” Simile a un rapace, chi narra saccheggia tutto ciò che la vita, giorno per giorno, gli mette a disposizione sotto gli occhi. 

    Il personaggio di un’opera letteraria nasce in modo diverso da un essere umano, che viene alla luce di prepotenza. La sua gestazione è sempre molto complessa, tuttavia il concepimento è molto simile a quello di una persona. Perché un personaggio si forma un poco per volta nella mente del suo Autore, come una vita si perfeziona nel grembo materno durante nove mesi di gravidanza. Gravidanza è un metafora in quanto potremmo davvero pensare che uno scrittore resti “ingravidato” da un idea quando il seme della sua ispirazione ha attecchito e comincia a crescere, trasferendosi dalla zona della fantasia pura e semplice alla zona psichica della speculazione razionale. 

   Nella mente di uno scrittore passano di continuo fantasmi di personaggi, nuclei di possibili storie, ma spesso somigliano al passaggio delle nuvole in cielo, che non si sa dove vadano a finire. Ma ecco che un giorno uno di questi fantasmi si fissa, prende forma, resiste.

Il grande Eduardo de Filippo diceva che se una storia che ha pensato la dimentica in fretta, significa che non era importante. Può darsi che sia un illusione, e allora il vento se lo porterà via dopo poco tempo. Ma se l’ispirazione ha qualche fondamento, se la mente non smette di accarezzare questa ipotesi creativa, allora ha inizio la gravidanza . una crescita che, anziché nella pancia, avviene nel cervello.

Storia e personaggio possono nascere insieme, e questa è la combinazione più fortunata. Altre volte l’idea narrativa precede lo sviluppo del protagonista. Oppure quest’ultimo si forma per conto suo, in attesa del plot, cioè della trama del racconto.

   Chi è più importante, dei due: il personaggio o la trama? Ai fini del risultato letterario credo che sia il protagonista a contare di più. Si può avere in testa una storia bellissima e originale, ma non riusciamo a realizzarla senza l’introduzione di personaggi convincenti. Viceversa, un protagonista sicuro e ben delineato riesce a trainare e a rendere viva (un romanzo è sempre una mimesi, magari simbolica, della via) una vicenda che si presentava all’inizio opaca, o povera di sviluppi.

Lessi una volta che Balzac compilava per ogni personaggio una vera e propria scheda anagrafica. È il procedimento che anch’io ho seguito fin dal mio primo romanzo, benché fossi allora ignaro che lo stesso sistema era stato adottato per i suoi romanzi dal grande Honoré. 

Del resto mi sono sempre chiesto come sia possibile fare diversamente.

   Dunque, come funziona un laboratorio di scrittura, quali sono i suoi segreti che si nascondono, come nascono i protagonisti. Per prima cosa, come al pasticciere occorre la farina, a me occorre un nome e un cognome, per poter istruire la “pratica” che si arricchirà, di giorno in giorno, di notizie e avvertenze relative al personaggio: anno e luogo di nascita, professione, città di residenza, studi compiuti, precedenti di vita affettiva anteriori alla vicenda che intendo narrare. Non importa se poi tutto questo, ovviamente, non risulterà sulla pagina. L’importante che io sappia, del mio personaggio, ogni particolare biografico, o certi dettagli significativi, per potervi costruire intorno un carattere, dei sentimenti e degli impulsi che siano attendibili e conseguenti. In altre parole, io devo imparare a conoscere il mio protagonista come se fosse una persona in carne e ossa, prima di dispormi a raccontarne gli avvenimenti.  Un personaggio di spessore evita gli stereotipi. Quando leggo di un protagonista orfano, che non ha amici, che è sempre triste a causa del suo destino e ha mille tragedie alle spalle, e che magari è destinato a grandi cose a causa di una profezia…ecco, mi avvicino alla finestra.

Un personaggio di spessore ha una storia credibile alle spalle. Sì, la parola giusta è credibile. Può essere una storia tragica, felice, intricata, lineare…come si vuole, l’importante è che sia credibile e che io l’abbia bene in testa quando creo il personaggio. Naturalmente non si deve fare l’errore di spiattellarla subito al lettore. Non dobbiamo, in poche parole, mostrargli il documento d’identità. Il personaggio lo si deve presentare poco alla volta. Non importa se non si saprà di lui se è o non è sposato fino a pagina 140, è la curiosità e la fantasia che si deve instillare nel lettore. Quando scoprirà che è sposato, gli occorrerà di scoprire ancora altre caratteristiche.

   E per un romanzo la scelta dei nomi è sempre delicata. È necessario qui possedere un orecchio particolare, non urtare la sensibilità del lettore con nomi in voga in altre epoche oppure troppo ricercati, né con cognomi di ascendenze particolari, o di estrazione geografica che farebbero a pugni con il teatro dell’azione. Un cognome dovrebbe essere (al pari del titolo di un libro, del resto) facile da ricordare, e nel contempo significativo, esemplare nella sua banalità, e non suscitare analogie. Naturalmente ci si riferisce ai personaggi che riteniamo di primo piano, per le comparse il discorso non deve necessariamente essere così inequivocabile.

Oggi, se devo scrivere un romanzo attuale mi servo di vari espedienti. Uno di questi è sfogliare riviste, quotidiani, o quant’altro alla ricerca di quel nome che mi colpisca, che faccia nascere immediatamente un’analogia con il romanzo o il racconto che ho in mente. Se invece sto lavorando a una storia retrodatata, allora vado nei cimiteri. Bizzarro vero? Ma lì, quando leggo i nomi sulle lapidi è come se percepisca la loro esistenza. Sì, perché quei nomi e quelle date hanno effettivamente un vissuto. Espletata questa formalità, quando finalmente il fascicolo dei personaggi ha un’intestazione, comincio a corredarlo di appunti di natura psicologica, che mi vengono alla mente nel corso della giornata, leggendo o guardando un film o ascoltando musica. È a questo punto che inizia il ruolo del burattinaio che comincia a intrecciare i fili delle sue marionette, ne stabilisce la relazione e ne prevede gli intrecci. Ma non in modo rigido. Anzi lasciando che ognuno di loro abbia una certa autonomia, e magari la possibilità di ribellarsi all’Autore, che è sempre segno di grande vitalità. Può succedere che un personaggio di cui si era decretata la morte, si rifiuti di morire, tanto è prepotente la sua vitalità. E in tal caso, sarà prudente lasciarlo in vita o aspettare il momento opportuno per toglierlo di mezzo, come mi capitò per il Farné Federico commerciante ortopedico, specializzato in cinti erniari, nel romanzo Ombre nere sulla laguna. Ma queste creature di fumo che sono i personaggi, da dove vengono? Dalla fantasia, dalla realtà, o da tutte e due messe insieme?

   Quando si sta scrivendo un romanzo, e non si è considerato l’ingresso di un nuovo personaggio e ti serve immediatamente un nome e un aspetto, ecco che viene istintivo usare quelli di tua conoscenza nell’ambito delle amicizie. Specialmente se hanno le caratteristiche che tu hai deciso posseggano. Così mi capitò di usare il nome di un mio amico nel romanzo Il copista, un parrucchiere che in quel momento aveva un gran bisogno di un nome e un aspetto. E chi, più di lui, acconciatore di lungo corso, aveva tutte le caratteristiche che ricercavo. Così lo inserii nei personaggi, naturalmente oltre al nome e all’aspetto, ne sottolineai i tic caratteristici che lo contraddistinguevano nella vita reale.   

   Altre volte accade che un personaggio minore, che si era prefigurato di contorno, una semplice figura del coro, acquisti invece una rilevanza particolare a dispetto dell’autore stesso. In questi casi è opportuno lasciargli le redini sul collo e permettere che si sviluppi a sua piacimento, perché vuol dire che il personaggio è vivo e chiede spazio. Dunque sarebbe un errore chiuderlo rigidamente nei limiti del progetto. Scrivere un romanzo è un avventura dove tutto può capitare, e bisogna saper adeguarsi ai mutamenti che il romanzo, pagina dopo pagina, suggerisce allo scrittore. Così mi capitò con Grazia Galimberti, una semplice sciampista, sempre nel romanzo Il copista che, pur amando il protagonista della storia, la sua figura era cresciuta durante la storia fino a quando, notando un particolare, aveva capito l’inganno che fino ad allora lui era riuscito a celare a tutti. Così con grande curiosità le diedi il suo spazio che si era conquistato. Per tre anni, mentre concepivo e scrivevo il romanzo, vivevo ogni giorno insieme ai miei personaggi. Ciò che facevo durante il giorno, lontano dai tasti del computer, i pensieri che formulavo, passeggiando, leggendo, guardando un film o guidando l’auto, tutto finiva dentro il grande imbuto del romanzo. E se Margherita facesse questo? E se Mario reagisse in questo modo? Gli interrogatovi si accumulavano senza posa, e solo attraverso la scrittura le varie ipotesi trovavano soluzione, sfogliando quella cartella gonfia di proposte, magari pazze o assurde, che spesso è necessario smantellare. 

Certo, nel caso di Un biglietto di sola andata, ero sorretto da una storia che avevo vissuto in prima persona, sulla mia pelle, sperimentando io stesso gli effetti devastanti di quei patimenti e le gioie di quelle speranze. Ma era giusto che una vicenda così privata dovesse diventare pubblica attraverso le pagine di un racconto?

   Questa è la ragione per cui, senza tradire la realtà vissuta, perché lo scrittore, se vuole andare al fondo di se stesso è costretto in qualche modo a questo esercizio spudorato, egli non può avere pudori verso se stesso o riguardi verso altri, che non siano dettati dal buon gusto, e deve spietatamente mettersi a nudo, senza mai preoccuparsi di chi potrà magari riconoscersi in una particolare situazione, in un tic, in una battuta di dialogo. Simile a un rapace che saccheggia dove trova, il narratore si serve dei materiali che la vita gli mette sotto gli occhi, come se il mondo fosse una immensa ribalta, un catalogo di situazioni a cui attingere, un repertorio di casistiche dove affondare gli artigli. Del resto, quando leggiamo qualcosa che ci prende e ne siamo coinvolti al punto di dimenticare che stiamo leggendo, è difficile pensare che quelle parole siano frutto di pura invenzione dell’autore, o che certi personaggi non siano stati presi a modello. 

Un tempo si usava descrivere minuziosamente la fisionomia di un personaggio. Io ho sempre lasciato che fosse il lettore a costruirsi da sé le caratteristiche fisiche dei miei protagonisti, suggerendogli al massimo qualche particolare: il colore dei capelli o la statura, la forma delle mani o il modo di camminare, e sostituendo alla raffigurazione l’allusività dei gesti. Dunque possiamo tutti rispondere con Flaubert: “Madame Bovary c’est moi”. Perché, qualunque sia il modello a cui ci si ispira, è la fantasia creatrice che lo fa vivere e lo rende unico. Come il Micawber di Dickens o il Raskolnikov di Dostoevskij. Credo sia questo il segreto della letteratura: una sublime mescolanza di verità e mistificazione.  

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