Se il buongiorno si vede dal mattino, un buon libro lo si vede dal suo inizio. Siamo appena entrati in una libreria alla ricerca di una nuova lettura, migliaia di titoli affastellati sugli scaffali. Quale scegliere?

Ed ecco che una copertina dai colori sgargianti ha attirato la nostra attenzione, ci avviciniamo, prendiamo il libro, lo apriamo distrattamente. Il palmo della mano accarezza la carta ed ecco il nostro occhio cade sulle prime righe, sperando che bastino a dirci che, sì, quello è esattamente il libro di cui avevamo bisogno. Il titolo rimane comunque sempre un elemento esterno al testo vero e proprio mentre l’incipit ne è parte fondamentale e non appare solo come un segnale di riconoscimento generico di identificazione dell’opera, ma stabilisce subito un meccanismo di complesse attese. Poche parole a racchiudere un mondo o forse a lasciarne fuori infiniti altri possibili. È l’incipit un esplosione semantica che genera e avvia il cosmo romanzesco e ci consente di individuarne i caratteri, di intuire panorami e sviluppi futuri, questo avviene non appena leggiamo le prime dieci o venti righe. È questa la sfida e la missione di ogni incipit nella storia della letteratura. L’inizio è sempre una fase cruciale e delicata, è quel preciso momento in cui si decide di mettersi in discussione, di mescolare le carte in tavola per farsi largo nel mondo.

 

Il buio oltre la siepe, titolo originale To Kill a Mockingbird (Uccidere un usignolo), è un romanzo della scrittrice statunitense Harper Lee.

Pubblicato nel 1960 ebbe un immediato successo, e nel 1961 vinse il premio Pulitzer per la narrativa.

 

In una cittadina del “profondo” Sud Maycomb, Alabama, durante la grande depressione, l’onesto avvocato Atticus Finch è incaricato della difesa d’ufficio di un negro accusato di violenza carnale; riuscirà a dimostrare l’innocenza, ma il negro sarà ugualmente condannato a morte. La vicenda, che è solo l’episodio centrale del romanzo, è raccontata dalla piccola Scout la figlia di Atticus, che segue le piccole avventure quotidiane, che scandalizza le signore con un linguaggio non proprio ortodosso, testimone e protagonista di fatti che nella loro atrocità e violenza non riescono mai a essere più grandi di lei. Le estati trascorse con il fratello Jem (Jeremy Atticus Finch) e l’amico Dill (Charles Baker Harris)(1), e i tentativi di far uscire di casa lo strano vicino Artur “Boo” Radley. Nel suo raccontare lieve e veloce, ironico e pietoso, rivive il mondo dell’infanzia che è un po’ di tutti noi, con i suoi miti, le sue emozioni, le sue scoperte, in pagine di grande rigore stilistico e condotte con bravura eccezionale.

L’autrice qui opera una tecnica sicura, cala il lettore all’interno della storia senza spiegargli gli antefatti così da ritrovarsi spiazzato, ma solo per un attimo perché poi fa capire che per saperne di più – su come Jem si sia rotto il braccio e su chi sia la voce che parla – costringe a proseguire nella lettura. Insomma, Harper Lee dimostra di saperne qualcosa in materia già con poche parole.

 

(1)Il personaggio di Dill, compagno di giochi dei due protagonisti, si richiama allo scrittore Truman Capote, amico d’infanzia dell’autrice, il quale la spinse a raccontare in forma romanzata gli episodi della loro adolescenza.

Ecco come inizia il romanzo:

Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all’epoca in cui si ruppe malamente il gomito sinistro. Quando guarì e gli passarono i timori di dover smettere di giocare a football, Jem non ci penso quasi più. Il braccio sinistro gli era rimasto un po’ più corto del destro; in piedi o camminando, il dorso della sinistra faceva un angolo retto con il corpo, e il pollice stava parallelo alla coscia, ma a Jem non importava un bel nulla: gli bastava poter continuare a giocare, poter passare o prendere la palla al volo. Poi, quando di anni ne furono trascorsi tanti da poterli ormai ricordare e raccontare, ogni tanto si discuteva di come erano andate le cose, quella volta. Secondo me tutto cominciò a causa degli Ewell, ma Jem, che ha quattro anni più di me, diceva che bisognava risalire molto più indietro, a precisamente all’estate in cui capitò da noi Dill e per primo ci diede l’idea di far uscire di casa Boo Radley.

 

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