocità. La bussola è nelle mani dell’oligarchia, a noi resta il compito di obbedire, in apparenza alla nostra volontà desiderante, in realtà a interessi esterni. La velocità del meccanismo è essenziale, tanto che Paul Virilio chiamò il presente dromocrazia, il potere della velocità e definì “dissuasi” le sue vittime – noi – distolte da qualunque reazione dalla rapidità dei fenomeni.
L’erba voglio ingiallisce rapidamente: usa e getta. Deve diventare dipendenza, necessità, come la sostanza tossica per il drogato. Voglio, anzi devo volere. Voglio quel prodotto, pretendo quel diritto, esigo di provare quell’emozione, sperimentare quel brivido. Voglio un figlio – e lo voglio con certe caratteristiche – anche se sono vecchio, o celibe, omosessuale, sterile. Voglio essere considerato, “percepito” come donna, se questa è la mia volontà revocabile, insindacabile. Allo stesso modo, non voglio assumere le conseguenze dei miei atti. Pretendo sicurezza, un’ossessione nuova, sorella della previsione e figlia della dea Scienza.
Sesso libero e compulsivo, aborto gratuito, e che ogni relazione – umana, sociale, economica, sentimentale – sia provvisoria, sottoposta a protocolli prefissati, regole scritte. Nel regno della sicurezza – pretesa innaturale – l’essere umano vive avvolto in un enorme profilattico che isola e distanzia in nome della paura. La sicurezza è un’erba voglio geneticamente modificata; per desiderare in santa pace, cediamo libertà a chi garantisce provvisoria tranquillità, protezione, l’esistenza in vita: l’antidoto contro i veleni auto inflitti.
Voglio qualsiasi cosa e il suo contrario: se mi va, abolisco le frontiere, il tempo e lo spazio. Non più “tutto e subito”, pretesa in fondo infantile, ma il “tempo reale” che cancella lo scorrere naturale, la durata, restringendola nell’attimo. Povero Orazio, se sapesse quanto è superato il suo carpe diem, sconfitto dal presente continuo, la sequenza di puntini della modernità terminale che si rincorrono sino a raggiungersi. L’eccesso di desiderio ha un’ulteriore conseguenza: ciò che io voglio perde l’anima, diventa cosa, oggetto. Se “voglio”, desidero una persona o il suo corpo, la sua volontà è ininfluente, la devo afferrare, usare, consumare. E’ per un attimo, poi mi volgerò a un altro desiderio in una corsa senza fine.
Vince chi detiene le chiavi del desiderio, il padrone dell’erba voglio. La volontà non si ferma, non voglio solo possedere e padroneggiare gli apparati tecnologici sempre nuovi, le macchine che ho a disposizione, voglio renderle parte di me. Da mezzi, diventano fini. Mi trasformo in una propaggine della macchina perché di essa non posso più fare a meno, perché è il tramite del desiderio e diventa essa stessa oggetto di desiderio. Voglio comprare un nuovo prodotto, evviva Amazon che me lo recapita a un prezzo “favorevole”. Per il suo padrone, evidentemente, se Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo. Per consumare, desiderare, volere, ho necessità di spendere: benvenuta la carta magnetica che trasforma il desiderio in realtà, beninteso se lorsignori mi fanno credito. L’erba voglio si acquista preferibilmente online a mezzo PayPal, Visa, Mastercard: meraviglie del progresso.
Meglio ancora se ci sarà una card universale: la desidero, anzi la voglio, fate presto. Per favore, ve ne prego, impiantatemi un chip, un meccanismo multifunzionale capace di trasmettere i miei desideri a una Matrix che li elaborerà in tempo reale, e li esaudirà addebitando la spesa su un conto che diventerà il nastro, la macchina di Turing della mia vita. Presto vorrò ibridarmi con le macchine: sarò un cyberuomo desiderante. Qualcuno obietterà che non sarò più un uomo: al contrario sarò l’“uomo più”, l’uomo aumentato, traguardo del transumanesimo. Intanto il mondo è tutto trans: trans-sessuale, trans-nazionale, trans- itorio.
Voglio stordirmi, divertirmi, provare piacere, andare oltre gli angusti limiti umani. Ancora Freud: eros e thanatos, istinto di vita e pulsione di morte camminano vicine. Al tempo dei greci, Dioniso – ebbrezza, caos, esaltazione – era sconfitto da Apollo, ordine, armonia, retta ragione. Siamo regrediti al caos, all’informe e lo abbiamo fatto smontando pezzo per pezzo – decostruito – una civiltà che aveva raggiunto un delicato equilibrio. Dio aveva vietato all’uomo i frutti dell’albero del bene e del male. Aveva cioè messo in guardia, inascoltato, dall’erba voglio.
Per chi non ce la fa, per chi è debole, malato o depresso – magari perché ha esaurito i desideri – è pronto l’estremo atto di volontà: dopo la volontà di non riprodursi, arriva la volontà legale di morire, ma in sicurezza, in una linda stanza igienizzata dove un boia in camice bianco, vincitore di concorso dell’azienda sanitaria, esaudirà l’ultimo desiderio, quello di sparire. Poco importa, per chi è dipendente dell’erba voglio, se il potere ha deciso per noi anche la morte. L’ eccesso di desiderio ha il paraocchi come i cavalli; lascia vedere solo ciò che conviene al Signore. Bizzarra condizione di schiavi soddisfatti: merito dell’erba voglio, che fa volere ciò che conviene a chi la coltiva e rivende a caro prezzo.
Sì, l’erba voglio cresce nel giardino del re, che la distribuisce spacciandola per libertà; il migliore strumento di potere sui sudditi, la corda a cui ci impicchiamo giulivi dopo averla pagata con carta di credito. Proprio vero, l’homo deus è il più intelligente degli esseri…
Roberto Pecchioli
Whisky Cigar and workout
13 Ottobre 2021 a 19:13
Condivido. Da un estremo all’altro insomma.